Il disgusto della democrazia

La sopravvivenza del progetto europeo è troppo importante per restare appesa a qualche referendum: ma come è possibile accordare tra loro visioni di sinistra ed élite di governo? Žižek (Lubiana 1949), filosofo capace di mediare tra Hegel e Lacan e di spiegarli attraverso la cultura pop, parla a ruota libera al commentatore politico Benjamin Ramm. Dopo le delusioni dei radicalismi di maniera e oltre i facili miti della democrazia diretta, occorre valorizzare le élite competenti e permettere la realizzazione di una tecnocrazia democratica. Un dialogo brillante e illuminante che procede tra le contraddizioni del nostro presente e paradossi dialettici, dove un comunista si trova costretto a riconoscere: «Sono stufo di queste manifestazioni da un milione di persone – sono stronzate.»

 

Slavoj Žižek si agita sul Brexit. «Sai, l’opinione popolare, non ha sempre ragione», insiste. «A volte penso si debba violare la volontà della maggioranza». Tale sentimento potrebbe sorprendere alcuni dei suoi ammiratori, ma la nostra discussione mette in risalto una sua ambivalenza sulla democrazia di lunga data. La disperazione e la confusione della settimana passata ha soltanto rafforzato questa prospettiva. Riflettendo sulle elettori favorevoli al Leave rimasti allarmati nell’apprendere che la loro parte aveva effettivamente vinto, Žižek ironizza: «La peggior sorpresa è quella di ottenere quello che vuoi!»

Chiedo se il referendum ha posto una scelta falsa, offrendo una soluzione nazionale a problemi transnazionali. «Precisamente. L’UE è in uno stato di inerzia, e condivido questa rabbia della gente. Ma quale sarà il risultato? La Gran Bretagna perderà mesi e anni di lunghe trattative per ottenere alla fine un compromesso di merda – e durante tutto questo tempo sarà diminuito lo spazio per un vero cambiamento. L’atteggiamento britannico, di lasciare l’UE al suo destino, è la logica dell’epoca sbagliata in un’epoca di problemi globali: ecologia, biotecnologia, proprietà intellettuale. La Gran Bretagna sarà soltanto ancora più vulnerabile, esposta alla pressione del capitale internazionale senza alcuna protezione. Non vedo alcuna forza acquisita nello stare in piedi da soli».

Le ultime settimane di campagna referendaria sono stati caratterizzati da una forte critica della democrazia diretta, i cui elementi negli ultimi anni sono stati ripresi dai progressisti (cittadini giurie, il bilancio partecipativo, ecc). E che dire della tradizione marxista di esaltare questo modello, come è spiegato da CLR James? Žižek risponde: «La democrazia diretta è l’ultimo mito di sinistra. Quando c’è un vero e proprio momento democratico – quando devi davvero decidere, è perché c’è una crisi». Dice quindi che i referendum non sono adatti per risolvere le sfide transnazionali: piuttosto, preferirebbe «il costituirsi di una libera decisione, discretamente guidata» da un élite capace di discernimento.

Forse non dovremmo essere troppo sorpresi da queste osservazioni: Žižek ha spesso difeso l’idea leninista di un’«avanguardia», e ha assistito in prima persona ai pericoli del populismo in Europa orientale (e anche Walter Benjamin, esaminando l’ondata di nazionalismo dei primi anni 1930, giunse aa una conclusione simile). La ricetta di Žižek si basa su un intrigante riff marxista: «la buona alienazione», nella quale «il potere è anonimo e funzionante in modo efficiente». Egli immagina uno «stato invisibile, i cui meccanismi lavorino in background» – una sorta di «socialismo burocratico, ma non nel senso stalinista». (A suo dire, ma l’affermazione è discutibile: il problema è che «la burocrazia di Stalin non funziona, barcollando da uno stato di emergenza ad un altro»).

Questa aspirazione verso la tecnocrazia dovrebbe fare di Žižek un entusiasta sostenitore della UE, un’istituzione che riflette l’obiettivo di Saint-Simon di sostituire «il governo delle persone con l’amministrazione delle cose». Žižek dice che «il futuro dell’Europa è una questione aperta: il disorientamento della crisi offre l’opportunità di un rilancio». Fornisce credito al DiEM25 di Yanis Varoufakis, «indirizzato alla costituzione di un’alternativa “Europa sociale”», affermando che «la parte più preziosa d’Europa – il nostro contributo alla civiltà – è nelle protezioni sociali». Come Varoufakis, sostiene che la solidarietà continentale rappresenta l’unico modo per affrontare le sfide transfrontaliere, dall’ambiente alla crisi dei rifugiati. Žižek ammira come l’UE ha imposto «norme in materia di anti-razzismo e dei diritti delle donne» su tutta la linea, pur se ne deplora la gestione della crisi dell’Eurozona. Così, suggerisce che il problema con l’UE non sia l’assenza di responsabilità, ma la mancanza di capacità. Se solo le élite fossero state competenti, avrebbero potuto corrispondere alle nostre esigenze!

Il crescente scetticismo di Žižek verso la democrazia riflette la sua frustrazione nei confronti della politica radicale. «È una situazione molto strana: questa crisi dovrebbe essere l’ideale per la sinistra, che però non ha alcuna risposta». E si dice stanco delle adunate di massa prive di un piano, in Syntagma come a Tahrir. «Sono stufo di queste manifestazioni da un milione di persone – sono stronzate. Un breve momento di entusiasmo, dove siamo tutti insieme a piangere e a solidarizzare – e poi? La gente comune non vede alcun cambiamento». Žižek ritiene che le tiepidi varietà di sinistra di democrazia sociale sono impotenti nel clima attuale, non essendo riuscite ad affrontare le sfide della globalizzazione. Questo è evidente più che mai in Grecia: «Syriza ha esemplificato questa autentica tragedia: un giorno vincono, il giorno dopo si arrendono. Non è un ‘tradimento’, ma una vera e propria tragedia – un vicolo cieco radicale».

È forte la tentazione di supporre che Žižek abbia rotto non soltanto con la democrazia, ma con la stessa sinistra. Del resto, la fornitura di beni e servizi da parte dello stato non è esclusivamente un progetto di sinistra: molte culture pre-democratiche patrizie la hanno realizzata, spesso con un certo grado di consenso. E così, afferma: «Mi fido della sinistra sempre di meno. E trovo vero per lei ciò che fu detto di Yasser Arafat: non manca mai l’occasione di perdere un’occasione».

Ci sono varie contraddizioni in questi discorsi: Žižek riconosce che i modelli statalisti tradizionali sono ridondanti, ma diventa poetico nei confronti del «socialismo burocratico», desidera «un’autentica rivoluzione» ma non è affatto appassionato dello scendere in piazza; si lamenta dei «valori asiatici del capitalismo» (più onestamente definiti come «capitalismo autoritario»), ma minimizza i mandati democratici; denigra «istituzioni totalmente impenetrabili», ma afferma «io voglio efficienza, non trasparenza»; e così via. Tuttavia, anche con questi paradossi (come lui li definirebbe), fornisce chiarimenti rispetto alle sfide future.

Quello che mi ha maggiormente colpito nellla nostra conversazione non è tanto la disillusione di Žižek verso la sinistra o il suo disgusto per la democrazia, quanto quello che chiama il «sogno segreto» di un concordato che trascenda l’attività politica. Sento la sua «idea di emancipazione» non riguarda più la liberazione dall’oppressione, ma piuttosto la liberazione dalla politica stessa. Se l’Europa ha quello che Žižek definisce come «contributo unico», forse è quel «senso della fine» descritto da Hegel (il suo filosofo preferito): la tanto desiderata liberazione dal peso della storia, verso un regno al di là del fardello dell’ideologia.

“Slavoj Žižek – Benjamin Ramm “On Brexit, crisis of Left and future of Europe”, «Open Democracy» 1.07.2016.

Fotografia: Claudio Comandini, “Europa al vento” – Alba, luglio 2010.

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