Hikikomori nella prospettiva di Leibniz

Pensate di essere strani quando riuscite a concentrare il vostro mondo in una stanza pur senza passare per le solite canzoni? Siete preoccupati perché vi sembra di vivere perlopiù in spazi privati o virtuali? Niente paura: laddove non sussiste altra forma patologica diagnosticata, potreste far parte di un fenomeno sociale diffuso e di una straordinaria trasmigrazione concettuale. Infatti, come spiega questo contributo di Fabio Treppiedi (autore di “Differenti ripetizioni”, 2015, curatore del canale di Filosofia del sito tesionline.it), che riprende una conferenza tenuta al Filosofestival di Albenga (29-30 agosto 2015), l’hikikomori (‘stare in disparte’) rappresenta una sorta di ‘personaggio concettuale’ che, prendendo le mosse da Deleuze e dalle implicazioni politiche dell’atto di creazione, permette di ‘riattivare’ nel contesto attuale la monade di Leibniz: l’unità di coscienza che esprime se stessa e la totalità del mondo, i quali non esistono l’una senza l’altra pur senza confondersi mai tra loro.

 

Che cos’è hikikomori? O meglio, chi è Hikikomori? È un fenomeno sociale, carico di implicazioni cliniche, che ha preso forma in Giappone sin dalla fine degli anni Ottanta. Vengono infatti chiamati hikikomori quei ragazzi giapponesi che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale e abbandonarsi ad un isolamento sempre più radicale all’interno dei loro piccoli appartamenti o, se vivono in famiglia come il più delle volte accade, all’interno delle loro camerette (hikikomori, significa infatti ‘isolato’, ‘ritirato in disparte’).

Quella dell’hikikomori è un’esistenza che inverte i ritmi del mondo fuori, quasi ad accentuare la scelta dell’isolamento: s’inverte ad esempio l’alternarsi del sonno e della veglia, così come anche il tempo dei pasti, e si fa addirittura del disordine una regola. Ciò che immediatamente suggestiona e impressiona dell’hikikomori è infatti la sua stanza, trasformata in un mondo di oggetti da cui non si stacca assolutamente: fra questi soprattutto i manga, la televisione, i videogiochi e appunto il pc, a supporto di un ininterrotto collegamento a internet, che sostituisce del tutto i rapporti sociali.

È alla letteratura e al cinema che, d’altra parte, possiamo attingere per avere subito un’istantanea dell’hikikomori, del suo mondo, della sua stanza: da film come Shaking Tokyo di Bong Joon-ho (episodio del film collettivo Tokyo! del 2008), Castaway on the moon di Lee Hae- jun (2009) e Confessions di Tetsuya Nakashima (2010) fino al romanzo Welcome to NHK di Tatsuhiko Takimoto (2002), successivamente trasposto in manga e in film d’animazione a episodi.

Ma perché approcciare l’esperienza dell’hikikomori assumendo sin da subito cinema e letteratura come chiavi d’accesso? Deleuze, il suo modo di approcciare i problemi ma soprattutto la sua concezione dell’arte come «la sola cosa che resiste alla morte» [1], possono rappresentare di per sé la risposta a questa domanda.

Una domanda che, nello stesso tempo in cui viene posta, mostra indirettamente quanto la concezione deleuziana dell’opera d’arte, esplicitata nella conferenza del 1987 Che cos’è l’atto di creazione?, scalzi prepotentemente sia le prospettive che conferiscono ai fenomeni sociali, clinici e politici anche una valenza artistica sia quelle che attribuiscono all’opera d’arte anche un significato sociale e politico od una spiegazione clinica. Laddove vi è atto di creazione infatti, secondo Deleuze, vi è qualcosa d’immediatamente politico, espressione di una potenza che ha modo di passare all’atto proprio perché ‘resiste’ alle molteplici forze che imbrigliano e ostacolano la vita.

Pensare l’hikikomori nell’immediatezza del ritratto che di esso offrono cinema e letteratura non significa escludere quello che sull’hikikomori emerge dal punto da punto di vista clinico e sociologico ma sospendere, ‘pervertire’ o ‘controeffettuare’, sulla scorta di Deleuze, il cliché prodottosi nell’opinione comune circa tale fenomeno, allorché lo si assume ad esempio come il caso limite che esemplificherebbe la dipendenza da internet e il disagio ad essa connesso.

Ecco allora che, pervertendone il cliché, l’hikikomori non è più soltanto la vittima del suo disagio ma è anche l’anonimo cittadino della metropoli giapponese preso in un ‘divenire mostruoso’ al pari del Riccardo III di Bene [2]. Un po’ come quest’ultimo vede comparire sul proprio corpo mostruose escrescenze, l’hikikomori scatena nella sua solitudine fantasticherie e paranoie le quali altro non sono però che una serie di virtualità su cui il mondo, da cui ora l’hikikomori si ritira, gettava un’ombra tale da non favorirne né un passaggio all’atto né una benché minima consapevolezza.

Guardare l’hikikomori alle prese col suo divenire mostruoso significa, attraverso Deleuze, assumerlo come un personaggio concettuale, una figura in movimento che è sì improntabile al fenomeno dell’hikikomori, ma che è anche qualcos’altro rispetto al suo cliché [3].

Certo. Lì dove Deleuze e Guattari affermano che i personaggi concettuali «operano i movimenti che descrivono il piano d’immanenza dell’autore e intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti» [4] è chiaro che l’invenzione di un personaggio concettuale va ascritta in primo luogo al filosofo creatore del concetto che il personaggio concettuale mette in movimento. Sul non meno rilevante piano dell’evoluzione storica dei concetti, però, è possibile individuare personaggi concettuali che, proprio perché collocati su milieux altri da quelli in cui i grandi filosofi hanno creato concetti ad essi sorprendentemente correlabili, ci fanno scoprire l’attualità di un concetto che si pensava superato o sepolto, favorendone inattesi sviluppi, ‘riattivandoli’ e operando quel ‘taglio insolito’ sulla realtà che per Deleuze e Guattari è il segno più tangibile del rilancio di un concetto filosofico del passato [5].

In questa prospettiva, l’hikikomori è più propriamente quel personaggio concettuale che ‘riattiva’ la monade di Leibniz nel mondo contemporaneo. La monade esprime infatti, nello stesso tempo, se stessa e la totalità del mondo: queste due componenti – distinguibili solo per astrazione – non esistono l’una senza l’altra e tuttavia non si confondono mai l’una con l’altra, essendo reciprocamente impermeabili. In questo senso Leibniz definiva la monade come qualcosa d’impenetrabile:

«Non c’è modo di spiegare come una monade possa essere alterata o mutata nel suo interno per opera di qualche altra creatura. Nella monade, infatti, non si potrebbe trasporre nulla, né è possibile in essa alcun movimento interno che sia impresso, diretto, accresciuto o diminuito; ciò è possibile invece nel composto, dove avvengono mutamenti tra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. Gli accidenti non possono entrare o uscire. Gli accidenti non possono staccarsi dalle sostanze e passeggiare fuori di esse» [6].

L’hikikomori è il divenire mostruoso della monade di Leibniz nella misura in cui, proprio mentre conferisce un movimento alla monade facendone materia viva, porta all’estremo la sua paradossale e inquietante impenetrabilità. La stanza dell’hikikomori non ha né porte né finestre e tuttavia egli rimane una prospettiva sul mondo, sulla vita, riuscendo – forse anche contro i suoi stessi propositi – a esprimere un punto di vista.

L’hikikomori rifiuta il mondo, crea un proprio mondo, ma sortisce l’effetto di non cancellare davvero e fino in fondo il mondo da cui intende separarsi. Come insegna Leibniz la monade, pur nella sua impenetrabilità, non spezza il suo legame con le altre monadi, anzi lo afferma rendendolo manifesto. Hikikomori, personaggio concettuale, è lì a dirci che il suo non è un mondo al di là di questo mondo, ma è una bolla all’interno della sfera, una piega del mondo che quanto più è dolorosa esistenzialmente tanto più ci ricorda che ognuno è una prospettiva sul mondo dentro la quale il mondo stesso non può penetrare ma con la quale, tuttavia, il mondo intrattiene un certo rapporto.

Avviene effettivamente questo, già dal momento in cui un anonimo ragazzo giapponese diviene hikikomori, laddove cioé la sua scelta coincide con l’essere anche e sopratutto un sottrarsi al dettame rigidissimo della società giapponese e della sua cultura fortemente omologante. Una società nella quale un ragazzo che non segue il percorso di realizzazione professionale che la famiglia e la società hanno disegnato per lui finisce con l’essere fortemente colpevolizzato e indotto a vivere la propria esistenza come un radicale fallimento.

Da un lato, è come se facessimo una scoperta drammatica, sconcertante: sembra esserci un fondo inemendabile di impenetrabilità nell’individuo. Dall’altro però, sopratutto grazie al cinema e alla letteratura che ci parlano di hikikomori, ci accorgiamo che tale impenetrabilità non coincide per forza con un’incomunicabilità tra individuo e individuo. È proprio Leibniz a mostrarci, effettivamente, che ‘nel composto’, nell’insieme delle monadi, diventano possibili quei ‘mutamenti tra le parti’ impossibili invece per le singole monadi, che appunto non hanno parti.

Con Deleuze, la letteratura e il cinema, come visto, è possibile valorizzare l’elemento di ‘resistenza’ implicito nel personaggio concettuale dell’hikikomori. Non va allo stesso modo trascurato quello che con un termine husserliano potremmo definire l’elemento intermonadico implicito nella filosofia di Leibniz nonché nello stesso personaggio concettuale dell’hikikomori, che ne ‘riattiva’ il concetto più noto e importante7.

Il messaggio dell’hikikomori è che questo mondo non è affatto l’unico mondo, ed il suo gesto, sicuramente estremo, tende a mostrarci non tanto che ‘un altro mondo è possibile’ (come siamo soliti dire) ma che un solo ed unico mondo, in effetti, non c’è mai stato. Il mondo è piuttosto l’intersezione di prospettive che non possono strutturalmente confondersi essendo, come insegna Leibiniz quando parla delle monadi, reciprocamente impenetrabili.

Un radicale confronto con quest’impenetrabilità è allora il compito cui l’hikikomori ci invita, fornendo fra le altre cose i termini stessi e le coordinate del problema. Ci si chiederà cioé se si tratta di un’impenetrabilità destinata a scivolare nell’incomunicabilità o piuttosto di un’impenetrabilità dalla quale, sulla scorta dell’elemento di ‘resistenza’ che essa porta con sé, possono scaturire nuovi sensi del comunicare e del fare comunità.

[1] G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 2013, p. 23. Traendo spunto da questa definizione dell’arte, formulata da Malraux, Deleuze concepisce l’atto di creazione (artistica, filosofica, scientifica, politica) come «atto di resistenza».

[2 ] Cfr. Carmelo Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata, 2012.

[3] Sui personaggi concettuali, cfr. Gilles Deleuze, Felix Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino, 1996, pp. 51-76.

[4] Ivi, p. 53.

[5] «Se un concetto è ‘migliore’ del precedente, è perchè esso fa intendere nuove variazioni e risonanze sconosciute, opera tagli insoliti. […] Se oggi si può essere platonici, cartesiani o kantiani, è perchè si è in diritto di pensare che i loro concetti possano essere riattivati entro i nostri problemi e ispirare i concetti da creare. E qual è il modo migliore di seguire i grandi filosofi? Ripetere ciò che hanno detto, o invece fare ciò che hanno fatto, ossia creare concetti per problemi che necessariamente cambiano?», ivi, pp. 17-18.

[6] G. W. Leibniz, Monadologia, § 7, Bompiani, Milano, 2001, p. 61.

[7] Risultano interessanti, in quest’ultima direzione, le considerazioni di Han, che volge in positivo il «fenomeno a- sociale» dell’hikikomori facendone la figura simbolo della crisi dell’ «agire comunicativo» teorizzato da Habermas.

Fabio Treppiedi,  “Leibniz a Tokyo. L’Hikikomori come personaggio concettuale”, «Logoi.ph – Journal of Philosophy», n. II , 4, 2016. ISSN 2420-9775

Fotografia: Claudio Comandini, “Laboratorio”, Grizzana Morandi, agosto 2013.

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