Catalogna. La costruzione di un regno inesistente

Dopo la fuga di Puigdemont in Belgio, accusato di ribellione, sedizione e malversazione insieme ad altri esponenti indipendentisti, e la sua dichiarazione di non presentarsi ai giudici di Madrid, si può considerare chiusa una prima fase dell’autoproclamatasi Repubblica di Catalogna. Questa, bocciata all’unanimità dalla Corte costituzionale, si è costituita, come segnalato da Bernard Guetta, nella lotta tra un leader catalano che ha trascinato un popolo che già esisteva per conto suo verso uno scontro frontale senza avere i mezzi per vincere, e un leader spagnolo che ha pensato solo a gettare benzina sul fuoco senza pensare al futuro. Una guerra tra irresponsabili, costruita in larga misura sull’immaginario e in larga misura priva di agganci con la realtà, eppure caratterizzata tanto da prese di posizioni perentorie e violente quanto violenze concrete svoltesi ai seggi e nelle strade, che rischia di spaccare la Spagna e indebolire un’Unione europea ancora impreparata ad essere unione delle regioni europee. Soluzione questa forse ottimale e possibile in un futuro, ma le cui forme e modalità possono essere definite soltanto dal quadro degli stati nazionali e dell’Europa, dato che nello sfascio istituzionale sono comunque ancora le istituzioni a poter offrire garanzie. E intanto, senza andare troppo per il sottile nel valutare degli argomenti a favore e quelli contrari, quella che è stata promossa soprattutto come una rivolta di egoisti ha poi dimostrato di aver fatto male i conti, in quanto coloro che si considerano ricchi vogliono un’indipendenza che chi davvero produce ricchezza non può affatto convalidare in quanto rischia di produrre povertà, ed è del resto proprio la vocazione catalana all’export a portare svantaggio a certe pretese. Di fatto, la Catalogna riceve il doppio degli investimenti delle altre regioni e deve a Madrid una fetta rilevantissima dei 75 miliardi di euro del debito spagnolo; nei convulsi giorni che hanno seguito il referendum del I° ottobre, peraltro persino illegale, il riflusso degli investimenti ha toccato con 229 milioni di dollari il suo picco degli ultimi tre anni, le banche hanno meditano il proprio trasferimento così come industrie, soprattutto chimiche e automobilistiche, di altissimo valore. E mentre una regione, come tutte le altre in Spagna, già autonoma, rimaneva spaccata tra non-indipendentisti e indipendentisti, questi si sono ulteriormente divisi tra estremisti e attendisti.

Il 10 ottobre la Catalogna si è formalmente dichiarata indipendente. Per un minuto. Alle 19.41 il presidente Carles Puigdemont ha proclamato la Repubblica catalana; alle 19.42 ha sospeso la secessione, per tentare «una tappa di dialogo» con Madrid. In serata c’è stato anche tempo per la firma della dichiarazione da parte delle massime cariche della Catalogna e dai rappresentanti della maggioranza di governo. Un gesto simbolico, visto che, come ha riconosciuto persino un portavoce della Cup, l’ala più oltranzista, la dichiarazione firmata «non è ancora valida», che dovrebbe così essere arrivata dalla dichiarazione d’indipendenza del 27 ottobre.  Immediate e scontate le reazioni di Madrid e le risposte del presidente Mariano Rajoi. Lo scrittore Mario Vargas Llosa, peruviano che da anni vive in esilio in Spagna e che ha già da tempo notato come ormai la politica non attiri i migliori ingegni, ha dichiarato: «la passione è pericolosa se mossa dal fanatismo: attenzione ai golpe». Rincara la dose il filosofo Fernando Savater, di origine basca e che si sente anche catalano in quanto «non esistono catalani in termini politici, ma culturali e geografici», se la riprende con quelli che senza mezzi termini definisce come teppisti. «C’è una differenza importante tra nazionalismo e separatismo. Il primo può essere anche folkloristico, può esprime sentimenti gentili, di affetto verso la propria terra, la propria cultura. Il separatismo invece aziona dei meccanismi di aggressione che diventano pericolosi, come nel caso catalano». La Spagna quindi avrebbe dovuto applicare l’articolo 155 della sua costituzione già da tempo, e così sciogliere il governo catalano e arrestare chi decide autonomamente di abbandonare uno Stato di diritto. Il separatismo catalano, lasciato a briglia sciolta per troppo tempo, ha già permesso all’ex presidente indipendentista Pujol di coltivare corruzione e frode fiscale. Così, conclude Savater, tutto si risolverà malamente, con frustrazione, risentimento e molte perplessità. Confermando il sospetto che in definitiva si trattava soltanto di un bluff da dilettanti.

Un rinnovamento delle idee di Europa e di politica potrebbe venire proprio da un’adeguata considerazione della storia di una regione di confine dalla posizione complessa e dai non pochi paradossi, che certamente ha lingua e cultura comune, ma che non è mai stata chiusa in sé. Carlo Magno attribuì la Catalogna come Marca Hispanica all’area franca, e fu la crisi dell’impero carolingio a indurre le contee catalane a non rinnovarne i rapporti con il paese alla destra dei Pirenei, mentre le questioni dinastiche successive la portarono a stringere i rapporti con quelli alla loro destra. In tempi più recenti, la Catalogna nel 1936 partecipò alla Guerra civile spagnola, come ricorda anche il sentito omaggio di Orwell, ma fu anche il loro distanziarsi dal Fronte repubblicano per compiere una propria riforma sociale a permettere l’avanzata del franchismo e quindi la sua dittatura. La situazione catalana attuale ha intanto provocato reazioni controverse e contrastanti nei paesi dell’ex Jugoslavia, memori della ferite del loro recente passato: le posizioni sono andate da quelle di chi si è chiesto se fosse legittimo chiedere l’indipendenza dell’Istria dalla Croazia, a quelli che in Serbia si sono dichiarati a favore dell’unità nazionale della Spagna. Nel referendum nel nord Italia, da sempre maggiormente legato all’area continentale, la questione catalana è stata cavalcata delle consuete intemperanze di Salvini; nonostante ciò, la consultazione si è svolta perlopiù in una cornice di responsabilità nazionale e, nonostante l’impraticabilità costituzionale dell’indipendentismo, porterà il suo peso sulla prossime trattative elettorali regionali. E dove queste già rappresentano un problema, nel Regno Unito progressi della Brexit rimangono insufficienti, e ci si ritrova a contare che servono 20 miliardi per effettuare la transizione governativa, 60 miliardi per chiudere la partita finanziaria. Come aveva già notato Eugenio Scalfari, il localismo non rinnega la società globale ma ne delinea i diversi spicchi: la globalità è la scorza, la localizzazione si identifica con le parti della polpa. Tale rapporto delinea un complesso processo di definizione di piccole patrie per nulla pacifico. La Scozia ha cominciato interamente alla cornice europea, la Catalogna aveva indetto da tempo il proprio referendum pur prescindendo da questa, in Italia rimane puramente regionalista la Lega che specula di continuo sul separatismo del nord. Tali dissensi esistono per molteplici ragioni che non c’entrano nulla con l’indipendenza politica, eppure raccolgono molti consensi. E se ‘dove’ andare e ‘con chi’ rimane un mistero, esiste un ‘come’ che per il giornalista Rodolfo Casadei, inviato speciale della rivista Tempi, sembra delineare il manuale per coltivare un’egemonia secessionista: impadronirsi di radio e tv, politicizzare la cultura, manipolare la scuola.  

 

1. Un sistema antisistema

Il sistema di potere indipendentista catalano si è costituito attorno a tre pilastri: la catalanizzazione dell’educazione, l’egemonia sugli enti incaricati di promuovere la cultura catalana, la disponibilità di un sistema radiotelevisivo completamente subalterno al governo della Comunità autonoma. Per ciascuno di questi ambiti si possono fare esempi eloquenti. Cominciamo dall’ultimo.

Il 10 ottobre scorso Joan López Alegre, scrittore e militante politico del Partito popolare in Catalogna, e Nacho Martín Blanco, giornalista catalano vicino al partito centrista (anti-indipendentista) Ciudadanos, hanno annunciato sulle pagine di El País, in un pezzo intitolato Addio al circo dell’odio, che non prenderanno più parte ai talk show di Tv3 e di Catalunya Radio, i due mezzi di comunicazione di proprietà della Generalitat, che negli ultimi anni li ha utilizzati come strumenti del catalanismo più sfegatato.

«Quando la realtà si riduce a un unico tema, la secessione, allora la presenza di un solo ospite opposto alla tesi dominante del talk show, che sostengono all’unisono gli altri tre o quattro commentatori e il conduttore stesso, a volte confortati dall’opinione di qualche telespettatore che interviene al telefono, serve solo a proiettare l’idea che si tratta di una posizione minoritaria, se non marginale, all’interno della società catalana. In queste condizioni il dissidente, per quanto agguerrito, finisce per essere un collaboratore involontario, per non dire un utile idiota, del progetto separatista». La parzialità e la deformazione della realtà da parte di Tv3 sono leggendarie. Il Wall Street Journal ha scritto: «Se in uno sceneggiato trasmesso da Tv3 impersonate una prostituta, un delinquente o un farabutto, molto probabilmente parlate spagnolo».

Mentre nella realtà un po’ più della metà dei residenti in Catalogna parla castigliano nella vita quotidiana, Tv3 propone una realtà dove quasi tutti parlano sempre catalano. Tranne i cattivi soggetti.

 

2. Una rete che «sembra Cubavision»

Quando copre l’evento della Diada, la manifestazione pubblica che ogni 11 settembre celebra l’identità catalana, Tv3 intervista ragazzi e ragazze di 11 anni che avvolti nella bandiera lanciano slogan indipendentisti. «A volte Tv3 è peggio della tivù sovietica», ha commentato Alfonso Quinta, direttore amministrativo della rete negli anni Ottanta. «A volte guardo Cubavision, e il livello è lo stesso». Alla vigilia del referendum del I° ottobre Tv3 ha invitato gli spettatori a segnalare i movimenti della Guardia civil nelle città catalane.

Per quanto riguarda il controllo sugli enti culturali, è significativa la vicenda di Òmnium Cultural, l’associazione per la promozione della lingua catalana nata nel 1961 e messa fuori legge dal franchismo fra il 1963 e il 1967. Con l’avvento della democrazia l’associazione ha potuto svilupparsi liberamente, e all’inizio del nuovo millennio ha cominciato ad assumere posizioni apertamente politiche, prima a favore dello statuto di autonomia che fu bocciato dalla Corte costituzionale spagnola nel 2010, e poi a favore dell’indipendenza e del referendum di autodeterminazione a partire dal 2012.

Negli anni precedenti il 2012 Òmnium ha ricevuto una marea di fondi pubblici deliberati dal governo catalano. Fra il 2005 e oggi l’associazione ha incassato 20 milioni di euro fra sovvenzioni pubbliche (12 milioni di euro) e donazioni private (8 milioni). L’andamento dei versamenti è molto curioso. Fra il 2006 e il 2012 Òmnium ha ricevuto annualmente sovvenzioni del governo regionale per cifre oscillanti fra 1 e 2 milioni di euro, ai quali si aggiungevano le quote degli iscritti e donazioni private. Dopo il 2012 l’aperta opzione indipendentista dell’associazione non permette più al governo catalano di finanziare Òmnium con la stessa disinvoltura di prima. Improvvisamente il bilancio cambia volto: nel 2013 i fondi pubblici scendono da 1 milione di euro dell’anno prima a 200 mila, ma la voce “vendite e prestazioni di servizi” si impenna da 264 mila a 1,85 milioni di euro.

Negli anni seguenti esplodono le donazioni di privati e imprese, che in precedenza erano molto più modeste: nel 2014 sono 3 milioni e 94 mila euro, poi 1 milione e 778 mila nel 2015 e 1 milione e 592 mila nel 2016. In pratica Òmnium ha più fondi oggi che sostiene apertamente l’indipendentismo e il governo catalano non la sovvenziona quasi più, di quanti ne mettesse insieme prima del 2012. Un’evoluzione che meriterebbe approfondimenti.

 

3. La faziosa educación

Infine la manipolazione dell’educazione. Secondo Ames, sindacato di insegnanti catalani, in 19 libri di scienze sociali rivolti a studenti fra i 10 e i 12 anni si riscontrano «approcci ideologici faziosi e tendenziosi», in particolare «mancanza di riferimenti alle istituzioni, entità e norme condivise come la Monarchia, la Costituzione, il Governo di Spagna, le strutture dello Stato, i servizi scolastici, sanitari, investigativi, sportivi, della difesa, finalizzata a far sì che gli studenti catalani non acquisiscano l’identità spagnola, cioè che non si sentano spagnoli ma soltanto catalani».

Le sezioni dedicate alla storia sono ricche di esempi significativi. Un libro spiega che nel 218 a.C. i romani entrarono in territorio catalano, e progressivamente lo occuparono militarmente: peccato che a quel tempo la Catalogna non esistesse. Carlo V imperatore del Sacro Romano Impero, che col nome di Carlo I fu il primo re a riunire nella sua persona la corona del regno di Castiglia con quella del regno di Aragona, unificando così per la prima volta tutti i regni spagnoli, viene presentato come Carlo I di Castiglia e di Catalogna-Aragona, titolo inesistente che mai ebbe.

Alfonso II d’Aragona, re di Aragona e conte di Barcellona dal 1164, diventa Alfonso I che dal 1162 sarebbe stato titolare della corona catalano-aragonese (titolo mai esistito). In un altro libro il compromesso di Caspe del 1412, relativo alla successione del re Martino il Vecchio, viene presentato come un accordo fra «tre rappresentanti di ciascun regno della corona catalano-aragonese: Catalogna, Valencia e Aragona». In realtà i regni erano due, in quanto le contee catalane facevano parte del regno di Aragona. Scriveva George Orwell: chi controlla il passato controlla il futuro.

Rodolfo Casadei, “Catalogna. Come ti costruisco il regno che non c’è”, «Tempi», a. 23. n. 42, pp. 14-15.

Fotografia: “Folla in festa” – I° ottobre, Barcellona.

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