La Grecia, l’Europa e i conti della serva

La crisi greca tra neoliberismo e radicalismo razionale. Finanza, speculazioni, crolli: il ruolo dei derivati nell’intossicazione dell’economia. Syriza, il superamendo dell’austerity e la ridefinizione dell’Europa. Tsipras: strategie politiche e azione di governo. Debito, colpa e grazia tra Grecia e Germania. «Tutto è fluido – dice Babis il fluido.» Non solo classici: piccole storie di un paese mediterraneo dalla nascita del primo ulivo all’IVA sull’olio d’oliva. TTIP e parcellizzazione europea. Trionfo e declino della finanza tedesca. Varoufakis: il salvataggio del capitalismo e il suo oltrepassamento. Negoziati, conflitti e cambiamenti. Investire su un futuro senza future.

 

1. Politiche del paradosso

La Grecia è un paese mediterraneo membro della UE per posizione e storia particolarmente legato al Levante; esemplare per il passato classico, può anche collocarsi tra gli emblemi dei fallimenti della globalizzazione finanziaria e di un’integrazione europea al ribasso, laddove la sua ricchezza è diminuita di un quarto nell’ultimo quinquennio. I problemi del paese sono stati aggravati per effetto della crisi innescatasi nel 2007 negli USA, per cui i memorandum della UE ne hanno prescritto il risanamento a colpi di austerity, accompagnando la stabilizzazione finanziaria ai tagli della spesa pubblica. Non sono però soltanto i conti pubblici ad essere fuori controllo. Su 11 milioni di greci, nell’estate 2015 risultavano senza lavoro il 27%, circa il 60% dei giovani, con contratti anche mensili e paghe orarie di 1,8 €. Il paese rappresenta il 2% del PIL europeo. La Grecia è arrivata al terzo programma di salvataggio, ha perso l’accesso al mercato cinque anni fa, e ha bisogno di tantissimi soldi per rimanere nell’Eurozona. I soldi che prende dai creditori devono quindi essere restituiti ai creditori. A suo favore, considerando gli interventi di supporto dei partner europei e del FMI, sono stati sborsati circa 275 miliardi di euro. I conti sembrano essere decisamente fuori controllo: andiamo così a controllare come può essere  successo.

Bisogna necessariamente premettere che, nonostante le pretese dei manuali di storia e la ridondante retorica dei pedanti, rapporti tra la Grecia e l’entità chiamata Europa non sono mai stati lineari. Tra primavera ed estate 2015, durante le trattative relative a ipotesi di uscita dalla comunità europea e ottenimento di un nuovo prestito, tali rapporti hanno subito oscillazioni più ampie degli indici di borsa, con un ritmo frenetico che ha accompagnato in crescendo l’operato del nuovo governo. I negoziati si sono accavallati paradossali e, tra referendum sibillini e bancomat col contagocce, è sembrato che numerosi esponenti politici internazionali lavorassero quasi per davvero, per quanto pervenendo a soluzioni apparentemente non proprio coerenti.

Infatti, i negoziati svoltisi al Parlamento Europeo del luglio 2015 ha avuto un esito piuttosto paradossale. I tweet hanno visto Tsipras salutare l’inizio dei lavori sperando in un onesto compromesso; il polacco Tusk, presidente del consiglio europeo informa dell’approdo ad un programma di riforme e supporti. Durante la seduta Tsipras, pressato dalle richieste, ha offerto ai creditori anche la propria giacca, mentre le banche greche erano chiuse per disposizione della BCE e dai bancomat era possibile ritirare soltanto 60 € giorno. Cosa vuol dire arrivare alle sei di mattina con i potenti d’Europa impegnati in una notte di passione e non voler farli uscire dalla stanza per permettere una conclusione non è facile immaginarlo; c’è però un hashtag per tutti i gusti, e chiunque può sfogarsi come vuole con parole troppo spesso più stitiche che sintetiche.

E per i giornali Tsipras è stato prima un «nemico» (i fedelissimi della Troika sono più capitalisti del capitale – e sono molti, riempiono le edicole e gli schermi), oppure un «genio» (anche i nemici dell’establishment vogliono avere degli amici – e non soltanto per farsi compagnia), per poi diventare rispettivamente «perdente» e «traditore»; la destra più grigia utilizza le parole della sinistra più disastrata tanto per fare ballotta, nessun contributo è fornito alla comprensione, compromettendo gravemente molte opportunità. La comunicazione continua a negare l’antico significato del suo nome, favorendo un livellamento su misura dei peggiori che può essere chiamato democrazia soltanto per scherzo. Eppure, nessuna questione è chiusa in sé, tutto quello che accade chiede la nostra responsabilità: anche se ci capiamo poco e possiamo fare ancor meno.

Al riguardo dell’andamento dei negoziati, il filosofo Stathis Kouvelatis ha avuto modo di osservare come fossimo passati da una tragedia piena di risvolti comici ad un teatro dell’assurdo laddove, nel paese ellenico, da una proposta europea già superata rigettata da una consultazione popolare si fosse giunti all’accettazione da parte del premier Tsipras di una proposta simile pur se più severa. L’aspetto ancora più ambiguo è che ambedue le circostanze, piuttosto eccezionali, sembrerebbero non aver provocato mutamenti: natura e rischi dell’accordo raggiunto hanno mantenuto in piedi tutte le incertezze che ne hanno segnato il cammino,che l’economia continui disinvoltamente a produrre povertà sembra più una certezza che un rischio.

Dopo gli accordi di Bruxelles sono procedute le discussioni parlamentari, disposizioni di legge, disordini sociali, mentre il governo Tsipras ha cercato l’attuazione di riforme impellenti quanto controverse. L’instabilità della situazione è stata tale che, mentre c’è stata la richiesta di un ulteriore prestito, i rappresentanti della Troika (BCE-Banca Centrale Europea, CE-Commissione europea, FMI-Fondo Monetario Internazionale) hanno rimandato di qualche giorno l’apertura dei negoziati di salvataggio a Atene per motivi logistici e di sicurezza. Lo svolgimento dei lavori è iniziato a fine luglio, mentre per decisione della BCE la borsa greca, chiusa già da un mese, ha potuto riaprire solo successivamente, mantenendo restrizioni temporanee agli scambi sul mercato finanziario per gli investitori locali e internazionali. Se la situazione politica si è mantenuta instabile, i mercati finanziari alternano i loro ormai proverbiali saliscendi speculativi a fasi di assestamento nelle quali sembrano poco attenti ai dettagli.

Mentre la complessa vicenda greca entrava in una nuova fase, le borse europee, dopo una settimana stazionaria, aprivano in ribasso, confermando incertezze strutturali che in Asia diventano enormi per un crollo delle borse cinesi. La storia, più o meno come sempre, continua il suo corso tra successivi rialzi, riabbassanti ulteriori e assestamenti momentanei, mentre le notizie si dilatano o si disperdono indipendentemente dai contenuti.

Nel frattempo Janis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze greco e professore di Teoria economica all’Università di Atene annuncia il varo di un nuovo movimento, provvisoriamente chiamato Alleanza Europea, dichiarando la sua apertura a studiosi e politici senza sbarramenti di destra o sinistra, in modo da evitare il collasso dell’Eurozona e parallelamente rilanciare i principi fondatori della UE-Unità Europea: se la moneta e l’unificazione europee sono state fatte male, adesso infrangere porterebbe a risultati ancora peggiori. Tuttavia, il pur generoso proposito di Varoufakis pare già datato laddove la tecnocrazia economica-finanziaria non è affatto unitaria e il modello neoliberista è già profondamente incrinato, mentre l’instabilità e populismo sono decisamente più strutturali che negli anni Trenta, laddove la straordinaria cultura di quegli anni è inarrivabile da parte delle comunicazione inconsistente nella quale siamo immersi.

Analizzando la comunicazione dei roventi giorni della crisi greca, che subito dopo  è rientrata in una zona di esposizione mediatica piuttosto bassa, risulta ampiamente trascurato proprio il dato più inedito: tutti i protagonisti della scena politici, alleati o avversari, si sono scontrati tra loro, e qualcuno si è scontrato anche con con se stesso, ognuno ha dovuto assumere in un modo o nell’altro le ragioni a cui si opponevano. Eraclito diceva «Guerra di tutto è padre»: potrebbero essersi introdotti fattori capaci di influenzare lo sviluppo degli eventi. Cerchiamo di comprendere come, leggendo nelle convulsioni del presente le stratificazioni della storia e delle idee, senza sottovalutare il ruolo della stessa indifferenza.

 

2. «Non tocca il divino gli indifferenti»

L’indifferenza ha una propria meccanica. Quella dell’informazione dipende da un’attualità che continua brutalmente a divorare se stessa e da una comunicazione assimila l’eclatante al banale, trascurando nella maggior parte dei casi le più elementari esigenze di comprensione. È stata trascesa persino l’idiozia delle veline e l’ipocrisia dei dispacci d’agenzia, laddove gli articoli sono ormai realizzabili anche attraverso software. Prevale un concetto di “leggibilità” imbecille e paradossale dietro il quale si nasconde la stessa ideologia che lascia indisturbate le borse, basata sulla difesa del consenso alle ragioni dell’economia finanziaria e al pensiero unico. L’indifferenza dei mercati finanziari dipende dal fatto che nei periodi di assestamento sulle borse operano scambi semplici, affidati a macchine e algoritmi, realizzando così investimenti che valgono per pochi giorni, senza andare troppo per il sottile rispetto ai problemi di lungo periodo.

Non tutte le reazioni possono però essere meccanizzate e l’incertezza è costituiva anche rispetto a questioni di base quali ammontare e risoluzioni delle sofferenze greche. Tale enorme esposizione debitoria ha oscillazioni a sua volte gigantesche, suggerendo che, se tutto è riducibile a numero, il numero può anche somigliare allo zero o a qualche altra astrazione non tangibile. Tali astrazioni hanno però effetti molto concreti, e addirittura si riproducono per conto loro. Non è soltanto una metafora: l’industria finanziaria, come spiega l’economista Ronald Dore, ha costruito una vasta sovrastruttura di transazioni speculative per le esigenze di produttori e consumatori di ogni tipo, i cui costi sono pagati da loro stessi attraverso la moltiplicazione delle commissioni e quindi delle speculazioni. Gli strumenti di queste operazioni sono i derivati, tra i quali future, swap e warrant, il cui profilo di costo/rendimento deriva da quello di strumenti chiamati sottostanti e comporta un differenziale tra una data futura in cui il bene viene consegnato e un prezzo da stabilire per contratto sulla base di parametri variabili.

L’impiego dei derivati riguarda la copertura dei rischi per bilanciare gli investimenti lunghi o brevi, l’arbitraggio che pareggia mercati tra loro distanti giocando sui  dislivelli dei prezzi, la speculazione quale gestione del rischio e della probabilità. Come segnala Dore, entro i margini di un’etica produttivista, nella quale è il lavoro ad avvalersi del capitale e non viceversa, il mercato dei derivati permette di pianificare la produzione e il profitto.

Il loro utilizzo si incrementa dopo il 1970 con l’abbandono di un sistema di cambi fissi e l’imposizione del costo forzoso; l’aumento vertiginoso di traffici e speculazioni, dove agiscono prevalentemente titoli che determinano altri titoli, determina un capitalismo dominato non più dai manager ma dagli investitori, la cui cultura azionaria viene promossa dai governi. Tra le conseguenze, un’instabilità economica strutturale, dove i crolli portano guadagni agli speculatori ma danni all’economia reale. La Grecia rappresenta uno di questi casi, ed è stata esposta al rischio proprio dall’aver partecipato ad un progetto di unificazione economica pieno di falle da una posizione di debolezza.

Per le stime del Wall Street Journal, i debiti da finanziamento del paese ellenico, che gli permettono di continuare a pagare stipendi, persone e servizi, si assestano sulla cifra di 275 miliardi di Euro. Su questi pesano soprattutto i prestiti europei dal Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria EFSF (131 miliardi); bilaterali con diversi governi dell’Eurozona (53 miliardi); debiti con BCE e FMI (rispettivamente 27 e 21 miliardi, con diritto a rimborso pieno) e con fondo salva stati ESM (15 miliardi); verso differenti soggetti privati (34 miliardi). I primi finiranno di essere ripagati nel 2054, i secondi vanno evasi entro il 2025, i terzi entro il 2055, gli ultimi nel 2042. La prima scadenza di 3,2 miliardi verso la BCE scade il 20 agosto, ma il vero problema per arrivare a quelle più in avanti è quello di camminare su qualcosa di solido, aspetto che non sembra ancora rientrare nelle condizioni della finanziarizzazione e della digitalizzazione del mondo globale.

Il terzo piano di aiuti avviato dopo i negoziati consiste di 86 miliardi di Euro, contemplando privatizzazioni dei beni pubblici per 50 miliardi che permettano di ricapitalizzare le banche, fare investimenti e, come sempre, rimborsare i debiti; circa 35 miliardi serviranno a favorire crescita e lavoro. Un primo prestito ponte di 7,16 miliardi è servito a riaprire gli sportelli bancari dopo una chiusura di 23 giorni e a restituire a FMI e BCE prestiti per 2,5 e 4,2 miliardi, i primi rimasti in sospeso per 20 giorni; come è usuale, questi soldi sono passati senza lasciare traccia alcuna nel mondo reale, proprio come le notizie vi scivolano sopra per lasciare subito spazio ad altre notizie. La faccenda sembra in definitiva piuttosto aleatoria, ma lo è anche perché occorre restituirgli effettiva concretezza. Così, interessarsi alla questione greca è un po’ come accogliere l’invito a non essere indifferenti di Hölderlin, poeta tedesco la cui patria ideale era proprio la Grecia, e ritrovarsi un po’ più degni di un’umanità spesso assente a se stessa.

A detta di Varoufakis sul paese egeo ha poi pesato, come su tutto il mondo, l’influenza del crack americano del 2008 e di una perdita di ricchezza di 40mila miliardi di dollari. La crisi è stata innescata dai subprime, crediti concessi a clienti con forte rischio debitorio, secondo manovre speculative che ha fortemente intaccato il settore immobiliare e il diritto alla casa. Le difficolta non hanno trovato soluzione nella nazionalizzazione delle banche, e nel diffondersi ai cambi diventano investimenti e titoli a provocare bolle speculative.

Le falle del modello di riferimento, ammesse anche da economisti quali Greenspan e Summers, possono rintracciarsi in cinque ordini di fattori: 1) sorta di fede new age nel rischio senza rischio; 2) trappola sistematica regolata dall’abuso degli strumenti derivati; 3) credenza neoliberale nella bestialità umana; 4) prevalenza del capitalismo anglosassone; 5) ampia teorizzazione della finanza tossica, che si compiace di ipotesi autoverificate, oppure di aspettative basate su casualità correlate a ragioni detenute dalle istituzioni, oppure di superstizioni rispetto alla capacità autoregolativa del capitale.

Il capitalismo globale si è così assestato in uno squilibrio bilanciato che pretende mantenere la tranquillità assicurata dal suo potere attraverso il pagamento costante di tributi esterni: e sono questi ad aver alimentato i deficit gemelli degli USA e della domanda di beni e servizi provocate nelle altre nazioni a cui era destinato il surplus. Questo dominio assoluto e sanguinario è stato definito, con riferimento alla mitologia greca, con il nome di Minotauro: tuttavia, ora il suo potere è infranto, l’incertezza è ancora maggiore, la crisi priva di risoluzioni all’interno del sistema che l’ha generata.

Nella crisi che coinvolge la piccola Europa e i suoi molti limiti, la Grecia dal 2010 ha bruciato il 25% del PIL, per recuperare verso la fine del 2014 un 2% di crescita con previsione di incremento per l’anno successivo di circa il 3%; a detta di qualche aruspice delle cifre volatili, le tendenza viene però ad inversi con il governo Tsipras, in piena discontinuità con le amministrazioni precedenti e le politiche neoliberiste, eletto nelle liste di Syriza.

La formazione nasce nel 2004 coalizzando diversi gruppi di sinistra di prevalente ispirazione ecosocialista, eurocomunista, ha come riferimenti Marx quanto Keynes, in una formazione radicale e razionale, impegnata nel delineare un new deal europeo; il dissidio con le posizioni liberiste dominanti è acceso soprattutto su previdenza, salari e fisco, esprimendosi inizialmente nel richiedere alle autorità europee l’erogazione di nuovi contributi, l’elevazione dei salari d’ingresso e l’introduzione di tasse per le grandi imprese. Inoltre, il premier e il suo entourage denunciano con chiarezza che le speculazioni finanziarie hanno piena corresponsabilità del dissesto e sono le direttive continentali ad aver disatteso l’integrazione europea; il ministro degli esteri Kotzias ci mette il suo carico e definisce la Grecia «colonia del debito».

L’idea è quindi è di risollevare e ritrovare la crescita del paese ristrutturandone il debito e criticandone gli assunti, senza considerare alcuna ipotesi di uscita da Europa ed Euro: il progetto europeo è l’ambito del discorso e la moneta lo strumento di lotta. Tuttavia, nonostante Tsipras abbia cercato di accrescere la propria pressione negoziale sottoponendo a referendum una prima proposta di risoluzione debitoria, formulata dal lussemburghese Juncker per la CE, dal parlamento di Bruxelles è scaturito un programma solidamente improntato a principi liberisti, la cui attuazione è garantita dal governo ellenico in nome del realismo e degli interessi del paese.

Dopo Bruxelles il governo greco, che comprende anche la formazione di destra Anel, ha subito il rimpasto di una decina di ministri e altri esponenti, e deve raccogliere sostegno nelle opposizioni socialiste, liberali e di destra quali Pasok, To Patami e Nea Dimokratia: deve risolvere il dissesto mediando tra gli interessi dei suoi diversi responsabili, internazionali e nazionali. Le instabilità restano forti su questioni legate all’indirizzo politico e alle questioni sociali, allontanando dall’azione di governo, come era nei piani delle dirigenze europee, numerosi esponenti regolarmente eletti.

Non si tratta di un vero e proprio un colpo di stato (o di continente), e tuttavia sussiste una condizione di “protettorato”, che per Habermas non indica però un assoggettamento tra stati: piuttosto, gli stessi stati nazionali vengono riesumati soltanto per essere sostituiti con società di capitali; il filosofo tedesco, critico verso un’accordo che definisce «tossico» e verso una Germania egemonica in modi para-nazionali e nelle forme di un federalismo perverso, ricorda che la crisi attuale è determinata da un’unione monetaria squilibrata, realizzata con economie eterogenee e senza un quadro politico comune, di fatto gestita da associazioni prive di legittimità e democrazia quali il Consiglio Europeo e la Troika.

In tale contesto, la prassi del decidere diventa particolarmente rude, con margini di scelta inquietanti: opporsi ai termini umilianti dell’accordo avrebbe dato luogo alla Grexit, con la bancarotta del paese, l’uscita dall’Eurozona e numerose valanghe politiche e finanziare in tutti i paesi, non solo europei; opporsi alla sua complicata attuazione comporterebbe il crollo del governo e la nomina di esecutivo modellato dai creditori, incapace di spezzare la perpetuazione dell’indebitamento.

Un’opposizione reale è così da costruire adesso, approfondendo in modi inediti proprio quanto prima del mandato Tsipras aveva definito come esperimento neoliberale ai danni del paese, sovvertendone dall’interno l’«utopia da incubo» per contribuire a riportare coesione sociale e democrazia: con i termini della sua fluente oratoria (nei discorsi e anche su tweet) si è forse persa una guerra, ma si è conquistato il seme del cambiamento interno di un sistema che nessuno prima aveva osato attaccare nelle sue stesse sedi. La strategia però ora diventa quella di smussare gli angoli e adottare misure compensatorie, permettendo aggiustamenti delle soluzioni più controverse.

Per attuare un programma in cui non crede Tsipras deve contrastare indignazione popolare, spaccatura della piattaforma e dissidenze interne, il cui riferimento principale è il già ministro dell’energia Lafazanis, che avrebbe anche vagheggiato ad un golpe basato sul ritorno alla dracma e sostenuto dalla Russia. Per realizzare le riforme, sarebbero necessari almeno due anni di governo, ma è allo studio anche l’ipotesi di elezioni a settembre, in modo da consolidare il consenso del premier e riformulare il partito. Se non trovano contrasti le riforme indispensabili, quali quelle relative ai processi civili lenti e inefficaci, nonché la liberalizzazione dei fornai per sbloccare i formati del pane, rimangono sospese le revisioni delle baby-pensioni, le modifiche alla tassazione agevolata degli agricoltori, la possibilità da parte delle banche di pignorare le abitazioni (proposte dalla Troika) e la lotta per eliminare i monopoli televisivi (dal programma di Salonicco con cui Syriza ha vinto le elezioni).

C’è aria di mobilitazione, ma forse non serve che qualche Lord Byron parta per la Grecia: tuttavia, è proprio l’attitudine ad un tempo appassionata e disincantata del grande poeta inglese che potrebbe aiutare a comprendere quali incongruenze si oppongono a cambiamenti ormai inevitabili. I primi ostacoli da abbattere sono tanto il cieco fanatismo ideologico liberista, quanto l’ottusa dipendenza da contrapposizione populista: nessuna pretesa di ripartire tra “alto” e “basso” l’esperienza contemporanea può spiegarne le caratteristiche di adiacenza e lateralità.

Troppi pregiudizi di destra e di sinistra affollano il campo, e fino che ai partigiani del capitale si oppongono i no-global per ritardo non ne esce davvero niente. Cercando di fare quadro, Etienne Balibar, Sandro Mazzadra e Frieder Otto Wolf, si sono espressi su Open Democracy rispetto all’esigenza del governo di interfacciare la propria «resistenza» con la mobitazione popolare e su quella di trovare concreto supporto internazionale all’azione di Syriza, che per il momento ha sponda negli spagnoli di Podemos. Tutte idee già stantie: forse ancora all’oscuro che il problema effettivo è l’orizzonte operativo nel quale ci si colloca.

Un’idea di laboratorio è rintracciabile nell’offerta fatta dal premio nobel Joseph Stiglitz di affiancare il governo e risollevarne l’economia, approfondendo così la possibilità di elaborare con altri intenti le disposizioni delle istituzioni a capo della globalizzazione, cercando di contribuire ad avviarle verso la loro riforma o quantomeno verso decisi ripensamenti. Durante i negoziati, l’economista ha preso posizione contro le pretese della Troika, definite assurde, fallimentari e irresponsabili, a partire da quella per cui il paese debba, dopo aver superato il disavanzo, raggiungere un avanzo primario del 4,5% del PIL. A suo dire, per correggere le vere e proprie deficienze che sin qui hanno accompagnato l’Euro, occorre favorire una economia solidale all’interno di una Europa alla quale, a causa delle pressioni che arrivano da ogni lato, perdere la Grecia e disunirsi non conviene affatto.

Se la solidarietà sembra una bestemmia ai patiti del pensiero unico, c’è pure qualcuno per cui Euro ed Europa non vanno riviste, ma distrutte. Tra costoro, una menzione per il giornalista Paolo Barnard che, tra un improperio e l’altro, denuncia la svendita del paese: Varoufakis, già ministro delle finanze, nonché economista e docente universitario, si sarebbe affidato a consulenti pessimi, quali l’agenzia parigina Lazarus, troppo vicina agli interessi dei creditori e già artefice del salvataggio-affossamento del 2012 che mise Atene in mano alla Troika. Per Barnard, un altro consulente su cui Varoufakis sconta delle parzialità sarebbe l’economista Jamie Galbraith che, se critico verso le ideologie di monetarismo e mercato, avrebbe goduto nella sua azione dell’affiancamento di Warren Mosler, esperto di sovranità monetaria che ha aiutato l’Argentina a superare il default e che proprio per l’Euro ha stabilito un sistema atto a rendere le obbligazioni reversibili in denaro utile a pagare le imposte.

Ad ogni modo, la svendita è in corso da tempo per il pianeta intero, nel quale ogni paese ha caratteristiche e intenti propri. Se la Grecia è quel che è, l’intento di Syriza è proprio collocarsi pienamente nell’Euro e nell’Europa anche per il realistico timore che la rottura dell’Eurozona possa portare ad un ulteriore impoverimento del 30% per il paese ellenico e gravi conseguenza per tutti gli altri, nonché ad un’incremento di nazionalismi, fascismi e provincialismi vari, dei quali Alba Dorata in Grecia, il Front National in Francia e La Lega Nord in Italia sono fenomeni piuttosto emblematici.

Anche Tsipras trova i suoi detrattori che, oltre ad assimilarlo forzatamente a tale galleria, lo descrivono come una specie di zelante «presidente del consiglio scolastico» con fisime da scacchista e sempre pronto alla kolotoumba (giravolta), contornato da una cerchia di amici-consiglieri-approfittatori che lo portano spesso a cambiare idea esasperando così le paterne autorità europee. A parte le schermaglie e le falsificazioni della Reuters e altri baciapile, il giovane premier ha cercato di negoziare quanto possibile e ora si trova di fronte ad una responsabilità di governo enorme e inedita, come riconosce anche la rivale Legard, direttore dello stesso FMI che da Washington si occupa dell’attuazione dei piani liberisti e delle politiche di “aiuto”.

Peraltro, la Legard rispetto al ridurre consistenza e durata del debito è più incline a cessioni rispetto ai ministri delle finanze raccolti nell’Eurogruppo, che hanno nel tedesco Schäuble il loro rigido «direttore d’orchestra», così definito da Varoufakis che a sua volta ha figurato in tale orchestra come sorta di improvvisatore dal talento fuori contesto. C’è qualcosa di grottesco nella pedante insistenza teutonica sui «compiti a casa» che evita però di leggere negli effettivi contributi che possano venir forniti, così come nel pretendere un rigore che rischia di diventare cadaverico quando non permette crescita, per non parlare della proposta di privatizzare il Partenone (e altri beni assimilabili) presso le banche del Lussemburgo. Ed è difficile reputare naif  Varoufakis quando è suo malgrado costretto a constatare che l’Eurogruppo è un organismo privo di atto costitutivo ed effettiva legittimità e pertanto autorizzato a fare soltanto quel che gli pare, e quindi non abilitato a valutare l’adottamento di misure utili come decentralizzare il processo di integrazione europea attraverso la creazione di un’unica banca provvista di differenti centri decisionali. Come ha scritto, pur considerando altre direttive, Carlo Bastasan su Il Sole-24 ore, in gioco c’è stata la prima «guerra d’interdipendenza» europea, e ancora nessuna trasparente condivisione della sovranità è all’orizzonte.

L’Europa è una e molte. Lingue e culture non sempre si comprendono tra loro, il dissidio può cogliere in modo profondo anche le nazioni filosofiche cruciali, rimettendo in ballo rapporti e storia. La Grecia dopo il mondo antico e classico conosce l’impero bizantino e quello ottomano, partecipa ai flussi delle grandi rotte mercantili piuttosto che alle modalità della produzione industriale. Elettra Stimilli affronta l’argomento, ripreso anche su Repubblica da Silvia Ronchey, che il mondo greco ignori l’assimilazione tra colpa e debito, sancita invece in modo netto dal sostantivo femminile tedesco Schuld. In Heidegger la colpa esprime il nulla abissale dell’uomo, che cerca oblio nelle cose ritirandosi in un’esistenza inautentica; Benjamin segnala il prevalere di una religione del capitale che produce colpa e debito e incapace di permettere espiazione. Oggi la possibilità di ricorrere al credito al consumo estende illimitatamente tanto l’oblio quanto il debito, producendo così una colpa generalizzata che coinvolge ognuno. Il debito è un ricatto infinito, in una condizione di gioco d’azzardo finanziario compulsivo e globale dove nessuno vince e nessuno smette.

Su il manifesto Alberto Leiss, invocando un periodo di dilazione per questo famoso debito, parla invece di grazia, ricordando come il termine derivi dal greco charìs, che significa dono, e dal latino gratus, gradito. Nel classicismo tedesco, Schiller rifletteva sulla grazia elaborando concettualmente proprio i contenuti della mitologia greca, privilegiando la nozione di Anmut e quindi la «bellezza in movimento», capace di fondere necessità e libertà; è però in area francese che lo charme viene assunto come atto immotivato e miracoloso, per Jankélévitch tipico dell’arte. Ad ogni modo, degli 86 miliardi ora con­cessi ad Atene soltanto il 35% andrà all’economia reale: il resto, deve pagare debiti già con­tratti e rifi­nan­ziare le ban­che, cadendo ancora nella spirale illusionistica del soldo virtuale, mentre le privatizzazioni svuotano di senso la spesa sociale e l’utilizzo di derivati incrementa promesse di pagamento creando debiti a cascata. Prigionieri di un’illusione, siamo costretti ad alimentarla perché se sparisce pure quella, addio.

Le tensioni di questa instabilità possono trovare una colonna sonora in O Babis O Flou (“Babis il fluido”), pezzo d’attacco dell’album Flou (1978) di Pavlos Sidiropoulos & Spyridoula, nel quale è descritto un personaggio losco e imprevedibile al quale è meglio non fare troppe domande, anche perché si limita a rispondere che «è tutto fluido». Il disco scorre incantevole attraverso dieci perle di blues egeo carico di spezie psichedeliche; uscito per la Harvest, è stato realizzato in tre anni di registrazioni. Considerato da molti il capolavoro del rock greco, si accompagna ad anomalie contrattuali per cui il vocalist e poeta Sidiropoulos rifiutò i guadagni e il gruppo ottenne un men che misero 4%. Per dire.

 

3. Piccola storia del paese degli ulivi

Abitano la Grecia grandi alberi d’ulivo, antichi come i miti che raccontano storie accadute in luoghi ancora oggi percorribili. La composita geografia sacra ellenica, studiata da Jean Richter, basata sul rispecchiarsi di astri e costellazioni in divinità celate tra cielo, terra e mare, trova coronamento nell’arte di disporre i templi, ed è ancora in grado di suggerire l’idea di spazi consistenti, pieni di presenze possibili. Questa scienza della terra celeste riconosce collocazione anche ad un primo ulivo, nato da un litigio tra Atena e Poseidone; sei gli dèi litigavano spesso e tuttora gli uomini non scherzano, alcuni polloni di questo primo albero sarebbero ancora presenti sull’Acropoli, con il loro carico simbolico di pace e forza, fecondità e purificazione, vittoria e ricompensa. L’antichità prosegue con passo solenne, sostenuta dall’economia mercantile e nello splendore delle città-stato fornisce esempi definitivi di civiltà di fronte ai quali tutto il mondo più o meno educato ancora si sbraccia per rendersi degno del loro esempio, scandendo nomi che da Omero ad Archimede, da Platone ad Aristofane, ogni persona minimamente civilizzata può dire di aver sentito almeno nominare.

Una cosa dalla quale tutti sembrano aver tratto profondo insegnamento è il discorso che Tucidite fa pronunciare agli ambasciatori ateniesi a Melii: «È legge di natura che il più forte comandi, razionale per il più debole ubbidire»; certamente, da allora la sfida per essere forti e non essere razionali si è fatta sempre più accesa. Gli sforzi di unificazione, partiti dall’Occidente di Alessandro Magno e dei Romani, s’infrangono esattamente mentre una nuova fede nata in Oriente raccoglie l’ecumene; tutto sembra radunarsi, per poi separarsi ancora. Poi, ai tempi del nostro medioevo, il raffinato impero Bizantino, la Roma cristiana dell’Oriente, considerava il mondo latino e continentale come un’insieme di mentecatti dominati da sovrani illegittimi: lo racconta Liutprando da Cremona, tranquillamente definibile come cronista gossipparo dal gusto truce, inviato presso la corte di Niceforo Foca in qualità di ambasciatore dall’imperatore sassone Ottone I per trovare una sposa che potesse nobilitarne la discendenza. In tale occasione, riceve un netto rifiuto.

Una bisettrice resta sospesa sopra la Grecia, tenendo l’impero cattolico e poi anche i paesi protestanti da una parte, i cristiani ortodossi e l’Islam dall’altro. Diversi accadimenti scavano in questa divisione. Lo scisma tra Chiese del 1045, che nelle dispute teologie tra Cerulario e i rappresentanti di Leone IX definisce il divorzio tra ortodossi e cattolici. Il saccheggio latino del 1204, che porta alla creazione di debito nei confronti di Venezia e incrementa le spinte bizantine verso Oriente. La conquista ottomana del 1453 mantiene la Grecia in tali rotte, mentre la sua composita eredità culturale si diffonde coinvolgendo tanto il rinascimento fiorentino quanto i domnoi danubiani e l’impero russo, conservando una casa nel quartiere costantinopolitano del Fener. Nei confronti della Grecia classica, l’Europa riesce a stabilire continuità tra loro molto diverse. Il gruppo del Laoconte, con l’episodio passato anche all’Eneide dell’assalto ai personaggi dei serpenti marini, dal suo ritrovamento a Roma del 1506 conosce restauri e interpretazioni innumerevoli, contribuendo a definire l’idea stessa di scultura.

Il classicismo greco diventa disponibile a continue riletture. Winckelmann  individua nobile semplicità e quieta grandezza come tipiche di una bellezza che non dipende da alcun dettaglio visibile, Zeller ne ricodifica pensiero e concetti ad uso di generazioni di studiosi, per Meyer la sua storia rappresenta il momento nel quale la storia comprende l’esigenza dell’universalità, Nietzsche ne scombina forme e impulsi nella tensione tra apollineo e dionisiaco. I tedeschi sono particolarmente intenti a tradurre opere e idee, ma in occasione della lotta nazionale della Grecia è quel noto poeta inglese a morire sul suo suolo, pur se un po’ ridicolmente di febbre. L’indipendenza, che facilita la guerra degli stati europei contro gli ottomani, determina prima un re tedesco e poi uno danese e provoca presto corruzione e bancarotta, moltiplicando malati e malattie di un Europa già allora prossima alla fine, il paese perde già allora la propria sovranità finanziaria. E nel 1823 Dioniosio Solomòs, greco di Zante e italiofono della scuola del Monti, canta: «Giacciamo qui, obbedienti ai loro soldi».

Il divorzio con il mondo turco e il contesto islamico si approfondisce con la fine dell’impero ottomano, il Trattato di Losanna del 1923 e lo scambio reciproco di popolazioni; successivamente al secondo conflitto mondiale è la guerra fredda a confermare divisioni secolari tra ovest ed est. Probabilmente, il detto Una faccia una razza con cui sono apostrofati gli italiani su suolo ellenico nasce anche in risposta al processo che tende a privilegiare differenti parentele culturali.

I paradossi continuano a segnare la storia del giovane stato. Nell’agosto 1936 mentre la piazza protesta contro il governo Novas, il gen, Joanis Metaxa instaura un regime di tipo fascista. Nell’agosto del 1940 le truppe di Mussolini entrano del paese e sono sconfitte dall’armata popolare greca; il regime è però incapace di approfittare di questa vittoria, capitola dopo l’attacco tedesco dell’aprile 1941. Gli accordi dei militari sono rifiutati dalla resistenza che trova una continuità nella storia del paese riallacciandosi alle lotte di pallicari e clefti contro i turchi.

Dopo l’8 settembre, numerosi militari italiani partecipano alla resistenza ellenica: tra questi, la Divisione Pinerolo, che rifiuta il disarmo imposto dai tedeschi e va in montagna a raggiungere i partigiani, e la Divisione Cefalonia, che combatte i nazisti ad Acqui. Tra gli ufficiali italiani, Paolo Castagno Saetta si distingue per un lavoro di ricerca sulle canzoni popolari che accompagnano le vicende del paese (pubblicate anni dopo nella collana dei Dischi del Sole). Una di queste è Sranda pende petiniche, raccolta in un teatro all’aperto in via Patissia da un cantore di mandinates Kritikes (stornelli vivaci di Creta), mentre per le vie della città passano colonne di italiani prigionieri a cui vengono gettate pane e sigarette: racconta di «Quarantacinque galletti» che «hanno impegnato le penne»: sono i quarantacinque milioni di italiani prigionieri. La maledizione più alta non è contro il nemico, ma contro la guerra.

Dal 1946 al 1949 il paese è travagliato da una guerra civile che evidenzia gli sfaldamenti etnici e sociali e i contorti interessi geopolitici in gioco, che coinvolgono la componente comunista, sostenuta dai partigiani jugoslavi ma non dall’URRS, e una monarchia di stampo fascista, appoggiata prima da Gran Bretagna e poi dagli USA. La Grecia si configura come stato cuscinetto ottimale e, pur non offrendo le possibilità logistiche dell’Italia, rafforza la sua posizione di confine.

Le instabilità proseguono. Dopo l’oligarchia del conservatore Karamanlis, la parentesi socialista di Papandreu viene chiusa violentemente dalla corte, che tenta di ripristinare un governo autoritario. La piazza e i giovani si battono contro le forze dell’ordine in memoria di Grigori Lambrakis, ucciso dai sicari della polizia nel maggio 1963. Durante le manifestazioni viene ucciso anche lo studente comunista Sotiris Petrulas, al quale è dedicata una canzone (Tragudi Sotiris Petrula) che lo associa come martire ed eroe a Lambrakis.

Nell’estate del 1965 la caduta del governo Papandreu apre una nuova lotta contro il tentativo autoritario della corte. Davanti al parlamento, aspettando l’esito della votazione del governo Novas, imposto dalla corte, la piazza è raggiunta dalla notizia che il governo è caduto per effetto dell’art. 114 della Costituzione, che proclama il popolo greco garante e difensore della propria libertà. La folla insulta Mitsotakis, «grosso cretese senza carattere», maledice Novas, la Corte e i fascisti che «hanno ucciso il ragazzo sorridente», cioè Sotiris, inneggia alla costituzione e alla «dimokratia», parola che traduce sia democrazia che repubblica. Ma la democrazia sembra essersi ormai allontanata dalla Grecia.

Infatti, nel 1967 si afferma il regime dei Colonnelli, rispetto al quale la regia americana interviene in modo controverso: pur sostenendolo ufficialmente, suggerisce al re Costantino II un contro-golpe, determinando così il suo stesso esilio. Si afferma come primo ministro e reggente Geōrgios Papadopoulus e il paese rimane confinato in un’arcadia grottesca che ne umilia violentemente le tensioni. Oriana Fallaci, all’epoca compagna di Alekos Panagulis, capo della resistenza al regime, scrive parole ispirate sul sogno chiamato libertà e giustizia che ogni persona degna d’essere nata deve cercare, e che però non esiste: «E piangendo bestemmiando soffrendo noi possiamo solo rincorrerlo dicendo a noi stessi che una cosa quando non esiste la si inventa.»

Nel 1975 la Repubblica Greca di Karamanlis vuole consolidare la ritrovata democrazia ancorandosi alla CEE, alla quale era stata fatta domanda già dal 1963; il socialista Papandreu si oppone al progetto europeo per gli enormi rischi economici e sociali a cui il confronto con il capitalismo avrebbe condotto. Mentre i due esponenti politici preparano il potere ai propri figli, si perpetuano le folli spese destinate ad armi e armatori per la gioia della flotta del Mediterraneo, ma le esigenze di difesa di un paese strategico per la sua posizione centrale non evitano che diventi un po’ il sud di nessun nord.

Il paese continua a vivere di quel frugale benessere che rappresenta l’autentica e sana austerità, alla quale si accompagna una clandestinità economica diffusa dove i soldi girano fuori da ogni controllo. Nel 1981 entra nella CEE diventando subito dipendente di un fallimentare finanziamento dei consumi; tuttavia, quattro anni dopo tenta di impedirne il potenziamento politico con Gran Bretagna e Danimarca, senza ottenere successo. Dall’inizio degli anni novanta, l’approfondimento dell’integrazione economica dei paesi europei rende problematica la situazione di quelli meno prosperi, è sollecitato il rafforzamento degli strumenti comunitari e l’aumento della dotazione dei fondi strutturali, in modo da favorire lo sviluppo delle regioni sfavorite e la revisione delle norme di ammissibilità ai cofinanziamenti comunitari.

Nel 1998 la Grecia non è ancora in grado di rispettare i criteri di convergenza utili ad entrare nell’Eurozona: due anni dopo questi obiettivi sembrano essere centrati. Nel frattempo il FMI continua a disporre piani che obbligano i paesi a specializzazioni economiche e debiti infiniti, ma sembra ancora lontano dall’Europa. L’efficientismo occidentale medio non trova riscontri nella mentalità greca: nell’isola di Santorini, sulle rotte di tre continenti e per alcune leggende sede dell’antica Atlantide, le case distrutte dai frequenti terremoti sono lasciate in rovina, affiancate da nuove costruzioni.

Nel paesaggio greco ti assale la consistenza del mito, in un eterno presente dove Euro è un vento del sud-ovest, figlio dell’Aurora (Eos) e di Tifone, oppure di Astreo: come tanti, questo Euro nasce dalla promiscuità; Europa è invece figlia d’Agenore e Telafassa, amata da Zeus che la rapisce in forma di toro per gettarsi con lei nel mare; in questo mare dovremmo pur ritrovarci. Mentre la guerra in Jugoslavia e i conflitti valutari che la segnano in filigrana si preparano a battesimo dell’Euro, i greci si dimostrano europei atipici. Infatti, violano il blocco contro la Serbia e attuano quello contro la Macedonia, lamentano che “Makedonia is Greece”, e mentre dimenticano l’aspetto composito tanto della regione quanto della pietanza riaffermano la loro appartenenza all’aera cristiana ortodossa.

Eppure, sanno anche guardare oltre il proprio paese, e trascorrono il semestre di presidenza UE a cercare di coinvolgere i paesi scandinavi nel progetto europeo, preparandosi ad abbandonare la dracma. La nuova moneta è salutata con entusiasmo. Tuttavia, non è accompagnata dalla definizione di tassi di cambio fissi, le produttività dei singoli paesi non convergano, non viene adottata nessuna formula di gestione cooperativa per mantenere le bilance dei pagamenti in equilibrio, si insiste in maniera ossessiva e idiota su imposte e tagli come se per davvero i soldi si generassero da soli. Le Olimpiadi del 2004 rappresentano un occasione per truccare i bilanci del paese a livelli olimpionici.

Nel frattempo, procede la riunificazione tedesca, che per la pressione dei paesi dell’ex est sovietico richiede l’ancoraggio reciproco tra il paese e l’Europa e anche la revisione delle regole politiche di integrazione. Infatti, ancora prima dello spostamento del baricentro comunitario verso nord, diventa evidente l’esigenza di rafforzare le relazioni con il Mediterraneo, problematiche per la loro vicinanza alla polveriera mediorientale e per la perdurante arretratezza di molte economie. La cosa dovrebbe essere nota perché in un paesaggio dalla bellezza lucente ed essenziale, i turisti tedeschi hanno a lungo frequentato penisole e isole elleniche più in virtù del cambio favorevole che delle belle parole dei poeti.

Forse, i krukki in gita con i loro tipici sandali non erano ragionieri, ma tutti avrebbero dovuto sapere che proprio i sandali erano tra le principali ricchezze di un paese con manifattura e industria piuttosto rade che, per trovare un immagine chiara e consistente, ha molte pecore e un solo formaggio: ma le normative europee in fondo ne prescindono, dove prevedono persino che il formaggio debba essere fatto senza latte.

Gli dèi, quei dispettosi, sembrano ormai fuggiti; certamente i classici sono lontani, e a detta dei troppo furbi leggerli non serve. Non fa più scandalo l’idea che la Grecia sia legata all’Oriente, nemmeno quella che derivi tutto dall’Africa, non stupisce pensare che i Greci siano usciti dalle foreste balcaniche, e però spesso quanto viene sottovalutata è proprio l’esigenza di universalità cui il pensiero greco ha dato forma. Se i debiti che il mondo intrattiene nei confronti della cultura ellenica si moltiplicano e si intrecciano e un po’ si disperdono, il suo presente deve confrontarsi in maniera definitiva con le aporie di una modernizzazione perennemente incipiente.

Ripercorriamo le vicende del debito, cercando di focalizzarne alcuni dettagli. Nel 2009 il premier Papandreu jr. rivela che i conti per entrare in Europa sono stati truccati, segnando l’inflazione al 5% invece che al 12%; la caduta dei depositi bancari supera già i 110 miliardi. È così formulato il primo memorandum. Nel maggio 2010 il presidente Papoulias dichiara: «il paese è sull’orlo del baratro»; il pomeriggio lo sciopero generale raccoglie decine di migliaia di manifestanti contro l’eccessiva rigidità dei piani di salvataggio. Per una bomba gettata in una banca del centro muoiono tre impiegati, tra cui una donna incinta. Mentre gli scontri continuano, una riunione notturna al consiglio Ecofin cerca di scongiurare la bancarotta del paese concedendogli un prestito di circa 50 miliardi di Euro condizionato all’attuazione di un piano di drastici tagli della spesa pubblica, il piano di stabilizzazione finanziaria impostogli comprende un volume complessivo di 440 miliardi di Euro. I paesi europei accordano 110 miliardi di prestiti bilaterali. Nel 2011 arrivano altri 120 miliardi per Atene, perlopiù a carico dell’EFSF, ed è poi varato un nuovo piano da 109 miliardi. Nel 2112 un secondo salvataggio costa 130 miliardi. Tra dicembre e aprile 2015 escono dalle banche 30 miliardi e abbandonano il paese altri 70 miliardi.

Mentre le gigantesche partite di giro finanziarie mettono al sicuro le grandi banche, l’aggravamento della crisi pone in dubbio la tenuta del sistema euro. La moneta si distacca dalla capacità di spesa al punto che, più che alle valute nazionali, converrebbe tornare al pecus, cioè al bestiame. Nessun governo governa, ci si accontenta di un Compact for Growth and Job piuttosto vago basato su un catalogo di buone intenzioni già programmatiche e anche un po’ scontate. L’Europa ha un volto indecifrabile, eccessivamente simile al vuoto, che si impone proprio mentre troppi sacrifici sembrano non aver permesso vita migliore a nessuno in nessun posto e si accrescono disparità economiche e contrasti culturali tra paesi.

Nonostante i tentativi di riforma, la Grecia mantiene poche produzioni di spicco, non riesce a generare innovazione, non sa trattenere quadri e laureati, è debole delle esportazioni, e importa l’85% dell’energia e il 40% di alimenti e medicinali. Ma siccome un sostegno forte serve a tutti, e per quanto il paese conti poco rimane pur sempre strategico, nessuno tocca i soldi degli armatori e dell’esercito: nel 2013 e 2014 la spesa militare assorbe il 2,3% del PIL (circa 4 miliardi di Euro), quasi interamente versati a compagnie francesi e tedesche, mentre l’anno successivo Tsipras in persona propone un risicatissimo taglio del budget militare del 5% (200 milioni). Nel paese recessione continua, debolezze strutturali e assenza di investimenti produttivi lasciano senza lavoro e garanzie strati immensi della popolazione, impegnata in grande misura a far campare famiglie di disoccupati con i soldi di una pensione.

I primi tagli a carico dei governi europei sono del 2011: tra questi, il 50% di un debito di 150 miliardi è in parte cancellato e in parte convertito in titoli con scadenze fino a 45 anni; senza misure di condono o restituzione, il debito sarebbe già al 240% del PIL e ammonterebbe quindi a circa 500 miliardi. Lo dice non senza zelo Eugenio Occorsio di Repubblica: se proprio ci tiene, i miliardi potrebbero essere ancora di più, visto che i soldi servono al 90% a rimborsare debiti, determinando una situazione che Varoufakis ha letteralmente definito come tipica del «drogato in attesa della sua prossima dose».

E dose dopo dose, nel 2015 il debito pubblico arriva a 313 miliardi, con un rapporto con il PIL del 172% che per l’anno a venire sembra procedere al 200%. Bisogna però capire quanto possano essere drogati anche gli stessi numeri: infatti, se per i detrattori dell’attuale governo il permanere del vecchio indirizzo politico avrebbe dato un rapporto “soltanto” del 168%, 168,8% è esattamente la percentuale che Eurostar registra nel primo trimestre 2015, registrando il calo record del debito pubblico di 8,3 punti, avendo restituito aiuti a EFSF e FMI. Inoltre, Stiglitz ci avvisa che metà delle richieste dei creditori la Grecia le ha già ripagate. Da qualche parte qualcosa non funziona, bisogna forse rifare i conti, ancora.

Vediamo questi conti nella loro forma più sintetica, così come li ripartisce Nicola Capelluto di Lotta Comunista: l’80% è verso FMI (35 miliardi), seguono poi la BCE (27 miliardi) e debiti bilaterali con paesi euro (53 miliardi). I conti continuano a non quadrare, servono certamente dati, strumenti e analisi più particolareggiate, ma se è necessaria una visione più ampia sembra che ognuno faccia le ricapitolazioni che gli pare e piace: forse, si cerca soltanto di sfuggire al terribile sospetto che il debito blocchi il futuro in previsioni rigide basate su soldi che non esistono e di dubbia restituzione, profilandosi soprattutto come un’eccellente arma di ricatto che serve a tenere in piedi una catena di rapporti obbligati.

Ad ogni modo, nel paese anche l’istituto della raccolta dei dati statistici deve essere riformato, insieme a numerosissimi dispositivi istituzionali, la gestione del fisco e l’IVA per gli alimenti – per i quali il governo ha già adottato provvedimenti astuti in modo da lasciare inalterata l’aliquota al 13% per la feta fresca e l’olio d’oliva, applicandola al 23% per quella grattugiata e l’olio di girasole, non influenti sulle abitudini alimentari. Affamare un popolo stremato non permette di salvarlo, nessuna vera rivoluzione arriva attraverso gli aiuti.

Un poeta greco e alessandrino, peraltro a lungo agente di borsa, legge il presente alla luce della storia evidenziando le falle di una democrazia fatta di riforme, tagli e sacrifici imposti da autorità esterne:

E quanto più procedono, eccoli reperire
cose e cose superflue, che vogliono abolire.
Sopprimerle, peraltro, è cosa dura.
Partono, se Dio vuole, fatta l’opera attesa,
dopo avere fissato e potato
ricevono un compenso giusto, come d’intesa
vedremo adesso cosa resta, dopo
l’intervento chirurgico e risolutore.
(Costantino Kavafis, In una grande colonia greca, 200 a. C.)

 

4. Sale greco (e salse tedesche)

Nella civile Europa oltre 80 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà. L’economia è esposta alla deflazione, con contrazione dei prezzi e depressione dei sistemi produttivi. Tra USA e UE è in corso l’accordo bilaterale TTIP (Transatlantico Trade and Investment Partnership) che permetterà alla multinazionali di esigere il diritto di chiedere i danni di mancato guadagno ad un paese nel quale ha investito, subordinando così ogni sovranità degli stati alle esigenze di guadagno delle corporation. Il negoziato redatto dalla CE prevede inoltre la tutela degli investimenti privati nei servizi pubblici, una perdita di vantaggio dei produttori locali verso le commesse pubbliche, e l’ulteriore privatizzazioni di servizi primari di consistente valore commerciale quali scuola, sanità e pensioni, peggiorando ulteriormente il tasso di disoccupazione. Le conseguenze di questo patto incrementano la parcellizzazione dell’Europa e le difficoltà di un commercio di livello multinazionale: tuttavia, è proprio per difendersi dall’ascesa delle economie asiatiche che quelle occidentali mantengono tale linea d’attacco.

Generalmente, in Europa le misure adottate contro la crisi seguono le tesi della Bundesbank, e mantengono stretto rigore sulla finanza pubblica, avversando misure come l’emissione di eurobbligazioni: invece rappresentare gli strumenti più efficaci per mutualizzare i diffusi debiti sovrani, cioè le obbligazioni vendute o la liquidità fornita in prestito da un paese ad un altro per soddisfare la spesa pubblica. E così, mentre provvedimenti differenti convergono nel mortificare l’economia reale, giunge al suo apice, preparando probabilmente il proprio declino, la gestione tedesca degli assetti finanziari, la cui ragioniera scrupolosa e un po’ pidocchia è succeduta dopo la crisi del 2008 nelle linee guida mondiali ad un’America spendacciona e bellicista fino al suicidio proprio e altrui.

La semi-egemonia tedesca, entrata in crisi nell’incalzare degli eventi successivi ma ancora solida, è sembrata coltivare la visione di un’Europa da gioco da tavolo ed esercita una diplomazia brutale, ma non sono la pretesa di un predominio nazionale e territoriale e strane innominabili nostalgie a permetterlo, quanto una fisionomia geopolitica e una potenza economica che tendendo ad una integrazione senza confini determinano instabilità negli altri paesi. Così, lo sforzo tedesco di mantenere bassa l’inflazione si accompagna a misure recessive verso paesi economicamente più deboli, ed è principalmente a questo che deve l’attivo di 7 punti sul PIL: in pratica, la Germania abbatte il proprio debito alimentando quello degli altri.

La conflittualità tra paesi europei è interna alla crisi dell’Euro, dove lo scontro tra  un’economia produttiva come quella tedesca, e una di conti truccati come quella greca, rende impossibile un riallineamento dei prezzi, se non a costo di inflazione delle economie centrali e di deflazione di quelle periferiche. La BCE di Draghi tende a risolvere il problema attraverso una gestione dell’economia che punti all’espansione con l’acquisto progressivo di titoli di stato nei paesi dell’Eurozona, e a ristabilire i meccanismi di trasmissione della politica monetaria all’economia reale. Tale politica viene incontro ad Atene, che ha necessità di attenuare l’austerity per evitare la bancarotta, ma è perlopiù osteggiata da Berlino, che richiede invece stringenti controlli sui capitali ed è fermamente contraria alla svalutazione.

A contrassegnare l’influenza tedesca non sono le caratteristiche di un Reich, ma quelle di una democrazia moderna sin troppo banale, concentrata sull’esportazione di prodotti e impettita di un moralismo da conti in regola. Sotto tale veste, la Germania del ventennale dell’unificazione non offre un’immagine particolarmente brillante, dimentica di tanti debiti a lei rimessi dopo la guerra mondiale contro il nazismo anche da paesi come la Grecia; apparentemente senza più memoria di Sonderweg e alternative possibili, continua a mantenere sepolte sotto le macerie di un muro invisibile l’eredità socialista. Il suo potere economico sa adattarsi ad un gioco di equilibri basato sulle opportunità del vuoto, tipico di un modello che dalla finanza si estende al mondo intero per il quale ogni valore si produce sulla finzione. Lo fa comprendere anche la cronaca degli istituti bancari nei giorni cruciali della crisi greca: la Deutsch Bank è imputata dalla Baffin di manipolazione dei tassi interbancari, arricchendo così un portfolio di multe già a circa 9 miliardi, mentre in maniera piuttosto asimmetrica l’ellenica Alpha Bank viene venduta per un dollaro alla bulgara Eurobank.

L’infallibile ragion contabile di Schäuble e la Merkel esige da Atene tutti soldi di cui questa non dispone e, per quanto sia stato concesso il terzo prestito per salvare il paese, ci sono stati momenti della discussione al parlamento europeo che hanno fatto pensare a qualche brutto film dove le torture sono chiamate accordi; forse, avrebbero dovuto educare qualcuno, eppure non sono piaciuti a molti, e proprio in Germania il verde Giegold vede nella risoluzione il ripetersi di vecchi errori: il demo-luterano Schäuble ha praticato una forma di estorsione e ha distrutto ogni fiducia diplomatica minacciando l’allontanamento dall’unione di un paese in difficoltà, al quale è stato imposto un dominio straniero. Il ministro in carrozzella, per il quale la Grexit rimane un’opzione aperta, è stato quindi accusato da Gysi della Linke di volere la distruzione dell’Europa e di fare della Germania una nuova DDR, mentre la Merkel è messa di fronte ad un errore politico che ne ha incrinato l’immagina da pacata massaia.

All’interno della CDU e della SDP si è prodotta una frattura che in onore del contribuente contesta alla cancelliera lo stesso salvataggio della Grecia, mentre al Bundestag anche i Verdi hanno votato no, seppure per il motivo opposto, in quanto contrastano la legittimità delle disposizioni imposte ai greci. Le preoccupazioni elettorali, che avevano messo in conto come vantaggioso il procedere con modi da spacciatori e da strozzini, stanno invece producendo rivolgimenti che potrebbero permettere alla Germania di ritrovare le peculiarità del proprio capitalismo da welfare, a suo tempo caratterizzato, come spiega Ronald Dore, da una finanza formato famiglia scrupolosa e attenta alle ragioni della solidarietà. E un deciso segnale di apertura europeista per impedire dislivelli tra paesi viene inaspettatamente proprio dal terribile Schäuble, pronto a cedere un consistente finanziamento del gettito fiscale tedesco per un bilancio separato dell’unione monetaria: praticamente un’eurotassa che conferisca poteri e disponibilità finanziarie speciali all’eurozona, in modo da affrontare ogni emergenza di bilancio sovrano in crisi o congiuntura negativa.

Il governo greco viene accusato dai detrattori di indulgere in un generico nazionalismo infarcito di retorici richiami ad una democrazia antica che, confrontata con forme e procedure moderne, risulta poco più di un feticcio. Tuttavia, le parole di Tsipras sembrano piuttosto intenzionate a sollecitare un universalismo che rompa le trappole dei particolarismi che puntellano i processi di globalizzazione, dove non soltanto la forbice tra poveri e ricchi si allarga promuovendo gli interessi dei secondi, ma i primi sono costretti a collaborare al proprio stesso sfruttamento. Tali comportamenti nel vecchio continente spodestano ormai ogni antica speranza, lasciando prevalere aggressive visioni da cortile. Tuttavia, le cose cambiano, e se l’Europa, come disse Derrida, è il proprio perenne divenire altro, dopo la sbornia del mercato è necessario torni la politica, che nella concretezza non è fatta di umori di piazza, quanto piuttosto di progetto, decisione e compromessi: e non c’è da stupirsi se un giorno si fa un accordo e quello dopo si riprende la lotta. Com’è tradizione, la guerra per l’Europa è contro e dentro l’Europa: oggi riqualificarne peculiarità e progetti significa riaffermarne il carattere di alterità continua e radicale.

In ottemperanza di tale esigenza i ministri greci, un po’ mercanti pronti ad ogni trattativa un po’ hipster cultori del non-convenzionale, hanno imputato alle autorità economiche di essere responsabili di un ciclo che lega insieme austerity e crisi, conducendo le critiche attraverso quel dibattito politico che proprio i palazzi del potere sembrano aver scacciato. L’informazione è però affollata di finissimi strateghi che sanno spiegare come non siano stati condotti fino al rischio previsto situazioni quali quella referendaria, che ha avrebbe attuato soltanto in parte lo schema del gioco del pollo per cui due macchine in rotta di collisione debbono sterzare soltanto all’ultimo momento in modo da far vincere chi mantiene la traiettoria dritta. Questo forse non è successo, ma possono essere valutati diversi urti intercorsi tra le parti.

Varoufakis ha reagito all’indifferenza dei colleghi ministri verso ogni discussione effettiva spiazzando le sedute con uno stile tra glamour e teoria dei giochi, meritandosi i deliziosi epiteti di «dilettante» e «giocatore d’azzardo» dall’autodefinitosi «non stupido» Schäuble, capo dei biscazzieri, e più di un rimbrotto dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem, spesso approssimativo nonostante le pretese e spietato seppur con mediocrità. Dovrebbe però essere noto a chi passa il tempo al parlamento europeo che già precedentemente all’incarico ministeriale Varoufakis, lontano dal massimalismo rivoluzionario, aveva maturato l’idea di salvare il capitalismo da se stesso per minimizzare il tributo umano della crisi, nonché una «modesta proposta» per impiantare la cooperazione e la ridistribuzione delle eccedenze nelle istituzioni europee senza modificarle – idee che pur se non si vogliono dibattere meritano comunque attenzioni. Le sue defezioni hanno inoltre lasciato inespresso un articolato piano per ristabilire una sovranità economica della Grecia, utile a metterne al sicuro la liquidità immediata e alzare il livello della trattativa, ingegnoso ma eccessivamente rischioso. Nell’incarico gli è seguito Tsalakatos, di impronta più marcatamente marxista, caro ai giornalisti per il suo zaino rosso.

Tsipras prima del mandato affermava di voler ridistribuire il benessere e stabilizzare l’economia, prendendo dai ricchi per dare ai poveri attraverso una regolare tassazione. Sa bene che la politica non può essere fatta soltanto di buone intenzioni, e durante le trattative, mentre le incertezze allontanavano gli investitori, per disporre di liquidità ha congelato i pagamenti delle imprese. Partito dall’idea che non sia opportuno lanciare pesi a chi affoga, si è ritrovato a dover tenere a galla il paese con tutto il peso addebitatogli da poteri internazionali che ancora non conoscono salvagenti. Se i negoziati non hanno dato i risultati sperati, non può essere negato che la base di partenza era disperata di suo. Non deve però  essere in nessun modo sottovalutato, né dalle anime belle e nemmeno da quelle brutte, che la contestazione ha finalmente portato le idee sui tavoli dove si decide: oltre ogni farneticamento trionfalista e impotente di mondi possibili e mai reali, deve essere finalmente compreso che un reale contiene il possibile e la sua manifestazione, e che perdere una partita non è la peggiore soluzione quando il gioco resta aperto.

E, a tale proposito, Žižek ricorda che si può perdere sempre meglio. Contro la  diffusa falsa alternativa tra falso radicalismo e falso gradualismo, occorre sempre chiederci come una specifica lotta possa influenzare le altre: ora, la possibilità che si offre è quella di sfruttare ogni crepa della politica europea per metterne in evidenza le contraddizioni e far irrompere al suo interno elementi che possano trasformarlo – rapporti con Russia, Cina e tutti i paesi del BRICS, soluzioni per problemi energetici, politiche migratorie e rapporti con le minoranze, ripensamento etico della finanza, confronto critico con la propria stessa tradizione. Appassionato assertore di una democrazia radicale, il filosofo sloveno, vicino a Syriza anche in circostanze quali il Subversiv Festival di Zagabria, vede nella formazione greca l’opportunità di contrastare l’egemonia di idee quali profitto, monetarismo e fiscalismo, restituendo così centralità a lavoro, beni pubblici e ambiente: a suo dire il progetto, che chiede esplicitamente di passare da un’amministrazione di tagli ad una politica di investimenti, pur mantenendo una direzione volta al cambiamento è in grado di convincere persino un autentico buon borghese. Del resto, se una borghesia riesce ancora a sopravvivere, non è perché l’anarco-capitalismo dissipatore contemporaneo la corteggi: anzi, la separazione di interessi è netta, e tanto vale torni ad essere una classe rivoluzionaria.

Cercare di ridefinire il quadro teorico è necessario: tuttavia, per rompere la logica del profitto gli slogan non servono, mentre i concetti devono permettere di afferrare il reale. Così, Tsipras e i suoi si sono lanciati in una nuova battaglia delle Termopili, che un talento della narrazione per immagini come Frank Miller potrebbe ambientare in cupi scenari metropolitani, lasciando i 300 dei giorni nostri alle soglie di un compito difficile e inevitabile, come spetta da sempre agli eroi. Se le storie sono metafore inesauribili delle possibilità di leggere il reale, il maggior numero degli innumerevoli racconti formulati dai media mostrano, dietro i tentativi di far prevalere ragioni interessate e retoriche stantie, il niente dell’informazione, il sadismo del capitale, l’opportunismo dei paesi e degli individui più irrilevanti. Domina uno storytelling continuo, che afferra i momenti come fossero sabbia: lasciandoli scappare, per vederli tornare, tanto è uguale.

Contro le esigenze del presente, non sempre le idee sono in movimento, spesso nessun tessuto si genera, e la chiusura particolaristica degli indifferenti sa essere aggressiva. Se tutto questo era già era noto, i continui colpi di scena della vicenda hanno mantenuto una paradossale stabilità: non soltanto perché senza crisi non sappiamo più stare, ma anche perché, per quanto sotto le forme del cortocircuito, il negoziato per la Grecia sembra aver iniziato a profilarsi nuove condizioni. Infatti, ogni potere ha subito fratture interne, rimescolamenti, contraccolpi, sovraesposizioni. Inevitabilmente, ogni posizione è stata posta di fronte al proprio opposto, ognuno ha dovuto scoprire le proprie contraddizioni, tutti sono stati costretti a confronti prima quasi impensabili. Anche i poteri europei, per quanto abbiano preso spunto soprattutto per esercitarsi nel dubbio diritto della forza, debbono farsi due conti, e non solo con i numeri.

Insomma, è accaduto che nel mezzo delle preoccupazioni finanziarie si è ricollocata la considerazione politica: servono quindi ora nuovi soggetti capaci di raccordare interessi internazionali e tutele dei paesi deboli, élite creative e popolo pensante. Pur se questo sembrano ancora assenti, è sempre più chiaro cosa non debbano essere.

Inoltre, la percezione nel dibattito pubblico di quel qualcosa chiamato “debito” è cambiata. Non è più così scontato considerare legittimo un credito che conosce soltanto perpetuazione e capace di gonfiarsi e sgonfiarsi a seconda di chi lo consideri, né sembra più così convincente un indice come il PIL che misura il valore monetario dei beni prodotti al lordo degli ammortamenti senza attenzione alcuna per qualcosa chiamata qualità della vita.

Senza riguardo per le sottigliezze e la solidità dei generali europei d’altri tempi come Clausewitz, la politica si è dimostrato essere guerra, e con gli stessi suoi sistemi; i problemi sono che se ogni parte è tuttora impegnata nel conoscere il campo di battaglia, spesso è difficile capire su quale terra ci si trovi. Molti dei paesi coinvolti nei negoziati hanno subito qualche rivolgimento, modificando ruoli e articolazioni in modi così sottili che mercati e comunicazione nemmeno sanno accorgersene. Questi cambiamenti forse somigliano ai battiti d’ala della farfalla di Lorentz e alle petit perceptions di Leibniz, ma sono comunque osservabili anche ad occhio nudo, e non soltanto sulle carte geografiche.

Nei paesi europei la crisi greca ha determinato reazioni di cui il tempo potrà fornire effettivi sviluppi. La Francia ha ritrovato intenti socialisti e un timido ma effettivo ruolo diplomatico, capace di unire le rotte egee a quelle atlantiche; la Germania ha toccato l’apice di un’arrogante moralismo da ragioneria richiamando così l’esigenza di una visione critica attenta all’equilibrio tra parti; la relazione privilegiata tra i due paesi, al cuore dell’Europa dai tempi della CECA, ha subito un’incrinatura che permette il profilarsi di altre alleanze. L’Italia, pur se con  ambiguità, ha espresso capacità di integrazione, confermando di essersi risollevata da una politica esteri da compagni di merende di berlusconiana memoria. La Troika è stata messa in discussione in ogni componente e, pur se sembra riabilitata nelle funzioni di “sorvegliare” le riforme greche, l’FMI della Legard insiste sull’ipotesi di tagliare o estendere il debito, mentre la BCE di Draghi ha tempestivamente alzato i fondi di emergenza per le banche greche.

Altri eventi mondiali sembrano indicare altri percorsi possibili. L’apertura tra USA e Iran mediata dalla Russia evidenzia un quadro generale che coinvolge il nuovo soft power americano e le rotte dell’Est, dimostrato anche dall’interessamento tanto statunitense (rivali dei tedeschi) quanto cinese (acquirenti del porto del Pireo) e russo (attenti ai confini di un impero da ricostruire) alla permanenza della Grecia nell’Euro. E non finisce qui.

Infatti, le proposte di cambiamento avanzate da molti stati europei trovano sintesi nell’Appello comune per un’altra politica economica in Europa attraverso il quale nel 2012 a Firenze si è costituta la Rete Europea degli Economisti Progressisti. Il documento chiede di ricondurre il sistema finanziario a forme di controllo sociale e di renderlo atto ad  investimenti produttivi sostenibili; tra le forme di realizzazione: conferire alla BCE il ruolo di prestatore di prima istanza con possibilità di acquisto di titoli di stato illimitata, permettere l’emissione di eurobond per stabilire una responsabilità comune del debito pubblico dell’Eurozona, introdurre politiche fiscali comuni, rimuovere le limitazioni dell’austerity, difendere i redditi e stimolare la domanda. Il ripensamento critico dell’integrazione finanziaria europea conosce anche decisi cambi di rotta, ed è l’economia stessa a chiederlo. I crocifissi comunisti donati al vescovo di Roma in Sud America potrebbero non essere soltanto folklore.

I segnali continuano ad essere ambigui, proseguono decisioni già prese. La situazione finanziaria delle famiglie resta tesa: l’ammontare in termini di bollette scadute dovuto alla Ppc (Public power corporation), il primo fornitore statale di elettricità in Grecia, è salito a 2 miliardi. Circa 1,5 miliardi di questo debito è dovuto dalle famiglie, le grandi imprese devono 280 milioni, lo stato 220 milioni. Inoltre, nel novembre 2014, prima dell’insediamento di Tsipras, che dovrà ora occuparsene, 14 aeroporti regionali erano stati concessi per 1,23 miliardi di euro al gestore aeroportuale tedesco Frappor. E se nei confronti della Germania sono dovuti 60 milioni, l’istituto di ricerca tedesco Iwh rivela che dal 2010, grazie ai bassi tassi di interesse, la Germania ha risparmiato 100 miliardi: il debito quindi ora, perlomeno di riconoscenza, dovrebbe essere il suo.

Ci sarebbe da sviluppare ancora una larga serie di argomenti: tuttavia, le questioni sottese alla crisi greca, e i nostri poveri conti, arrivano sin qui. Conti che anche la serva boccerebbe, scarsi su tante cifre e impossibili da far quadrare, come dimostrano anche coloro che seppur con effetti disastrosi insistono a giocarci. Del resto, è decisamente più interessante comprendere cosa possa muovere i numeri e determinarne il valore, qualità che per Varoufakis nell’ambito economico consiste proprio nella resistenza alle gretta logica della quantificazione e del mercato. In maniera simile, in un onesto lavoro di comprensione carte, files e appunti sembrano non essere mai definitivi e si accumulano, si rimescolano e si riscrivono di continuo, così come sembra fare la stessa realtà.

Il punto decisivo è che molte uova sono ormai rotte: occorre fare almeno una frittata. Il gioco che spetta ai greci è un’avamposto di quello in corso in ogni paese: riportare piena dimensione politica dentro disposizioni economiche straordinarie e contribuire a rompere come possibile lo stato di emergenza continuo al quale ci ha abituati questa proteiforme eppure monocorde crisi. Come misure interne specifiche, per il paese ellenico sarà necessario valorizzare l’eccellenza di prodotti peculiari ed esportarli a pieno raggio, creare istituzioni quali una banca di sviluppo e un effettivo catasto nazionale, promuovendo così una realtà più interessante di tanti stereotipi, e favorire quanto possa permettere al paese di ritrovare la propria intera dimensione.

E se a qualcuno pensare al passato appare demodé e sputare sui morti sembra trendy, può anche essere considerato che la Grecia merita attenzioni per aver avuto il coraggio di affrontare, nell’indifferenza diffusa, una lotta capace di aprire spiragli per invertire una spirale recessiva e depressiva che, se è un passaggio nel quale ancora siamo collocati, non è certo un destino senza scampo. Insomma, la vita non deve fare schifo per forza.

La posizione della Grecia alla confluenza tra Oriente e Occidente potrà permette all’Europa che verrà di approfondire relazioni con paesi con cui i suoi legami sono antichi e inevitabili ma per troppo tempo bloccati, come la Russia e la Turchia, e quindi con l’area caucasica attratto dall’Occidente e con l’Islam a questo parallelo. Ciò aiuterà anche i mercati anche se, piaccia o meno ai suoi ideologi più gretti, saranno necessari fattori d’integrazione quali un’economia emancipata dal profitto e una crescita ripensata nell’interesse ambientale e sociale, in modo da contribuire a sganciare la moneta dalla contrazione della produttività così come ad allontanare l’entità europea da un progetto utilitaristico andato a male. I numeri contano fino ad un certo punto e il credito non deve essere debito, colpa e ricatto, ma piuttosto fiducia, progetto, nonché, più che future e derivati vari, un futuro capace di procedere attraverso i crinali di secoli scandendo parole, come dice Montale in Mediterraneo, “sapide di sale greco”.

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Fotografia: Claudio Comandini, “Costruire accanto alle macerie” – Santorini, settembre 1993.

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