Rovine d’Europa

L’autodistruzione dei kamikaze e quella dell’Occidente. Torbidità e conoscenza. Le ambiguità di Avaaz e quelle di WikiLeaks. Forme del conflitto dalla Jugoslavia a Bruxelles. I generosi intenti di Varoufakis e le imbarazzanti performance del DiEM 25. Contro la spoliticizzazione e la disgregazione: creare società.

 

1. Desiderio di distruzione

Gli jihadisti vogliono distruggerci perché anche loro, così come questa Europa, desiderano autodistruggersi. Nonostante alcune diversità di stile, una strana affinità da perdenti li lega: infatti, guerra santa e neoliberismo, pur nelle apparenti diversità, sono straordinariamente simili nell’unire spietatezza e inefficacia. Non è uno scontro tra culture: è il cortocircuito di ognuna. Ma è troppo banalmente distruttivo sputare su intere civiltà, oppure sentenziare che ad essere distruttive siano l’economia e la religione in quanto tali: più interessante, anche se comporta la scomoda distruzione di molti facili luoghi comuni, è cercare di comprendere come Occidente e Islam abbiamo a lungo negato i loro rapporti, e perché gli attacchi alle città vengano spesso proprio dal loro interno.

Va così riconosciuto il carattere di scambio con cui ogni civiltà si forma, e quindi vedere quanto l’Islam ha di cristiano, quanto i cristiani di ebraico, e così via. Inoltre, se le forme contemporanee del conflitto non sono conformi alla logica dei blocchi e si costituiscono per spazi adiacenti e utilizzando ogni strumento quale arma, c’è l’enorme limite che le modalità della partecipazione politica non nemmeno dove la politica sta di casa.

L’autodistruzione della distruzione ha innescato il proprio cortocircuito, e non c’è scampo, coinvolge ovunque ogni ovile: per molti, l’unico rammarico è che, se ci sarà un dopo, non resterà più molto da distruggere: nemmeno se stessi. Le rovine sono già evidenti: nell’overdose di informazione nella quale siamo immersi, il livello di base tende di continuo ad un ulteriore ribasso, in una regressione è senza scampo che sembra impermeabile ad ogni possibilità di apprendimento. L’aspetto paradossale delle condizioni in cui viviamo è che se tutti possono entrare in rapporto con tutti, ci si ritrova sempre e parlare soltanto con chi la pensa allo stesso modo.

Per rompere questa gabbia autistica è opportuno porre proprio se stessi di fronte ad una logica altra, determinando un livello di discussione diverso dallo sciacallaggio che i media hanno stabilito quale statuto. Questo può permettere di disinnescare il modo di pensare che alimenta il conflitto, anche se a volte è necessario farlo esplodere, per dimostrare l’inconsistenza di certe posizioni. Sui social questo può anche essere un gioco divertente da fare, ma non è detto che tutti lo prendano bene.

Strano a dirsi, è questa democrazia raffazzonata ad estendere indiscriminatamente forme di schiavitù, che fa comodo tanto a élite di inetti quanto populismi dementi. Prima si invoca partecipazione e cambiamento, poi ci si accontenta del primo uomo della provvidenza che passa. Tutto resta fermo fino al crollo, soltanto la lamentala regna sovrana. Ci piace così: così abbiamo sempre fatto. Non ci sappiamo governare. Incapacità di visione e paralisi decisionale addirittura ci consolano.

Per uscire da questo diffuso ristagno, servirebbero quantomeno puntuali riforme istituzionali e amministrative: ma dove queste vengono dalla politica, sembra non esserci nessuna politica all’altezza delle esigenze. Anche gli antagonismi sono ormai datati e andati a male. Il cambiamento di paradigma è globale e capillare, enorme e violento. Non c’è nessuna soluzione già pronta. Nessuno al timone.

Siamo bloccati in contraddizioni che non riusciamo a risolvere; probabilmente, assisteremo a prese di posizioni sempre più veementi e più fragili, e all’inasprimento ulteriore di scontri fallimentari e inconcludenti. E quindi ad altri crolli e altre lagne, per poi abituarci a tutto, come sempre. Forse, ci salverà proprio qualche odiata lobby. Oppure, qualcosa inventeremo: ma cosa?

 

2. Ridurre la complessità

Occorre attraversare i vecchi e nuovi media dove tutti ci sentiamo confinati, per ritrovare la realtà in processi che hanno maggiore distensione. Il dato d’attualità deve essere sempre smontato nei suoi costituenti confrontato con storia e idee più ampie: altrimenti, c’è il rischio di fare da ulteriore cassa di risonanza alle cazzate, che arrestano ogni partenza possibile e impediscono qualsiasi confronto. I risultati non sono immediati, ma è urgente lavorare per ottenerli. L’importante è portare documenti e argomenti che permettano di ridurre la complessità e fare chiarezza nel torbido.

In questa torbidità, un filtro è nello stabilire cosa permetta accesso alle conoscenza, e così portare documenti e argomenti che permettano di ridurre la complessità e fare chiarezza. Tuttavia, occorre farsi delle domande sulle forme più eclatanti con cui tale esigenza viene corrisposta. C’è quindi Avaaz, che si occupa ufficialmente di cambio climatico, diritti umani e degli animali, corruzione, povertà, conflitti e tutte le cose cattive, e vuole permettere che i processi decisionali di portata globale vengano influenzati dall’opinione pubblica. Supportata dal finanziere ungherese Soros, supporta con una enfasi questioni quali il riscaldamento globale che sono in grossa parte sono una montatura, la filantropia dell’associazione si è resa responsabile di capolavori quali la dissoluzione della ex Jugoslavia, gli intervento militare in Iraq, Libia e in Siria, rendendo accettabile per la buona coscienza liberal azioni di destabilizzazioni verso obiettivi rilevanti per gli interessi geopolitici statunitensi.

C’è poi Wikileaks, guidata dall’hacker australiano Assange, che dal 2006 pubblica online dati secretati, rivelando così come le guerre globali non sono state fatte per liberare qualcuno ma per interessi: può non sembrare una grande scoperta, però i documenti servono sempre. I documenti messi in circolo sono 76.900 sull’Afghanistan, 400.000 sull’Iraq, 250.000 sulle informazioni confidenziali delle ambasciate americane: il problema è che è materiale fornito senza elaborazione, ad uso spesso dei compulsavi dell’accumulo. Ridurre le attività di intelligence a chiacchiere da serva e applicare la logica del gossip alla politica internazionale aderisce in maniera sin troppo letterale alle condizioni della comunicazione, che divora ogni mezza idea per rimpiazzarla con altre mezze idee, produce ulteriore impotenza e confusione. Piuttosto che praticare questo culto pornografico della trasparenza, è invece più opportuno essere asseritivi e al contempo problematici, ritrovare l’importanza di capacità critiche e di senso storico, nonché di di mediazioni autorevoli. Probabilmente, Assange e altri della vecchia scuola antagonista sono troppo vanitosi per rendersene conto, e gli piace più lo spettacolo che l’indagine.

Inoltre, non va sottovalutato che molte informazioni sono spesso taroccate alla fonte, perché da sempre la tattica principale di spie e controspie è quella di diffondere informazioni false. E realisticamente, in un periodo in cui il tiro al piccione è lo sport più diffuso, diffondere informazione riservate aumenta ulteriormente i rischi, che ricadono poi su chi aspetta la metropolitana. È quindi necessario che i dati vengano sempre raccordati ad una visione più ampia, cosa che, per quanto riguardi tutti, interessa poco ed è praticata ancor meno.

Così, se siamo sotto attacco, non serve affermare la spettacolare e imprecisa sparata che siamo in guerra, ma non si può nemmeno negare che la gente muoia in modi orribili e imprevedibili. Diventa così necessario valutare la precisa dimensione operativa di questi attacchi fluidi e a sciame, capaci di far diventare arma ogni cosa, non sempre rilevanti per il numero, quanto per la capacità di associare ferocia e imprevedibilità. Inoltre, va focalizzato il loro carattere peculiare, che è quello di una strana specie di social network, capillare e invisibile, adiacente al proprio stesso avversario.

Determinazione e cooperazione regionale e internazionale, spegnere i conflitti e determinare nuova crescita, far decadere ogni sostegno a gruppi terroristi: queste sono le risorse. Ci vorranno almeno quarant’anni, anche se cominciamo ora, ma comprendere gli errori già fatti negli ultimi decenni può aiutare a smetterla con gli esperimenti dannosi e anche a provvedere a sanarne le conseguenze. Le soluzioni probabilmente saranno postume, ma non possiamo lasciare soltanto rovine.

Per recuperare una prospettiva storica, un rapido sguardo alla guerra in Jugoslavia. Ancora bisogna ricostruirne le fasi in una prospettiva storica ed economica, a partire dall’indebitamento per la crisi energetica del 1979, e poi valutando l’incidenza della liberalizzazione degli investimenti esteri e dei separati piani di privatizzazione, che smantellano la federazione dall’interno a partire dalla fine degli anni 80. Se questa guerra fu un laboratorio per una globalizzazione che ancora oggi rimane non compresa, nelle forme sembrò una ripresa dei grandi conflitti novecenteschi.  250.000 morti e oltre 2 milioni di profughi è uno dei suoi lasciti.

Saltando numerosi passaggi, arriviamo ai 31 morti e 251 feriti degli attacchi a Bruxelles, dove nel 22 marzo 2016 c statisticamente parlando, non poi molti, considerando poi che è rimasta rimaste illesa la città, dove sono le principali istituzioni europee, Le forme del terrorismo sono differenti rispetto a quelle di altri conflitti, ma come fu per la guerra in Jugoslavia la loro prima linea di formazione è esattamente quella mediatica: non soltanto nelle forme della propaganda, ma anche per la diffusione di notizie false o tendenziose. Proprio per questo, ogni questione deve essere vagliata con attenzione, oscillando di continuo tra dettagli e insieme: tuttavia, qualcuno preferisce commentare tutto quello che non sa e indignarsi un tanto. A volte, qualcuno fonda movimenti.

 

2. Scarpe Diem

Il DiEM è il movimento fondato dall’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, che ha esordito il 9 febbraio 2016 al Volksbühne di Berlino, il teatro che fu di Bertold Brecht. Nel proprio manifesto si propone si propone di scongiurare l’incombente versione post-moderna degli anni Trenta senza tornare a sovranità e moneta nazionale: piuttosto, democratizzare l’Unione Europea esigendo la trasparenza delle istituzioni, restituendo così al demos centralità nei processi decisionali e avviare un nuovo processo costituente.

Cinque le aree tematiche decisive: Green New Deal, debito e sistema bancario, migrazioni e confini, trasparenza, una nuova Costituzione europea. Per realizzare nei prossimi dieci anni «un’Europa della Ragione, della Libertà, della Tolleranza e dell’Immaginazione». Tra i primi aderenti: il filosofo e psicanalista Slavoj Žižek, il giornalista investigativo Julian Assange, il musicista e produttore Brian Eno. Fin qui, bella storia.

Il 23 febbraio, a Roma si è svolto il secondo incontro. La giornata, trascinatasi con un ritardo cronico e trainata con eccessiva enfasi dall’ineffabile showman Lorenzo Marsili (European alternatives), si è svolta tra «non domande, battute non divertenti e tautologie», come scrive su Lo Straniero Bruno Montesanto. Come molti, reputavo il DiEM un’opportunità, puntuale con le difficili esigenze del momento. La parola delusione non è sufficiente ad esprimere lo sconcerto e anche la preoccupazione per le forme attuali della partecipazione politica. Le generose intenzioni di Varoufakis sembrano realizzarsi al livello più infimo immaginabile: sembra quasi voglia sfuggire ad un Minotauro che non c’è nemmeno più, usando le ali di un Icaro che non ha più nessuna ragione d’essere. Peraltro, ho avuto modo di dirglielo personalmente.

Essendone stato parte, posso trasparentemente riferire che se i temi sono sembrati confusi, le riunioni preparatorie sono state anche peggio; inoltre, la discussione del tavolo sulla trasparenza è stata riportate all’assemblea generale in modo piuttosto opaco e banalizzante, e il velocissimo minuto riservatogli alla sera è stato meno di uno spot. In pratica, si è assistito ad una grottesca e quantomeno dubbia forma di verticismo dal basso, dove questioni decisive sono state bloccate, in quanto reputate fuori tema da cosiddette “facilitatrici”, come se si fosse alla riunione di una classe differenziale. La discussione complessiva, alla quale hanno avuto il loro quarto d’ora di celebrità vecchie e nuove star del movimentismo ideologico più facilone, compreso un Assange ormai completamente virtualizzato, è risultata piuttosto infantile, contraddittoria e triste, specchio infranto di un narcisismo politicamente dannoso, culturalmente irrilevante, socialmente ininfluente.

Nonostante il nostro mondo ne sia ormai costituito, il vuoto non sempre è un’opportunità, e risulta evidente che per dare corpo ai contenuti non basta la parola “contenuti”, soprattutto quanto la base degli argomenti è piuttosto limitata, come fa notare anche il corrispondente tedesco Christian Füller. Ma i limiti dell’evento sono stati molti, rivelando anche quelli di un’impalcatura generale, i cui confini angusti e inconcludenti, celebrati da improbabili video di motociclisti in viaggio, hanno perlopiù manifestato un ibrido tra spettacolo inconsistente e stampelle ideologiche. Una nota interessanti si è ascoltata nell’assemblea serale da parte di Carla Gravina, attrice di lungo corso e parlamentare comunista, che ha indicato la necessità di un concreto orizzonte operativo per raggiungere «un potere deliberativo che esca fuori dalla retorica dei diritti e sia capace di creare relazioni nella società».

Tuttavia il DiEM, oltre a mostrare il deprimente spettacolo «dell’altra faccia della spoliticizzazione», come riconosciuto da Montesanto, ha evidenziato pure l’altra faccia della disgregazione europea, e non sembra affatto in grado di rappresentare tale processo. La sua pretesa di esprimere un «potere deliberativo» e un’«altra Europa» sembra così ridursi alle folli comparsate di una fredda serata di primavera. Non è da oggi che chi pretende di fare politica e di parlare a nome dell’umanità risulta drammaticamente in ritardo sui propri stessi presupposti e inconsapevole di dove può andare a parare, andando a arrangiare stucchevoli tentativi di potere dal basso che non arrivano spesso nemmeno al proprio buco del culo. Ragazzi del DiEM, un consiglio: fate attenzione quando attraversate la strada. Sopratutto se volete portare a spasso l’interesse collettivo!

Rimaniamo così costretti a cercare una prospettiva in quanto separa Junker e Schäuble da Draghi, e in come quest’ultimo, pur fornendo soldi alle banche, lo fa non in ossequio al monetarismo ma con l’intento di restituire ossigeno all’economia reale. Dobbiamo cercare tra le crepe di queste società quella dalla quale può scaturire una nuova visione, «l’anello che non tiene» che per  Montale permetteva l’irrompere di una diversa realtà. Da qualche parte, potrà pur esserci. L’Europa cambierà, come è sempre cambiata: se non l’hanno fermata i muri, non lo faranno nemmeno queste macerie.

Fotografia: Claudio Comandini, “Save our planet” – Berlino, ottobre 2016.

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