La storia e i giorni. Le bombe su Frascati e la distruzione di Tuscolo

Il Vulcano Laziale e le anime dei morti. II Guerra Mondiale e storia di Roma nel medioevo. Le prime bombe su Frascati e l’ultimo assedio a Tusculum. Un’icona e i monumenti di una piazza. Douhet: legittimazione teorica delle stragi civili. Storia e memoria dell’8 settembre 1943 e del 17 aprile 1091. Dopoguerra e attualità. Freud e le nevrosi della Campagna Romana. L’oblio e le città.

 

1. Distruzioni ricorsive

Spesso si suppone l’esistenza un rapporto diretto tra storia e memoria. Tuttavia, e proprio nel caso di eventi decisivi, la questione può essere molto più complicata. Infatti, i giorni di commemorazione che ormai si affastellano quasi sostituendo i santi del calendario, giorni che ovviamente fanno riferimento ad eventi non esauribili ad una sola giornata, spesso si fermano a commemorazioni fini a se stesse, perlopiù viziate da pregiudizi ideologici o interessi di parte. In tal modo, a meno di non strappare le pagine che non fanno comodo, non si può rappresentare la storia. Le impostazioni memorialiste hanno inoltre il limite che, rivendicando ognuna una specie di proprietà esclusiva degli eventi, favoriscono il proliferare di narrazioni diverse tra loro inconciliabili, ostacolando l’indagine dei dettagli e dell’insieme e incrementando tanto le difficoltà del reperimento delle fonti quanto quelle del loro inquadramento. Per valutare alcune di queste complessità possono avere un qualche interesse due diverse serie di eventi che in gran parte concentrano la loro importanza nel sud-est della Campagna Romana, quali i bombardamenti su Frascati iniziati nell’8 settembre 1943 e la distruzione di Tuscolo compiutasi il 17 aprile 1191.

Alcuni elementi di carattere simbolico ben presenti nel paesaggio possono aiutare ad esplicare meglio il discorso. La zona del Vulcano Laziale, nelle epoche più antiche, era considerata il confine dove le divinità dell’oltretomba preparavano le anime dei defunti, per poi traghettarle nel mare. Sulla dolce collina del Tuscolo, che si inasprisce nel suo promontorio, possiamo immaginare queste divinità prendere forma, disponendo delle vite degli uomini costretti ad affannarsi nel suo ampio panorama, costringendo per ben due volte i morti in transito nell’area a reclamarne il dominio.

Su quella collina sorgeva l’antica e potente Tuscolo. Il mito la vuole fondata da Telegono e protetta dai Dioscuri. La sua storia attraversa la storia latina, romana e medievale. Come ricorda Cicerone, che vi risiede e gli dedica anche il suo capolavoro filosofico De Tusculanae Disputationes, il municipio ha fornito alla Roma Repubblicana «moltissime famiglie consolari», tra le quali i Mamili, gli Juvenzi, i Fulvi, i Sulpici, i Furi, i Manli e i Catoni; nella fase di transizione tra Regno e Repubblica i rapporti di Tuscolo con Roma contribuiscono a definire il diritto romano, con l’impero la città accompagna l’Urbe nella sua magnificenza. Nel periodo dell’incastellamento esprime il potere dei Conti di Tuscolo, eredi delle vaste fortune della stirpe di Teofilatto, Marozia e Alberico, i quali esprimono potere sulle strutture religiose e civili dell’Urbe; il rapporto essenziale con i sovrani tedeschi viene quindi sviluppato da esponenti della casata quali l’illustre pontefice Benedetto VIII e il potente feudatario Tolomeo II. Tuscolo conosce quindi la fine per effetto delle lunghe trattative che coinvolgono gli interessi di Comune di Roma, Chiesa e Impero, portandoli a nuovi equilibri.

Tra le località nate dallo smembramento del vasto feudo tuscolano, la principale è Frascati. La cittadina conosce una dedica «in suffragio delle anime dei defunti» nella lapide sul lato nord del più antico monumento, il campanile di San Rocco del 1305, della chiesa detta anche di Santa Maria in Vivario, sovrastante il vivarium (vasca dei pesci) della villa appartenuta a Nerone e quindi al senatore Passieno Crispo. Frascati è oggetto delle attenzioni di signori quali Enea Silvio Piccolomini (il pontefice umanista Pio II, sotto il quale ha influenza il transfuga bizantino card. Bessarione), Guglielmo D’Estouteville (nobile normanno legato alla casa reale francese, esperto di diritto canonico e munifico mecenate), Marcantonio I Colonna (grande condottiero, estensore dello Statuto della città), poi abbellita dagli architetti pontefici e quindi da quelli del Regno d’Italia, mantenendo sempre una «certa cura» (come aveva detto Strabone di Tuscolo). La città accoglie come fosse un salotto immerso nel verde la rappresentanza degli interessi di Roma.

Anche le vicende che sembrano più lontane hanno attinenza con il nostro presente e, come ha ricordato il filosofo americano George Santayana, «Un popolo che non medita sul suo passato è condannato a riviverlo». Di fatto, per qualche coincidenza favorita dalla geografia, secoli dopo la distruzione di Tuscolo, al termine della partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale al fianco della Germania, morte e distruzione presentano un’altra volta il conto al territorio. Anche in questo caso come segno di una storia che non è affatto legata soltanto al luogo nella quale si esprime.

Al tempo della guerra Frascati è l’unica Stazione di Soggiorno e Turismo del Lazio, e rappresenta pure un centro militare piuttosto importante. Infatti, dal 1941 diventa sede del Comando Generale dell’aeronautica tedesca in Italia, e l’anno successivo viene nominata sede operativa dell’OBS (Oberbefehlshaber Sud), Comando Supremo Tedesco del Sud, ruolo che mantiene fino alla fine novembre 1943, quando le truppe spostano più a nord verso il Monte Soratte, proprio dove nel 1001 l’imperatore tedesco Ottone III era dovuto fuggire nella cacciata decisa dal suo luogotenente Gregorio I di Tuscolo. La campagna romana torna quindi ad essere immediata retrovia dopo lo sbarco di Anzio del 22 gennaio del 1944, e vi si svolgono anche lotte partigiane, tra le quali si distingue il giovane avvocato ebreo Levi Cavaglione; dopo il lento sfondamento della Linea Gustav, che divide il settentrione dal meridione della penisola, nel 3 maggio, giorno dei patroni SS. Filippo e Giacomo, vi passano infine le truppe pronte ad entrare a Roma.

Dal 19 aprile 1943 vi risiede il feldmar. Albert Kesselring e il comando del XIV° corpo motocorazzato. Il “sorridente Albert” è un personaggio di primo rilievo dell’esercito nazista, al quale Hitler, che lo reputa troppo onesto per gli italiani, non ha mai mosso rimproveri nonostante i rovesci subiti. Militare di formazione prussiana e cultura classica, abile diplomatico, capo di stato maggiore dell’aeronautica, creatore della Lutwaffe, ha al suo attivo il bombardamento di Coventry, l’assalto alla Polonia, l’invasione di Belgio, Olanda e Francia. È però in Italia, della quale peraltro ha in grande simpatia la cultura e la popolazione, che il suo genio per la strategia bellica trova modo di esprimersi, in condizioni così sfavorevoli che la consegna del Führer è «arrangiarsi».

Le maggiori città italiane sono da tempo costrette a subire pesanti  bombardamenti. Quelli su Frascati si inaugurano proprio l’8 settembre. Nella cittadina sono presenti circa 3.000 militari e ausiliari nazisti, che vi hanno le sedi del coordinamento generale di truppe corazzate, aviazione, paracadutisti. Pur costituendo un obiettivo sensibile decisivo già dal primo anno di guerra, avvisata del pericolo anche dalle notizie di Radio Londra, risulta attrezzata di una difesa contraerea piuttosto inefficace, inefficace contro bombardamenti massicci. Inoltre, a non permetterne nessuna salvaguardia sono le esitazioni del re Vittorio Emanuele III e le ambiguità del governo Badoglio. Al riguardo, particolari responsabilità è detenuta dalle trattative svolte per l’Italia dal gen. Giuseppe Castellano con il comandante in capo delle forze alleate gen. Dwight “Ike” Eisenhower.

8 settembre 1943, Frascati. Si celebra la festa della Natività della Madre di Dio. L’icona della Madonna Refugium Peccatorum, conservata alla Chiesa del Gesù, era stata trasferita dal primo settembre alla vicina Cattedrale di San Pietro per chiedere la fine della guerra attraverso un settenario di preghiere di intercessione. Già nel 1918 l’icona della Salus Infirmorum, custodita nella chiesetta della Sciadonna limitrofa al cimitero, era stata esposta nella Cattedrale per due mesi, al termine dei quali cessò un’epidemia di spagnola ed ebbe termine la Grande Guerra. Questa volta, scaduti i sette giorni, l’immagine è violentemente distrutta dalle bombe che colpiscono la cattedrale sulla navata sinistra poco dopo il mezzogiorno, proprio mentre numerose persone sono raccolte nell’area.

Soffermiamoci su questa icona. La Refugium Peccatorum ancora presente alla Chiesa del Gesù è una copia piuttosto recente di una delle tre realizzate nel 1706 dal padre gesuita Antonio Baldinucci sul modello della Madonna delle Querce di Montepulciano, che era conservata a Galloro di Ariccia, mentre un’altra è tuttora in Messico. La raffinata estetica gesuitica della riproducibilità delle immagini non la scampano dal venir polverizzata.

Le bombe, scendendo dalla Villa Aldobrandini verso il centro urbano e quindi la via Tuscolana, distruggono nella zona numerosi palazzi civili, il santuario delle Scuole Pie, l’intera Cattedrale di San Pietro ad eccezione della facciata aprendo anche una voragine nella piazza, e l’adiacente Seminario Tuscolano, risparmiando la fontana sulla piazza, e in quella adiacente la Chiesa del Gesù. Il completamento del Seminario Tuscolano, che agli americani bastano pochi minuti per cancellare, aveva coinvolto esattamente il periodo che va dalla Conquista dell’America del 1492 alla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776: curioso constatare che queste due date, così importanti per gli USA e per la storia mondiale, scandiscono anche le fasi di costruzione di un singolo monumento di una piccola città.

Infatti, nel 1492, don Battista Bagarotto, parroco e rettore di Santa Maria in Vivario, per effetto delle lettere apostoliche di Alessandro VI Borgia, riunisce i suoi beni, la parrocchia, la cappella e la vigna della Maddalena costituendo così il nucleo della futura Chiesa del Gesù, ancora esistente, a lungo tenuta dai Gesuiti, il cui fondatore S. Ignazio da Loyola fu ricevuto con la regola dell’ordine proprio a Frascati da Paolo III Farnese, il quale rende la città proprietà diretta della Santa Sede. Nel 1776, il vescovo Enrico Benedetto Stuart, ultimo discendente dei re di Scozia e sorta di monarca locale, sta finalmente per avviare il Seminario Tuscolano, da secoli costretto a continue false partenze; per permettere la custodia dei 12.000 volumi della Biblioteca Eboracense da lui istituita, acquista degli scaffali. Durante i giorni delle bombe, i volumi vengono trasferiti al Vaticano dalle camionette dei soldati tedeschi, aiutati dai frati cappuccini; questi scaffali sono l’unica cosa a sopravvivere di tutto il complesso, attualmente occupato da abitazioni civili e una galleria commerciale.

La popolazione, da mesi segnata dalle restrizioni economiche e alimentari e sovrappopolata per l’afflusso di cittadini romani, ora sconvolta dai bombardamenti improvvisi, è soccorsa in un primo tempo proprio dai soldati tedeschi, che in quell’esatto momento sono in gran numero seduti alla Cantina Antico Sempione, destinata anch’essa alla distruzione come i tre quarti della città (pur se, come altri edifici parzialmente danneggiati, per effetto delle ricostruzioni post-belliche). Quella trattoria apparteneva ai miei nonni Fulvio (socialista di estrazione repubblicana, fascista rivoluzionario della primissima ora, all’epoca già deceduto) e Isolina (nata Benedetti, che non ho mai conosciuto); proprio in quel luogo, prima della guerra, si conobbero giovanissimi i miei genitori Antonio e Carmela, un oste e una villeggiante romana, anche loro scomparsi ormai da tempo. Da bambino, nascoste nelle strade del paese ricostruito erano ancora numerose le rovine della guerra, che esploravo con curiosità e timore; in qualche modo, rimandavano alle pochissime di epoca classica presenti in quella specie di patria perduta, invisibile eppure intima, che è Tuscolo. Ed è anche per la presenza di questi particolari compagni di giochi che ho sempre cercato di vedere le cose con occhi che non possono essere soltanto i miei, ovunque questi possano posarsi.

Numerose città italiane, tedesche ed europee offrono ancora nitido esempio dei bombardamenti aerei sulle popolazioni civili, praticati per la prima volta e in modo sistematico durante la II Guerra Mondiale dall’esercito alleato già prima dell’armistizio. Alcuni stimano che i morti di Frascati ammontino addirittura a 6.000; tuttavia, secondo un censimento coevo realizzato dal parroco di San Pietro Giovanni Busco, i morti civili accertati sono 606 morti (circa 700 i soldati tedeschi) su una popolazione di 11.763 abitanti complessivi. Gli sfollati sono circa 7.000, molti rifugiano nel reticolo di grotte che caratterizza il sottosuolo della città, alcuni riparano presso le rovine del Tuscolo. Altri bombardamenti sulla città avvengono il I° ottobre e il 28 novembre 1943, e l’anno successivo il 21 e 23 gennaio, il 7 febbraio, il 2, 12, 25 aprile, il 22 e 25 maggio, mentre dal 26 maggio al 4 giugno il fischio delle armi da fuoco è cosa quotidiana.

I due terzi delle 60.000 vittime civili provocate in tutta Italia prima e dopo dell’8 settembre dalle incursioni aeree della II Guerra Mondiale trovano basi teoriche e legittimazione proprio da parte del generale italiano Giulio Douhet, che ne Il comando dell’aria (1921) assegna al bombardiere la funzione di realizzare stragi contro le popolazioni civili, costringendo così i paesi avversari ad arrendersi. La premessa è che le condizioni delle moderne società dei consumi annullano la distinzione tra belligeranti e non belligeranti. Tali condizioni, che permettono di associare la rappresaglia al monito, l’inutilità alla ferocia, la menzogna all’inefficacia, valgono ancora oggi.

 

8 settembre 1943, ore 17:00. Frascati, piazza San Pietro
8.09.1943, ore 17:00. Frascati, piazza San Pietro

 

2. Le memorie di un giorno

L’antica Tusculum viene distrutta il 17 aprile 1191 dalle truppe municipali del Comune di Roma, istituito circa cinquant’anni prima e ora intenzionato a consolidarsi ed espandersi. Il Comune, retto da Benedetto Carushomo, riceve il sostegno della Chiesa, che con Celestino III Orsini è interessato dopo un esilio ventennale a tornare nell’Urbe, mentre l’Impero, appena assegnato ad Enrico IV Hohenstaufen, gioca ruolo decisivo nell’astenersi dalla difesa del suo presidio tuscolano, ormai obsoleto a causa dell’annessione da parte del sovrano tedesco dei territori normanni del meridione permessi dalle sue nozze con Costanza D’Altavilla e per il decadere nell’importanza dei traffici della via Latina, poi detta Anagnina, che segnava la direttrice sud-est di Roma.

L’intronizzazione di Enrico è permessa dalla morte del padre Federico Barbarossa, avvenuta l’anno precedente nel guado del fiume Salef (oggo Göksu) in Cilicia durante le spedizioni della III Crociata; non ne viene ritrovato il corpo, e si diffondono le leggende del suo prossimo ritorno. La crociata conosce fasi alterne, e nel 1091 a Gerusalemme il re inglese Riccardo Cuor di Leone e il curdo Salah ad-Din, detto Saladino, stipulano una tregua triennale per cui i Turchi Selgliuchidi possono mantenere Gerusalemme laddove non ostacolano i pellegrinaggi. Anche soltanto questi due eventi fanno capire che sono un corso decisivi cambiamenti negli equilibri di potere: gli stessi che favoriscono la fine di Tusculo, che aveva visto Roma nascere per poi condividere l’idea di diritto e accompagnarne la magnificenza imperiale, e diventare quindi feudo della più potente casa baronale dell’Urbe, a lungo dominatrice delle vicende del papato.

Per qualche strana ricorrenza, le circostanze istituzionali con cui è decisa la definitiva cancellazione di Tuscolo, che accompagnano la definizione di nuovi equilibri geografici e politici, hanno spiccata similiarità con i complessi meccanismi che permettono il bombardamento di Frascati, preparato in modo sotterraneo, poco ufficiale e non molto intelligente nei convulsi giorni nei quali si rivelano le contraddizioni del regime fascista e si preparano le ambiguità della Repubblica. Lo svolgersi dell’8 settembre 1943, nel quale possono essere fatti confluire gli eventi più rilevanti del periodo complessivo, può aiutarci a ricostruire qual è stato il dramma del paese in quel particolare momento. Un fondamentale repertorio di fonti è L’inganno reciproco, curato da Elena Aga Rossi (Ministero Beni Culturali, 1993).

 

Ore 6:30. Bombe sulle coste calabre. Sbarcano tra Villa San Giovanni e Reggio Calabria i soldati della Iª divisione canadese e alcuni reparti britannici. L’azione costituisce un diversivo per lo sbarco previsto a Salerno nel pomeriggio nel contesto dell’Operazione Avalance.

Ore 8:00. Il re Vittorio Emanuele III Savoia riceve informazioni e convoca il Consiglio della Corona per le 18:00, al quale oltre a ministri e autorità dell’esercito viene invitato anche il magg. Luigi Marchesi, ufficiale di stato maggiore, al corrente delle ultime trattative di armistizio svolte a Cassibile in Sicilia da Castellano ed Eisenhower. Durante la notte, la situazione è precipitata e, a differenza da quanto si presumeva, le operazioni sono imminenti.

Ore 10:00. È appena tornato a Roma da Torino il gen. Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, uno dei principali artefici della sostituzione al governo di Mussolini con il mar. Badoglio, e apparentemente fedelissimo del re. A Torino si è consultato con il mar. Enrico Caviglia, da tempo esplicitamente critico verso gli sviluppi del fascismo, e inoltre rivale di Badoglio a Caporetto, dove aveva salvato numerosi soldati. Ambrosio viene avvisato da Marchesi che l’annuncio dell’armistizio è previsto in maniera inderogabile proprio per oggi: il problema però è che tutti lo aspettavano tra il 10 e il 15, probabilmente il 12.

Marchesi racconta le difficoltà della sera precedente. Infatti, alle 22:00 del 7 si sono presentati il gen. Maxwell Taylor e il col. William Gardiner dell’esercito alleato per preparare l’Operazione Giant II, l’aviosbarco di 15 divisioni di forze di terra da effettuare in coincidenza con lo sbarco di Salerno. Gli ufficiali americani sono molto preparati ed esigentissimi. Badoglio è stato costretto ad un alzataccia, e la sua dimora diventa luogo di una riunione urgentissima. Tra i presenti, il gen. Giacomo Carboni, capo del corpo motocarrozzato e a guida degli efficaci servizi segreti del SIM (Servizio Informazioni Militari), molto vicino alle posizioni di Galeazzo Ciano, è stato piuttosto energico nel dissuadere dall’operazione, preoccupato dall’enorme presenza tedesca da Pratica di Mare a Bracciano e dall’assenza di carburante e armi sufficienti, buone a suo dire al massimo per sei ore di battaglia. Carboni è convinto che siano da rimandare tutte le operazioni legate all’attuazione dell’armistizio; se fosse stato per lui, in seguito processato e quindi prosciolto per la mancata difesa di Roma e l’occupazione nazista della città, l’Italia in guerra non ci sarebbe mai entrata.

Ambrosio ascolta con preoccupazione le novità in corso, ed è comunque indispettito dal fatto che Carboni riesca notare le carenze delle risorse soltanto dopo 40 giorni che ne è responsabile, e ad ogni modo la pensa piuttosto diversamente:«I depositi sono colmi fino all’orlo. Munizioni quante ne vuole…». Quindi, riceve presso il proprio ufficio il gen. Mario Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, risoluto al limite della brutalità, fedele soprattutto al Paese ma piuttosto vicino ai Nazisti, e lo stesso Carboni, che sempre sicuro di sé fornisce assicurazioni tali da convincerlo che sia superfluo parlare direttamente con i due ufficiali americani ancora in città.

Ore 10:30. Kesselring viene informato del convoglio di navi giunto a Sorrento. Ad ogni modo, è l’attrezzato servizio di intercettazioni Krimilde di Frascati a tenerlo da tempo al corrente quanto possibile delle manovre del governo italiano. Dispone quindi per le 17:30 un appuntamento con Roatta del capo di stato maggiore Siegfried Westphal, il più giovane e uno dei più efficaci generali di Hitler, in modo da organizzare la difesa delle forze dell’Asse, e cerca quantomeno di far muovere anche la flotta italiana in tale direzione. Le diverse dissimulazioni giocate nei quarantacinque giorni di Badoglio sono complesse e non fanno comprendere fino in fondo le intenzioni delle parti in campo.

Ore 11:00. Ad Algeri, il gen. Walter “Beetle” Bedell Smith, capo di stato maggiore, ha ricevuto i telegrammi di Badoglio, mentre Taylor invia un messaggio urgente ad Eisenhower. Bedell Smith è stato l’interlocutore più intransigente durante le trattative dell’armistizio, e per la sua tenacia già si è meritato da Churchill l’appellativo di “mastino”; dopo la guerra, sarà per un breve periodo capo della CIA. Eisenhower, principale responsabile della campagna d’Italia, sarà poi presidente degli USA. A Roma, il re dà udienza a Rudolf Rahn, plenipotenziario del Reich, e lo rassicura della solidità del patto tra Italia e Germania: può comunicare serenamente al Führer che «L’Italia non capitolerà mai. Essa è legata alla Germania per la vita e per la morte.» Rahn, forse perché relativamente nuovo nell’ambiente, oppure perché non è efficace nel persuadere della potenza nazista come il suo superiore Joachim von Ribbentrop, ministro degli esteri tedesco, non aveva tratto allarmi nemmeno dagli incontri dei giorni immediatamente precedenti intrattenuti con Badoglio, Ambrosio e il ministro degli esteri Raffaelle Guariglia. Questi è un diplomatico di vasta esperienza fedelissimo alla monarchia, uno dei pochi non militari del governo esecutivo tecnico-militare voluto da Badoglio, che comprende sei generali, due prefetti, sei funzionari e due consiglieri di stato.

Italia e Germania hanno una lunga storia alle loro spalle, fortemente celebrata dalla retorica di ambedue i regimi, le cui pagine più interessanti sono comunque quelle più problematiche, che evidenziano un’altra volta il particolare legame del territorio tuscolano con il mondo tedesco. Papa Giovanni XII, Ottaviano figlio di Alberico II, appartenente quindi alla stirpe tuscolana, è nel 996 impegnato nella solenne circostanza di incoronare imperatore il potente Ottone I di Sassonia. Tuttavia, non si risparmia dal complottare prontamente con Berengario re del Friuli per contenere l’autorità di cui ha investito Ottone, la cui repressione contro colui che solitamente è ritenuto un pontefice piuttosto debosciato è inesorabile. Successivamente, un’altro contrasto coinvolge dal 1045 e per circa dieci anni un sovrano tedesco e un papa dei Conti di Tuscolo. Infatti, le ingerenze di Enrico III Salico e i conflitti interni alla nobiltà romana conducono ad alterne fase di fuga e riscossa il controverso pontefice Benedetto IX , nominato papa per ben tre volte. Trovano così espressione tensioni che di lì a poco sfoceranno nella lotta delle investiture e quindi ad una maggiore autonomia della Chiesa dall’aristocrazia romana e dall’imperatore tedesco.

In questo settembre 1943 ci sono alcuni soldati tedeschi che si fidano dell’Italia di Badoglio, e altri no; le posizioni sono molto articolate, e permettono di gettare uno sguardo su retroscena e conseguenze. Tra chi si fida, oltre al plenipotenziario Rahn, c’è l’ambasciatore Hans Von Mackensen, che fornisce a Berlino ampie assicurazioni sul governo. Poi, l’incaricato d’affari all’ambasciata dall’importante nome di principe Otto von Bismarck; questi, già sostenitore di un alleanza del Reich con l’Inghilterra, nel dopoguerra diventa deputato parlamentare nella Germania Federale per la CDU. Invece, il gen. Karl Wolff sembra fidarsi soprattuto del pontefice: mentre dissuade Hitler dal piano di rapire Pio XII, chiede aiuto al papa per risparmiare ancora vittime alla Germania; poi, siccome non si fida di nessuno, per ridurre i danni tratta la pace con gli Alleati all’insaputa del Führer. Si fida invece l’amm. Wilhelm Canaris, capo dell’Abwehr (servizi segreti), pur se per ragioni molto particolari: infatti, sta facendo di tutto per rovesciare il regime e sabotarne la guerra, convinto di fare il proprio «dovere di tedesco»; tra i promotori dell’attentato a Hitler del luglio 1944, muore strangolato con una corda di pianoforte dopo la capitolazione del Reich. Mantengono credito verso l’Italia anche il capo di stato maggiore dell’esercito gen. Zeitzler, il consigliere militare contramm. Lowisch, e il pur sospettoso Kesselring.

Kesselring ha peraltro ricevuto recente conferma da parte dell’amm. Raffaele De Courten, capo di stato maggiore e ministro della marina, che lo sbarco anglo-americano sarà contrastato ovunque avvenga; la comunicazione è estesa al rappresentante tedesco della marina, il severo contramm. Meensen-Bohlken, che si fida poco, e all’addetto militare gen. Toussaint, che non si fida troppo, poi destinato a occuparsi di Boema e Moravia. Questi ultimi due personaggi sono comunque sostituti recenti. Il primo, prende il posto del viceamm. Friedrich Ruge, uno di coloro che più sentono il retaggio prussiano, che sembra però fidarsi ancor di meno degli stessi Nazisti, partecipando infatti dopo la caduta del Reich al processo contro i crimini di guerra tedeschi. Il secondo, sostituisce il gen. Enno von Rintelen, altro eroe della Grande Guerra e consigliere militare a Roma, recatosi da Hitler a Rastenburg nella Prussia Orientale; von Rintelen non si era fidato molto già nella riunione del Ferragosto appena trascorso a Casalecchio di Reno, dove aveva conferito con Roatta, il sottocapo di stato maggiore gen. Carlo Rossi e il gen. e aiutante di campo Luigi Zanussi, in un incontro richiesto direttamente a Hitler dal feldmar. Edwin Rommel, “la volpe del deserto”, che se si fida dei soldati sembra non fidarsi affatto dell’apparato, fedele soltanto al «suo» Führer e all’idea di una «guerra senza odio».

È diffidente da tempo il comandante di flotta aerea Wolfram von Richthofen, cugino del famoso Barone Rosso della Grande Guerra, memore delle accuse di tradimento all’Italia nei confronti della Prussia. Il gen. Eberhart Von Mackensen, fratello dell’ambasciatore e comandante militare dell’area di Roma, oltre a non fidarsi, si distingue come criminale di guerra: infatti, è lui a decidere quel rapporto «dieci a uno», abbassando comunque le proporzioni cinque volte maggiori richieste da Berlino, che colma le Fosse Ardeatine dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944; l’ordine esecutivo della rappresaglia è dato da Kesselring, le operazioni sul campo sono svolte dal ten. col. Herbert Kappler, che da parte sua è convinto della fine del fascismo. Non fida affatto degli italiani il mar. Wilhelm von Keitel, da Hitler stesso considerato «fedele come un cane» e disprezzato anche da molti suoi commilitoni, poi condannato a morte a Norimberga; Keitel nell’incontro di Tarvisio del 6 agosto aveva peraltro ricevuto da Guariglia una mendace «parola d’onore» sull’assenza di contatti presenti e futuri con gli Alleati. E, da parte sua, Hitler da tempo è convinto del prossimo voltafaccia italiano. Torniamo alle ore undici del giorno in corso.

Ore 11:00. Su altri fronti dispongono di informazioni particolarmente riservate. Churchill invia a Stalin un messaggio «personale e strettamente segreto», dove afferma che l’armistizio è stato respinto all’ultimo momento dagli italiani per la probabilità che i nazisti entrino a Roma costituendo un governo fantoccio: «Tuttavia, noi annunceremo l’armistizio all’ora convenuta e precisamente alle 16:30 ora di Greenwich: naturalmente l’Avalance avrà inizio questa notte».

Ore 11:30. Eisenhower risponde con un fonogramma a Badoglio. In maniera secca e definitiva il generale intima di attenersi ai termini dell’accordo e di annunciarlo all’ora prefissata. Aggiunge sibillino che se non verranno rispettati i patti concordati, tutto il mondo avrebbe conosciuto «i dettagli di questo sporco affare». Omette ogni riferimento al bombardamento su Frascati, e prosegue: Su vostra richiesta le prossime azioni aeree sono state temporaneamente sospese. Voi avete sufficienti truppe vicino a Roma per assicurare la temporanea sicurezza della città. I piani erano stati fatti nella persuasione che Voi agivate in buona fede e noi siamo pronti a portare avanti le operazioni militari su queste basi. Ogni deficienza da parte Vostra, nel condurre a termine tutti gli obblighi dell’accordo firmato, potrà avere gravissime conseguenze per il Vostro Paese, e conseguentemente avrebbe seguito la dissoluzione del Vostro Giorno e della Vostra Nazione.» 

Eisenhower, pur se sembra strano, risulta efficace come ufficiale per una propria particolare simpatia e, nonostante ne faccia un uso massiccio, avrà poi modo di dichiarare di non amare molto le armi; peraltro, nei suoi anni di presidente troverà modo di criticare il lancio delle bombe atomiche su un Giappone ormai prossimo alla resa, e persino di mettere in guardia contro le ingerenze dell’apparato militare-industriale. Ad ogni modo, al momento ha già detto ai suoi uomini: «Stiamo per invadere un Paese ricco di storia, di cultura e d’arte come pochissimi altri. Ma se la distruzione di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo G.I., ebbene, si distrugga quel bellissimo monumento.»

Da parte sua, il generale americano sua è cosciente della paura che coinvolge le alte sfere del potere italiano rispetto alla reazione nazista, e la identifica militarmente con «la presenza in zona di una divisione di panzer tedesca». Peraltro, nelle dure e difficili trattative Castellano aveva richiesto per ottimizzare la difesa della capitale anche un bombardamento pesante sul reggimento della 3ª Panzergrenadieren, l’unità tedesca considerata più pericolosa, ricevendo però assicurazioni di impegno alleate non poi così convincenti.

La 3ª Panzergrenadieren era locata a Montefiascone, ma il suo raggruppamento tattico di 16 carri Marder era stato spostato dal 27 luglio a Frascati per migliorare la difesa dell’OBS; il 9 settembre si sposterà in aiuto dei paracadutisti della 2ª divisione Luftwaffe che prende il controllo di Roma. Tuttavia, Kesselring scrive che se, grazie all’appoggio aereo USA Roma avesse tenuto, l’esercito tedesco abbe dovuto abbandonare tutto il sud per trincerarsi su «una linea Gotica nemmeno concepita», oppure «su una linea Hitler che non esisteva nemmeno sulla carta», o addirittura, per pochi mesi, sul Po; insomma, relativizzando la consistenza di questa leggendaria 3ª Panzergrenadieren, il feldmaresciallo afferma che la guerra sarebbe potuta finire subito. Ad ogni modo, il bombardamento su tale unità è stato annullato: non così quello su Frascati, che non viene nemmeno nominata da Kesselring quale città-ospedale, come farà invece per altri centri di interesse storico.

12:09. «Tre formazioni da 20 entrate in maglia a Frascati» (col. Mario Capitani, La difesa di Roma, 1973). Suonano le sirene. 130 quadrimotori sganciano 353 tonnellate di esplosivi, coinvolgendo di passaggio anche Velletri, in modo da impedire l’accesso all’Appia da parte dei Nazisti e facilitare lo sbarco su Salerno. Dopo tanti già in corso sulle città italiane, questo è il primo bombardamento di questa fase di “pacificazione”, ed è anche il segnale ufficioso e paradossale dell’avvenuto armistizio. Infatti, l’opportunità di bombardare il comando tedesco di Frascati era stata prospettata da Castellano a Hiesenhower e Bedell Smith già nei primi incontri a Lisbona del 19 e 20 agosto, confermata il 3 settembre  a Cassibile. Portare la pace a suon di bombe fa comprendere come, invertendo le parole del grande stratega prussiano von Clausewitz, la politica sia la prosecuzione della guerra con altri mezzi.

Approfondiamo ulteriormente i dettagli di questo drammatico momento. Il futuro Paolo VI, il card. Giovanbattista Montini, impegnato con la diplomazia vaticana e sopratutto con il card. Luigi Maglione a tessere rapporti con gli angloamericani per contribuire all’allentamento dei tedeschi a prevenire l’influenza comunista dei Russi, ha modo di dire: «Guarda, guarda Frascati che va a fuoco! Guarda come è polverizzata a causa della spietata rovina che piomba dal cielo» (testimonianza riportata nella visita alla città del 1963). La prevista programmazione su Radio Londra di due ore di musica di Verdi è annullata già da due giorni. In questa lunga giornata, tanto gli intrecci dei rapporti internazionali, quanto l’attività degli strumenti di comunicazione, sembrano preludere al futuro prossimo venturo.

L’ordine di compire le incursioni su Frascati viene effettuato dal gen. Harold Jimmy Doolittle con un dispaccio segreto nominato Peggy Jane. I bombardieri arrivano in quattro ondate successive a pochi minuti di distanza, di giorno come preferivano gli americani. La prima ondata arriva alle 12:09. Il primo gruppo, il 99° Bombing Group, di base a Oudna vicino Tunisi, aveva tra i piloti Jules Horowitz, che riceve modesta azione contraerea da terra. Il secondo gruppo è il 301° Bombing Group, stessa base, apparteneva ala Polish Air Force, fuoriusciti verso la Francia dopo la l’invasione tedesca. Il terzo, il 97° Bombing Group, base a Detiene, a 40 km a sud di Tunisi; dei trentasette velivoli ne viene abbattuto uno e dei dieci membri dell’equipaggio vengono ritrovati morti due; quattro di quelli paracadutatisi all’esterno vengono catturati dai soldati tedeschi presso via Sciadonna vicino al cimitero; i nazisti li proteggono dalla folla inferocita. Il quarto è il 2° Bomb Group, decollato da Massicault (ora Borj El Amri) sempre presso Tunisi; sostiene cruenti combattimenti con i caccia avversari, subendo danni a 18 velivoli su 30 e la distruzione di 14; nel 1989 il pilota Paul Christiansen invierà a don Giovanni Busco, parroco presso la cattedrale di San Pietro, un plico con una lettera di scuse e un’immagine della Madonna. Le quattro ondate scatenano 1.300 bombe per 353 tonnellate di esplosivo, con bombe da libbre 500-1000 e 2000 (kg. 227-454 e 908), senza ottenere nessun risultato concreto sui comandi nazisti. La contraerea riesce ad abbattere 15 aerei su 130. In seguito, verrà potenziata, risultando comunque insufficiente.

Per il Genio Civile già questa prima incursione ha fatto crollare il 60% delle case di Frascati, quelle inabitabili sono il 32%; Kesselring, che nemmeno era in città, dichiara che l’incursione non ha avuto conseguenze sui numerosi edifici dove alloggiano i comandi militari.  Tuttavia, i soldati tedeschi impegnati nei soccorsi con quelli italiani, Croce Rossa, Vigili del Fuoco e popolazione, interrompono di scavare tra le macerie appena vengono a conoscenza con certezza del fatto che l’Italia ha concordato un armistizio con gli Alleati. Kesselring blocca quindi gli aiuti che aveva già disposto in maniera immediata, sequestra i mezzi di soccorso dei pompieri arrivati da Roma e Marino, cattura i soldati italiani che non riescono a fuggire. Nel comando iniziano a radunarsi i più importanti esponenti dei servizi militari e civili presenti nell’Urbe. Altrove, qualcuno pensa che la guerra sia già finita: eppure, le bombe non finiscono di cadere quel giorno. Tre quarti degli edifici di Frascati saranno irrimediabilmente distrutti, e sono molti i centri che continuano ad essere bombardati. Intanto, nelle ore che seguono, è il caos.

Ore 17:00. Ripartono da Roma gli ufficiali americani Taylor e Gardiner. Carboni continua nell’azione già intrapresa di consegnare armi alle formazioni combattenti; moschetti, alcune casse di bombe e tre sacchi di munizioni sono fornite ai comunisti alle cui posizioni si avvicinerà sempre di più. I convogli Alleati si approssimano al mediterraneo orientale e la ricognizione area tedesca trasmette il segnale convenzionale di allarme Orkan, secondo il quale per effetto di accordi precedenti sarebbe dovuta intervenire da Genova e La Spezia la squadra navale da battaglia.

Ore 17:30. L’Agenzia Stefani capta un dispaccio della Reuter che annuncia l’armistizio tra Alleati e Italia. Il messaggio è colto anche a Berlino, dove la situazione sembra essere più chiara che ai rappresentanti del Reich in Italia. La notizia si diffonde in tutto l’esercito. Entra in piena attuazione il Piano Alaric, già definito nei tratti fondamentali dal maggio 1943 e deciso per ordine del Führer il 26 settembre a Frascati da Kesselring, il suo rivale Rommel, che dopo la sconfitta in Africa è stato nominato ispettore delle difese costiere occidentali del nord Italia, l’austriaco cap. Otto Skorzeny, un colosso con una vistosa cicatrice da duello sul volto, e per le SS il com. Kurt Student, paracadutista brillante e innovativo, nonché il col. Eugene Dollmann, studioso, diplomatico e spia di altissimo profilo.

Laddove Alarico è il re visigoto responsabile del Sacco di Roma del 410, il Piano Alaric nazista prevede quattro operazioni distinte da compiere in tutta Italia, alle quali sono attribuiti quattro nomi diversi. Operazione Eiche (quercia) comporta la liberazione del Duce; Operazione Student (studente), prevede l’occupazione di Roma; Operazione Schwarz (nero), indica l’occupazione dei centri nevralgici dell’Italia settentrionale; Operazione Achse (asse), la cattura della flotta italiana. La difficoltà di gestirne le conseguenze porta i militari a opporsi, in questa e altre occasioni, all’Operazione Schwarz (nero), che prevede la cattura di Badoglio e della famiglia reale, e all’Operazione Rabathfon di rapire il pontefice Pio XII Pacelli e accaparrarsi l’archivio Vaticano, dove Hitler è convinto di trovare tutte le prove del tradimento italiano.

Ore 18:30. Radio Algeri trasmette un messaggio in cui Eisenhower comunica la resa senza condizioni delle forze armate italiane. È stato concesso un armistizio militare approvato da tutti i paesi alleati, compresi i sovietici, agendo nell’interesse della Nazioni Unite. Pertanto, cessano immediatamente le ostilità tra le forze di questa e quelle italiane, che ricevono assistenza e aiuto laddove si impegnano ad espellere i tedeschi. Le navi alleate sono in rotta per Salerno. Rahn, ascoltando la notizia da una radio di New York, telefona a Roatta, che afferma «La comunicazione di New York è una sfacciata menzogna della propaganda inglese, da respingere con indignazione».

Ore 18:45. Sta terminando il consiglio della Corona: presenti Vittorio Emanuele III, Badoglio, Ambrosio, Guariglia, Carboni, Sorice, De Courten, Sandalli, Puntoni, Marchesi, De Stefanis (sottocapo di stato maggiore che sostituisce Roatta impegnato a pianificare con Westphal la difesa contro gli Alleati pronti a sbarcare a Salerno). L’aria è metallica. Chi sa non parla, chi parla ignora. De Courten prende la parola soltanto per dire di non sapere, ed effettivamente fino al giorno prima gli ordini erano stati piuttosto vaghi. Il primo discorso lo pronuncia Ambrosio che, perseverando nel proprio obiettivo, è favorevole all’accettazione dell’armistizio, del quale insieme a Badoglio è forse l’unico ad avere una conoscenza apprezzabile. Guariglia, il gen. Renato Sandalli (capo di stato maggiore e ministro dell’aereonautica), che pur essendo un pluridecorato della Grande Guerra ha sempre saputo le cose per ultimo e gli mancano i mezzi minimi, il gen. Antonio Sorice (consigliere di stato e generale di brigata e ministro della guerra), che aveva pubblicamente espresso già dal 1941 l’esigenza di tirarsi fuori dal conflitto e a breve abbandona l’attività ministeriale per sostenere attivamente la Resistenza, trovano ragione comune nel dire che occorre respingere le penalizzanti condizioni di questo armistizio. Carboni è dello stesso avviso.

Carboni è veemente. Attacca la «dimostrata malafede» degli Alleati, che hanno realizzato una vera e propria imboscata, critica duramente le oltremodo pasticciate trattative compiute da Castellano, il quale addirittura non conosceva neppure l’inglese; propone persino di sostituire Badoglio, che peraltro lo stima molto, e così permettere al re di guadagnare qualche giorno, e quindi intavolare nuove trattative con i tedeschi. Dopo di lui, soltanto Sorice prende parola e, «soggiogato dalla violenza del discorso», acconsente convinto. Interrompe brevemente Marchesi, che sembra aver appena appreso da Radio Algeri la comunicazione dell’armistizio. Carboni riprende il discorso.

La tensione è enorme. I destini del paese dipendono dalle decisioni di questi pochi uomini. Fino ad ora, non ne hanno indovinata una. Persino quel minimo di pianificazione già pronta è stata fatta in base alla data del 12, mai comunicata ufficialmente e ricavata da Castellano dai colloqui.

Carboni viene interrotto da Marchesi. Questi non è un ufficiale di grado elevato ed è stato peraltro invitato all’ultimo minuto da Ambrosio, anche perché è stato a Cassibile ed è conoscenza di dati e circostanze. Il suo sostegno all’armistizio in corso si precisa in questo passaggio. Legge ad arte legge la traduzione del radiogramma inviato da Eisenhower a Badoglio, insistendo sull’ultima minacciosa parte. Riepiloga le circostanze, ricorda che occorre onorare gli accordi in modo da non perdere definitivamente ogni credibilità con il mondo intero, e così ritrovarsi isolati in una guerra ancora in corso e destinata ad aggravarsi. Rileva la temibile concentrazione sui campi siciliani e africani della più grande formazione di bombardamenti mai vista, che se utilizzata su Roma avrebbe provocato devastazioni peggiori di quelle in potere ai tedeschi. Il silenzio è spesso, interminabile. Gli illustri convenuti stanno confrontandosi con una realtà spietata. Interviene quindi Guariglia. Così ricorda il ministro: «Non restava che andare fino in fondo».

Bisogna però chiarire dove può essere esattamente il fondo: occorre così fermare questa scena e analizzarne pieghe e implicazioni. Infatti, la versione definitiva dell’armistizio, detta Armistizio Lungo, che con le pesanti disposizioni dei suoi quarantaquattro articoli chiarisce in pieno il concetto di “pace punitiva”, voluta soprattutto dagli inglesi, verrà firmata da Badoglio soltanto il 29 settembre sulla corazzata Nelson a Malta. Tutti conoscono le disposizioni contenute nei dodici punti dell’Armistizio Breve, impostate da Roosevelt in una telefonata con Churchill, e che nelle clausole prevede approfondimenti non esplicitati; è stato diffuso anche il Memorandum di Quebec, per il quale gli Alleati si impegnano a modificare a favore dell’Italia le condizioni dell’Armistizio nella misura in cui ci fosse stata effettiva collaborazione contro i Nazisti. E mentre Castellano, per questo fortemente rimproverato da Guariglia, era andato oltre i limiti di un mandato che non aveva facoltà di trattare questioni militari già nel primo disorganizzassimo incontro di Lisbona del 19-20 agosto, Eisenhower e Bedell Smith hanno continuamente giocato d’azzardo impostando le trattative esclusivamente sulle basi del contenuto dell’Armistizio Corto. L’inganno sembra così essere reciproco: tanto, a pagarne le spese sono altri.

Tuttavia, non finisce nemmeno qui. Infatti, una copia dell’Armistizio Lungo era pervenuta il 26 agosto a Lisbona per ordine di Churchill dalle mani dell’ambasciatore inglese Campbell a quelle di Zanussi, ufficiale peraltro piuttosto sospetto in quanto già addetto militare a Berlino, inviato in modo irregolare da Carboni ad affiancare Castellano, partito dieci giorni in treno sotto falso nome e del quale non si hanno più notizie; anche questa circostanza era stata fortemente criticata da Guariglia in quanto metteva a rischio la segretezza della missione. A Roma questo testo viene consegnato a Roatta, che quindi dovrebbe esserne a conoscenza, ma comunque Zanussi non riesce a relazionarne in quanto Castellano gli nega di partecipare alla fondamentale riunione del primo settembre, dalla quale è inspiegabilmente assente anche il re. Da parte sua Marchesi, nell’ultima missione a Cassibile del 3 settembre, ha  recuperato una dettagliata serie di documenti, consegnata ad Ambrosio, che comprende: l’Armistizio Breve, l’Armistizio Lungo, il Promemoria Dick sulla consegna della flotta, le istruzioni per l’aeronautica e per le operazioni di sabotaggio, un promemoria per SIM, le istruzioni per sostenere l’Operazione Giant II, e una lettera di Castellano.

Inoltre, si sono occupati di svolgere trattative anche Dino Grandi, artefice del golpe contro il Duce ed efficacemente collegato all’intelligence inglese, funzionari come Blasco Lanza D’Ajeta e Alberto Berio, il senatore e industriale Alberto Pirelli, e chissà chi altro, con tutto il codazzo di interpreti e consoli che li ha seguiti. Insomma, le cose si sono complicate a causa della disorganizzazione che sembra coinvolgere l’intero assetto della missione complessiva, portandola in qualche modo a complottare contro se stessa. Anche la scelta di Castellano quale emissario è quasi inspiegabile, se non fosse che sembra essere stato lui ad ideare il piano, svolto in collaborazione con Carboni, per cui il 25 settembre 1943 il Duce è portato via in ambulanza dopo la sfiducia ricevuta in parlamento. Inoltre, Carboni, sostenuto da Sorice, vuole dare un seguito all’idea di sostituire Badoglio e trova un candidato esemplare in Enrico Caviglia che, a quanto pare arrivato a Roma «per affari privati», tratterà il 10 settembre con Kesserling le condizioni per Roma Città Aperta accettando il disarmo della città. Intanto, l’8 settembre procede.

Ore 19:15. Sono richiamati all’ordine dodici autosiluranti della Superaerea dell’aereonautica che, nonostante gli ordini impartiti il 3 settembre, si lanciano di propria iniziativa all’attacco contro i convogli nel golfo di Salerno. Quattro dei dodici non captano l’avviso.

Ore 19:42. Badoglio, accompagnato da Marchesi alla sede dell’EIAR di via Asiago per registrare un proclama alla nazione già concordato con gli Alleati, annuncia ufficialmente l’avvenuto armistizio e la cessazione delle ostilità contro gli Alleati. La Germania, il fido alleato del giorno prima, diventa così l’eterno nemico. «Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.» Lo sforzo da lui fatto alla radio è evidente, eppure si compiace di una certa virilità della sua voce.

Sembrerebbe un ordine chiaro e perentorio, eppure è impossibile venirne a capo, anche perché gli alti dirigenti non avevano dato notizia di quanto stava accadendo ad ogni capo militare, e molti sapevano, laddove sapevano, a pezzi e confusamente.

Anche la BBC annuncia l’armistizio. I 100.000 inglesi e i 69.000 americani dell’equipaggio delle navi coinvolte nell’Operazione Avalanche festeggiano. Bisogna però fare i conti con l’opposizione tedesca: questo lo comprende bene l’amm. Andrew Cunningham, comandante in capo delle forze navali nel Mediterraneo. Il gen. Wesley Clarke, comandante della Vª armata, spera invece nella resistenza italiana ai tedeschi, non considerando le difficoltà che comporta il disfacimento in atto a Roma, con l’inevitabile penalizzazione delle risorse di un esercito già mal coordinato, e la rinuncia all’Operazione Giant II. Mentre qualcuno in Italia è convinto che la guerra sia finita, le truppe sbarcano a Salerno con uno stato d’animo immotivatamente rilassato.

La defezione dell’Italia, a maggio già uscita stremata dalla campagna di Russia, preoccupa tanto Kesselring a Frascati, quanto Hitler a Rastenburg. Le divisione tedesche al meridione sono date per perse, il loro recupero passa in subordine. Intorno Roma ci sono sei divisioni e alcuni elementi di altre due. Kesselring dispone di una divisione paracadutisti e una di granatieri, poi supportate da elementi di un’altra divisione corazzieri, ma manca tuttavia il prezioso apporto di Rommel che, tanto per le istintive doti di tattica quanto per una generale sfiducia verso l’organizzazione militare italiana, è già fortemente persuaso dell’inutilità della battaglia, e si rifiuta di spostare armate a sud della linea La Spezia-Rimini.

Intanto, la parola d’ordine Achse sta facendo scattare le operazioni previste dal Piano Alaric. Il giorno dopo viene bombardata la flotta mentre sta per consegnarsi agli Alleati (Operazione Achse). Invece, per la liberazione di Mussolini (Operazione Eiche), la fuga dal Gran Sasso viene pianificata da Student; il volo verso la Germania sarà compiuto il 12 settembre partendo dall’aeroporto militare della Cicogna nella valle sottostante Tuscolo, grazie ad un piano attuato sotto la direzione di Skorzeny e ideato da Dollmann. Dopo la guerra, ambedue proseguiranno le loro efficaci attività di spionaggio: il primo come nostalgico, il secondo per la CIA, restando comunque amici. In questo 8 settembre, i tre nazisti sono probabilmente a Frascati.

Ore 20:00. L’alto comando tedesco dirama il messaggio «Mettete al coperto il raccolto», rendendo esecutivo il disarmo dell’esercito; le truppe naziste sono già operative intorno a Roma per occuparla (Operazione Student). Viene immediatamente disperso il comando del XVII° corpo d’armata di Albano, costituito dalla divisione Piacenza dislocate tra Frascati e Velletri e da Anzio ai sobborghi di Roma, mentre i paracadutisti presenti a Roma catturano il presidio italiano di Frascati. Ora ci si può dedicare all’occupazione dei centri del nord del paese (Operazione Schwarz).

Ore 20:20. Badoglio invia a Hitler un telegramma che dichiara: «L’Italia non ha più forza di resistenza. Le sue maggiori città, da Milano a Palermo, sono o distrutte o occupate dal nemico. Le sue industrie sono paralizzate. La sua rete di comunicazioni, così importante per la sua configurazione geografica, è sconvolta. Le sue risorse, anche per la gravissima crescente restrizione delle importazioni tedesche, sono completamente esaurite. […] Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L’Italia, ad evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio.» Nonostante le novità intercorse, il capo di stato scrive al vecchio socio connotando gli Alleati quali nemici.

Ore 20:30. I tedeschi, ai quali Roatta ha ordinato di propria iniziativa che venisse lasciato libero transito, attaccano e si impadroniscono dei depositi di carburante di Mezzocamino e Valleranello. Nella notte dopo lascia a Carboni disposizioni piuttosto inspiegabili per la difesa di Roma laddove, disponendo su Tivoli la 135ª divisione corazzata Ariete II e la 10ª divisione motorizzata Piave, isolano completamente la città.

Ore 21:00. L’amm. Carlo Bergamini, capo di stato maggiore della marina, dopo aver tenuto un rapporto sulla corazzata Roma sul trasferimento della flotta, giunge a conoscenza delle condizioni effettive a cui deve sottostare. Torpedinieri, incrociatori, navi da battaglia e cacciatorpedinieri, al gran completo e con i loro altisonanti nomi, alcuni cambiati per via dell’avvicendamento ai vertici del governo, già stanno veleggiano verso il loro destino. E tutte le navi da guerra e mercantili devono lasciare le acque territoriali, così come prevedono le condizioni di consegna della flotta agli Alleati del Promemoria Dick.

La reazione di Bergamini è violenta. Denuncia a ragione di essere stato «tenuto all’oscuro di quanto si stava tramando alle nostre spalle» ed è pronto, in accordo con ammiragli e comandanti, ad autoaffondare le navi. Ne parla in una telefonata con l’amm. Sansonetti, sottocapo di stato maggiore della marina, questi convinto che rispetto ai destini del paese l’annullamento della flotta sarebbe davvero «l’ultima carta da giocare» e pertanto non deve assolutamente avvenire. Sono del resto le parole che ha sentito pronunciare dallo stesso Badoglio, il quale però ha deciso l’opposto.

Ore 21:30. Carboni, che ha litigato con Ambrosio lamentando la propria scarsa autonomia, sembra non aver provveduto ai rifornimenti e al presidio dei depositi. Ambrosio, da parte sua, in seguito accusato da alcuni di aver complottato pure contro il re, si reca a Torino per distruggere un «compromettente diario». Riunione al ministero della guerra per preparare la fuga del re e di parte del governo: a volte, salvare la pelle può diventare una priorità istituzionale. E così a notte fonda, Badoglio su una Fiat 1100, il re e la regina su una Fiat 2800, partono e percorrono la Tiburtina. A Brindisi prende forma il Regno del Sud; tra i ministri, restano a Roma Guariglia, Sorice e De Courten, componenti del governo diretto ad interim dal ministro dell’interno Umberto Ricci, attivo durante l’occupazione nazista.

Ore 22:00. I nazisti stanno combattendo contro la 21ª divisione di fanteria dei Granatieri di Sardegna al ponte della Magliana, importante punto di uscita dell’asse nord-sud della città sul Tevere. A bordo della Vittorio Veneto Bergamini ottiene il rispetto degli ordini che prevedono la partenza da La Spezia verso la Maddalena.

Ore 23:00. Una telefonata di De Courten rassicura Bergamini, non intenzionato né ad abbandonare «i propri marinai» né a ad «arrendersi senza combattere», del fatto che le navi non sarebbero state cedute. Nonostante le ripetute menzogne, la flotta è sul punto di essere consegnata agli inglesi. Il giorno dopo la Roma, su cui aveva fatto incidere le sue iniziali, viene bombardata al largo dell’Asinara dai bombardieri tedeschi, e si inabissa portando con sé per un totale di 1.393 vittime. In seguito, De Courten parteciperà alle trattative per il trattato di pace per sostenere l’intangibilità della flotta italiana, poi mantiene brevemente il ruolo di ministro con la repubblica, e quindi si ritira a vita privata a Frascati.

Ore 24:00. L’aviazione tedesca si fa più decisa in tutti i cieli, in un paio d’ore è preso l’aeroporto di Ciampino; un’ora ancora e i paracadutisti entrano a Tor Sapienza gettando nel panico i capi italiani rifugiatisi. Nonostante le disposizioni dell’armistizio e i proclami di Badoglio «Viene prescritto ai soldati italiani di non prendere l’iniziativa di atti ostili contro i tedeschi» (Ettore Musco, La verità sull’8 settembre, 1943). L’ineffabile Roatta, che per salvarsi la pelle ha già telefonato a Kesselring garantendogli di aver saputo dell’armistizio soltanto via radio, si accoda appena possibile al corteo in fuga; ha fornito esecutività alla Memoria OP 44, che prescrive in modo minuzioso pur se involuto e senza riferimenti all’armistizio le operazioni atte ad attaccare i reparti tedeschi, ma i comandi stanno ormai dissolvendosi; in seguito, Roatta verrà processato per crimini di guerra in Italia e Jugoslavia, riuscendo però a fuggire da un ospedale militare verso la Spagna. In questa lunga notte, i Nazisti hanno sloggiato i soldati italiani e pernottano al ministero della guerra di via XX settembre. I Granatieri di Sardegna stanno spostandosi dal conteso ponte della Magliana verso porta San Paolo, e altre forze, tra cui quelle dei Carabinieri, li stanno raggiungendo. Nelle settimane successive 815.000 soldati sono catturati dai tedeschi, reputati indegni della condizione di prigionieri e destinati ai lager come IMI (Internati Militari Italiani); di questi, 55.000 non sopravvivono. I caduti sul campo sono 20.000. Molti combattono all’estero, dove il legame con l’ormai defunto regime è più debole, e a Cefalonia e Corfù è già iniziato da parte dei Nazisti il disarmo dei militari italiani, alla cui opposizione seguono lunghe rappresaglie. È guerra tra tra tedeschi e italiani,  tedeschi e anglo-americani, tra italiani e anglo-americani, tra italiani e italiani.

 

L’ultima grande vittoria tedesca a Roma si era registrata nel 1167 a Prataporci (sotto Monte Porzio, non lontano da Torre Jacova), dove con il decisivo appoggio dei Tuscolani sconfiggono il Comune di Roma. Nello stesso anno, con il Giuramento di Pontida nasce la Lega Lombarda, che su un altro fronte territoriale si oppone in maniera netta al Barbarossa. L’esercito imperiale dispone di 6.000 cavalieri ben armati. Di questi, parte giunge da Civitavecchia, conquistata da Cristiano di Magonza e dai Pisani, e parte da Ancona, con Rainaldo di Dassel e il bramantino conte di Buch; questi si uniscono a milizie di Albano e Tivoli e ai Tuscolani guidati da Rayno dei Conti di Tuscolo. Si contrappongono a questo esercito le truppe comunali romane, che comprendono più di 10.000 uomini con prevalenza della fanteria, attrezzati di spade, lance, archi e mazze ferrate, guidate da esponenti delle famiglie patrizie romane Frangipane, Orsini, Savelli e Pierleoni, formate dai vassalli del Comune e del papa.

Le truppe romane quindi subiscono nel 29 maggio 1167, giorno di Pentecoste, una sconfitta cocente, alla quale si attribuiscono più di 1.000 morti e circa 2.000 prigionieri, poi condotti a Viterbo dai filoimperiali Prefetti di Vico. Il pontefice Alessandro III Bandinelli, che era stato contrario alla spedizione contro Tuscolo, fugge coperto con l’aiuto dei Frangipane prima a Gaeta e poi a Benevento presso i Normanni; a lui la città si consegnerà dopo la definitiva fuoriuscita di Rayno dei Conti di Tuscolo, che per timore dell’inevitabile rappresaglia scambia l’antica rocca con Montefiascone e Borgo Flaviano sulla ben esposta via Francigena (Cassia). In questo 1167, Barbarossa da Ancona giunge a Roma e pianta il vessillo imperiale presso il Mons Albanus (Monte Mario). A San Pietro viene incoronato a luglio per la seconda volta imperatore da parte dell’antipapa Pasquale III, che ad Aquisgrana ha già fatto santo Carlo Magno. Al momento, la supremazia degli imperiali è netta. Tuttavia, il trionfo è destinato a mutarsi in tragedia in breve tempo.

 

3.09.1943. Armistizio di Cassibile
3.09.1943. Armistizio di Cassibile

 

3 . Le città dell’oblio

Collegando la memoria degli eventi, nella toponomastica di Frascati il monumento con le lapidi infrante dedicato all’8 settembre si trova nel viale dedicato ai Conti di Tuscolo, all’inizio della strada per Grottaferrata realizzata nel dopoguerra. Tuttavia, se il sistema di nomenclatura associa strettamente due questioni storiche decisive quanto misconosciute nei loro aspetti più problematici, e se aver subito una distruzione di fatto accomuna le due località, Frascati e Tuscolo hanno continuità differenti e non condividono le stesse memorie. La differenza di clima culturale che caratterizza le due città è peraltro delineata anche negli stemmi, rispettivamente costituiti dall’aquila imperiale e dalle chiavi papali, elementi tra loro connessi eppure contrapposti.

Frascati è originariamente un borgo, in posizione favorevole ai commerci, che cresce d’importanza nel tempo anche grazie alla distruzione di Tuscolo, l’antica rocca che dominava sulla collina al centro della Valle Latina. Tuttavia, oltre a questo avvicendamento di tipo funzionale, per cui di fatto una località ne eclissa un’altra, va considerato che Frascati rimuove per lungo tempo la memoria di Tuscolo, soprattutto perché la propria crescita storica è determinata dall’influenza del Papato, coinvolto insieme al Comune di Roma e all’Impero nella distruzione dell’antica città.

Se ne resta il nome, che nel 1538 Paolo III ricollega alla civitas alla quale restituisce la sede vescovile, mai abbandonato dalla consuetudine locale, è però soltanto nel quadro del regno sabaudo, inizialmente fortemente anticlericale, che Frascati commemora la distruzione di Tuscolo, come ricorda la lapide ufficiale che sulla facciata del palazzo comunale ne celebra il settecentesimo anniversario affermando di essere «erede di cotanta gloria». Dal canto suo, la Frascati che al tempo dell’Asse era centro militare e diplomatico di primo ordine si ritrova dopo la guerra ad essere retrocesso a paese perlopiù buono per gite fuori porta. La paura era stata davvero tanto, se nell’immediato dopoguerra viene sloggiata persino la ditta di fuochi artificiali Ferretti di Villa Muti, ma il problema è proprio la negazione di quella memoria nella quale i proclami istituzionali trovano uno degli elementi più decisivi della loro retorica.

Tali elementi permettono inquadramenti piuttosto interessanti sulla “psicologia” delle città e sul loro costituirsi quali centri di interessi. Attraverso loro, possiamo anche cercare di comprendere le fratture che, pur nascondendosi, le costituiscono maniera essenziale. L’8 settembre è il Giorno dell’Armistizio, commemorato a livello nazionale seppure in termini vaghi, modellati su una rigida contrapposizione di vincitori e vinti e di storie separate e irriducibili che banalizzano irrimediabilmente la complessità degli eventi. Il 17 aprile è la data della distruzione dell’antica Tuscolo, ricordato solo localmente e superficialmente come Martedì di Pasqua, più noto come “pasquetta dei frascatani”, quando per lo più si va per prati a fare scampagnate che lasciano montagne di rifiuti, quasi a completare l’opera dei secoli passati, della cui storia ci si vanta per semplice luogo comune.

Ambedue le date vanno così a collocarsi nel calendario che comprende quelle festività di copertura che permettono di passare sotto silenzio massacri di ogni tipo, nascondendo in tal modo gli eventi alla base senza permetterne adeguata elaborazione.

Per focalizzare adeguatamente tali evenienze, viene in nostro soccorso Freud che, applicando la psicanalisi allo studio della storia e ripensandovi questioni filosofiche decisive, sostiene come una nevrosi insorga in seguito al verificarsi di due traumi, e dimostra la validità di tale concezione nella sua ultima opera Il monoteismo di Mosè (1934-38). Da tale dinamica possono essere tratte osservazioni riguardo al carattere delle città e sulle componenti che, come nelle nevrosi ossessive, rappresentano quegli aspetti indesiderabili contro i quali si lotta inutilmente.

Possiamo pertanto ipotizzare la sussistenza di alcuni aspetti nevrotici propri al territorio della Campagna Romana, espressi in maniera esemplare dalle distruzioni che la storia ha fatto subire a due delle sue località più tipiche e suscettibili anche di ulteriori manifestazioni. Di fatto, come segnala lo storico Raimondo Del Nero sulla scorta del diplomatico Incisa di Camerana, la centralità geopolitica di questo territorio gli impedisce di vivere in uno «splendido isolamento». Del Nero (Tuscolo tra pace e guerra, 1996) individua come tale aspetto ha costretto il territorio all’alternanza di periodi bellici, con guerre volute e rappresaglie subite che arrivano fino al passato prossimo, ad altri a carattere spiccatamente residenziale, il cui carattere di eccellenza è perduto da tempo. E infatti oggi il territorio è coinvolto inevitabilmente in ampi traffici, spesso subiti, nonché da speculazioni e clientele di vario tipo.

Cerchiamo di approfondire tale decisiva questione. Laddove una città perde le proprie tradizionali funzioni in coincidenza di importanti cambiamenti avvenuti nei rapporti istituzionali esterni, sparisce apparentemente quasi all’improvviso, ma in realtà il suo dileguarsi è conseguenza di un lungo processo: questo è quanto avviene per la distruzione medievale di Tuscolo. Invece, laddove una città è costretta a subire le conseguenze estreme di un conflitto, oltre a essere obbligata a trasformare il proprio assetto generale per effetto delle devastazioni, deve anche rimodellare i propri rapporti interni in dipendenza di un cambiamento generale del contesto politico, manifestando quindi queste trasformazioni nel tempo: questo è quanto accade a Frascati dopo il suo bombardamento dell’8 settembre.

Insomma, che venga rase al suolo, oppure interamente ricostruita, una città da luogo della memoria diventa in qualche modo luogo dell’oblio, nascondendo parte della propria storia per favorire i rinnovati equilibri di potere. Infatti, al di là della normalità e delle immagini ufficiali decise dal potere, il carattere più manifesto e l’atmosfera prevalente di una città e di una cultura sono spesso decisi dagli elementi rimossi e da quella che possiamo definire la sua storia segreta, costituita spesso anche da bieche trattative e prezzi da pagare.

Il sale sulle macerie fumanti a segno di un suolo reso ormai sterile e mai più riedificabile, la cancellazione cartografica di cui offre esempio la copia medievale della mappa dell’impero romano detta Tabula Peutingeriana, la nuova benedizione di luoghi di culto legati alla sua influenza come San Giovanni a Porta Latina, le teste delle vittime appese come trofei sotto l’arco di Gallieno all’Esquilino, le chiavi della città portate in trionfo al Campidiglio, i superstiti accecati. Eventi che appartengono alla storia, trasmessi fino a noi in vario modo.

Eppure, tali tragedie non sono mai state oggetto di rivendicazioni o commemorazioni particolari: addirittura, la rocca di Tuscolo distrutta dal fuoco è stata a lungo popolarmente indicata a Roma come monito ai bambini indisciplinati, le sue rovine sono stare largamente utilizzate come cava di materiali edili dagli abitanti dei paesi circostanti, proprio quelli più investiti dalla diaspora dei sopravvissuti. Forse, non c’era semplicemente più nulla da rimpiangere: Tuscolo era comunque decaduto da tempo come centro, e non sussistevano più le condizioni per cui dovesse riproporsi il popolamento del sito. I suoi beni vengono così definitivamente incamerati dalla Chiesa, e anche la storia immediatamente successiva alla sua distruzione si svolge lontana dalla zona.

L’evento, solitamente trascurato, attesta l’avvenuto consolidamento dei poteri che congiurano alla distruzione dell’antica città, e accompagna inoltre questioni che pesano in modo decisivo sulla storia mondiale. Laddove nello stesso periodo a Milano l’arcivescovo e la Lega dei Comuni entrano in comune opposizione alle ingerenze imperiali, a Roma invece i diversi interessi pongono condizioni di compromesso drastiche quanto lo è il potere in gioco, esprimendo in tutta la cruenza dei tempi un conflitto di identità pienamente occidentali. Questo coinvolge i riferimenti all’eredità classica e alla religione cristiana, allo stato di diritto e all’idea di rappresentanza, alla separazione tra autorità spirituale e temporale. Approfondiamo la complessità di tali occorrenze.

Impero, nozione importata dall’Asia che originariamente implica riferimento alla trascendenza del potere, inizia a configurarsi, oltre che  come forma che i poteri assumono, quanto quale condizione dell’esercizio del potere. Nel frattempo, i Comuni si impongono quali modelli amministrativi delle comunità; inizia a venir smantellato il potere feudale e si trasforma il ruolo dell’aristocrazia, crescono i circuiti economici legati al ceto mercantile e alle componenti finanziarie. Roma, città dove l’impero ha assunto la propria massima configurazione, è riferimento inevitabile per le autorità che ne rivendicano cariche e funzioni, che comunque continuano a venir assorbite dalla Chiesa universale pronta a influenzare i nuovi contesti nazionali.

Infatti, gli stati nazionali europei sono coinvolti dell’impresa delle Crociate, che intrattengono con Gerusalemme un rapporto che in grande misura astrae dalla ormai già lunga storia musulmana della Città Santa: la capitale religiosa dei paesi coinvolti nelle spedizioni è proprio la Chiesa di Roma, per quanto la città, retta mentre il pontefice Urbano II emana le Crociate da Clermont retta dall’antipapa di ordine tiburtina Clemente III, resta sostanzialmente estranea all’impresa. E da parte sua, l’Urbe esprime concretamente un Senato che per imporsi deve realizzare pieno controllo giuridico e territoriale del Districtum.

Nell’oriente geografico e simbolico di Roma, l’antica porta del sole dei culti latini, espressione di una nobiltà filogermanica ormai ingombrante, sul tracciato della via Latina che ormai non rappresentava più la direttrice principale dei traffici, Tuscolo rappresenta in qualche modo il sacrificio ideale per suggellare un nuovo ordine del mondo. Mentre il genio romano del diritto sembra rivelare uno spiccato carattere di dominazione e quindi esprimersi, per così dire, nel suo rovescio, la città viene distrutta. Dopo, nessuno la ricorderà più.

Nel dispiegarsi della modernità, l’attuazione dei poteri dell’Occidente non può prescindere dal togliere di mezzo la scomoda presenza dell’involuzione nazionalsocialista, che coinvolge due paesi straordinari eppure non sempre fortunati, peraltro accumunati dall’essere giunti in ritardo all’esperienza dell’unità nazionale e quindi caratterizzati da diverse anomalie. Così, giungono al collasso la colta Germania, dove è la nobiltà a gestire i processi capitalistici, e la raffinata Italia, mai troppo moderna e sempre inconsapevolmente arcaica. La piccola e graziosa Frascati, colta nella loro intersezione, subisce, a causa dell’uso spregiudicato delle armi e di una diplomazia decisamente raffazzonata quanto inesorabile, una pesante devastazione.

Ancora oggi Frascati, come molte altre città, fatica a ricordare se stessa. Ciò non avviene per effetto di una lontananza temporale degli eventi o perché il presente in qualche modo comporti una qualche emancipazione: spesso quanto è chiamata memoria storica viene costituita con vicende anche più distanti e meno provate, se non addirittura immaginarie, e nessun passato muore mai del tutto. Il problema è comprendere come sia possibile che molti fatti considerati storici non stabiliscono continuità, non fondano comunità e non esprimono cultura: insomma, non assumono il senso antropologico del complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale nel quale un popolo si riconosce e che è in grado di trasmettere.

Questo oblio che coinvolge in modi diversi le città ha una ragione funzionale, e rivela quanto possa essere rilevante il peso rapporti di potere determinati dalla sovraesposizione di un territorio cruciale, che muove grandi interessi spesso subiti e inevitabilmente più ampi dei bisogni soddisfatti. Tali fattori condizionano fortemente la percezione che un territorio ha di sé. Il modo per permettere l’imbrigliamento di tali equilibri e portare un territorio ad assumere maggiore consapevolezza rappresenta una scienza che probabilmente aspetta nuove forme istituzionali per essere esercitata. Siccome  i poteri espressi da quelle attuali già stanno ampiamente martirizzando le risorse morali e materiali, forse non servirà un altro bagno di sangue per intraprendere un cambiamento. E del resto, è come se fossimo in un perenne dopoguerra.

Del rest0, il dopoguerra inizia mentre la guerra è ancora in corso. Nel luglio 1944 gli anglo-americani e un cartello di 45 paesi istituiscono con la Conferenza di Bretton Woods il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale per la ricostruzione e la ripresa economica dei paesi sconfitti, di fatto imponendo l’accrescimento del debito finanziario. Nonostante gli accordi di Bretton Woods siano stati poi superati dalla politica finanziaria di Nixon del 1970 e dallo sganciamento del riferimento aureo della dollaro, la prassi che lega in un cerchio distruzione, ricostruzione e finanza si mantiene e si perfeziona con le più recenti guerre cosiddette umanitarie.

Dopo una guerra contemporaneamente vinta e persa, l’Italia inizia a legittimarsi sulla base di una Resistenza che se all’estero non è riconosciuta nel paese sembra rappresentare in modo sin troppo parziale. Infatti, tutti dimenticano che il fascismo al governo si è letteralmente e inevitabilmente suicidato con le sue stesse mani, e che l’opposizione al regime e ai nazisti è maturata inizialmente soprattutto tra le fila dell’esercito del re, e molti soldati si sono uniti ai partigiani dentro e fuori dei confini nazionali. La nuova Repubblica, decisa per un referendum su cui pesano forti sospetti di brogli, retta inizialmente dal monarchico Enrico De Nicola, entra nella prima fase di ricostruzione dal difficile dissesto adattandosi agli equilibri mondiali.

Nel 1950 le rovine di Frascati forniscono alcuni degli scenari del film Il cielo è rosso di Claudio Gora, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto del 1946, che racconta della crisi dei sopravvissuti alla guerra, che vivono precariamente di furti e prostituzione. Mentre saccheggi, borsa nera e sciacallaggi fanno sentire il loro peso, la ricostruzione avviene con soluzioni non pertinenti al contesto, degne piuttosto di un’anonima periferia, che peraltro portano alla demolizione di molti edifici storici soltanto parzialmente danneggiati, svilendo definitivamente il gusto di un’urbanistica ricca di finezze prospettiche. Sembra che la città voglia dimenticare se stessa, senza peraltro dimostrare nessuna capacità di afferrare il contemporaneo. Al di là del fatto che molte persone hanno avuto di nuovo una casa e anche indipendentemente dall’enorme ruolo svolto dalla speculazione edilizia, tale vicenda è sintomatica di un preciso clima culturale, per il quale ogni nuova brutta cosa è comunque migliore della cosa vecchia più bella. Ciò è comunque accaduto in tutta Italia, e pure questa è una forma di nevrosi: non è l’unica.

Frascati, che ha subito il conflitto in una forma piuttosto subdola e spietata, riceve una medaglia d’argento per il valore civile soltanto nel 1960. Nel tardivo riconoscimento, oltre il quale è piuttosto improbabile che si possa andare, hanno inevitabilmente un peso le vergognose circostanze internazionali in cui matura il massacro della città, che costituiva comunque un preciso obiettivo militare. Ad ogni modo, a rivelare un’insipienza piuttosto grave è il fatto che nella località in più di settant’anni non è mai stata proposta nessuna istituzione atta a commemorare  in una degna prospettiva di pace gli eventi per i quali ha subito la guerra. Segnale di un percorso possibile che possa permettere di soddisfare tale esigenza è stato fornito recentemente dal volume a cura Raimondo Del Nero, Roberto Eroli, Dario De Sancits, Basilio Ventura 8943 – Vittima di uno sporco affare (2015), il cui ricco materiale documentario, raccolto con la collaborazione di numerosi cittadini, potrebbe costituire le basi di un centro di documentazione internazionale capace di ritrovare i nessi che legano la storia del luogo a quella mondiale. E del resto, nessun evento è mai soltanto locale.

Il mondo resta però lontano. In quella che possiamo chiamare come l’epoca di Nannì imperversa la volgarità ottimista e ingenua della «gita a li Castelli». Il vino della zona, fatto comunque perlopiù per essere consumato in loco entro l’anno, nonostante conosca punte di elevato prestigio subisce una vistosa tendenza alla massificazione. La mancanza di un marchio effettivo permette che il nome venga sfruttato prescindendo dalle peculiarità del prodotto, la campagna è progressivamente devastata da crescenti forme di abusivismo. Finanziamenti USA contribuiscono all’apertura dell’impianto di produzione vinicola di Fontana Candida e vini denominati Frascati, composti di ingredienti non meglio precisati, trovano ampia diffusione in America; intanto, il paese continua ad attirare numerose e persistenti truppe di ubriaconi tedeschi che berrebbero ogni cosa. Almeno qui, gli antichi avversari trovano modo di conciliarsi soltanto a distanza.

Altre trame procedono, e Vaticano e USA approfondiscono il fitto rapporto diplomatico e finanziario avviato già negli anni della guerra, della cui lobby i frascatani ministro Pietro Campilli e sindaco Pietro Micara sono significativi esponenti; tale componente, fortemente influenzata dalla guerra fredda e dalla propaganda anticomunista, condizionerà profondamente le scelte politiche nazionali. Il quadro è oggi fortemente cambiato, e tuttavia il contesto politico, sociale e culturale nazionale è in gran parte ancora figlio di tutto questo.

Le nevrosi delle quali il territorio soffre hanno così vasta casistica e si sono peraltro estese e aggravate, soprattutto in relazione al fatto che l’abusivismo ha comportato l’annullamento di qualsiasi separazione dei paesi con la periferia della capitale, senza però che le amministrazioni siano state minimamente in grado di disporre infrastrutture e servizi all’altezza delle esigenze dell’area metropolitana. Questa particolare capacità di imporre decisioni prese un po’, per dirla come si dice, alla ‘ndo cojo cojo, ricorda quando, durante la guerra, manovre poco accorte condussero a conseguenze drammatiche, il cui impatto poteva essere quantomeno ridotto. Mentre il processo di costituzione della metropoli procede senza nessun adeguato supporto, la zona diviene sede residenziale di numerosi esponenti politico-spettacolari nazional-popolari, che ancora riescono a godersi la celebrità e l’arietta. Un po’ come al tempo della Roma antica e di quella papale.

Insomma: piuttosto di una qualche grandezza cittadina, la storia sembra semplicemente confermare il ruolo strategico dell’area, che arriva a precisarsi nei modi più feroci proprio con il processo di distruzione di Tuscolo e i bombardamenti successivi all’armistizio. I paragoni con il passato non sono però sempre plausibili: infatti, nonostante intrighi e scandali abbiano sempre la loro importanza, sono del tutto inarrivabili i livelli espressi tanto da papi, princeps e matrone del medioevo tuscolano che rispondono ai nomi di Benedetto IX, Alberico e Marozia, quanto da militari, spie e diplomatici italiani del secondo conflitto mondiale quali Badoglio, Carboni e Castellano: personaggi controversi e influenti in maniera comunque vada esemplare.

Infatti, nel suo piccolo, il gotha locale risulta adeguatamente in linea con il panorama politico globale laddove risulta condizionato senza scampo da meschini quanto decisivi giochi di potere. La sua azione spesso stenta a trovare una dimensione capace di andare al di là di uno sterile compromesso tra paesanità obsolete e assalto delle borgate, perdendo le sfumature tipiche del luogo per restare estraneo alle opportunità della metropoli, travolto dalla globalizzazione nel più provinciale dei modi, assecondando perlopiù la formula patinata e infelice di “centro commerciale naturale”, che comunque potrebbe estendersi ad ogni località con qualche pretesa.

La storia sembra lontana da questo presente. Di fatto, di molte storie le testimonianze dirette si sono spente da tempo. Eppure, nessuna storia mai si arresta: il problema è saperne portare memoria. La memoria però non è così solida come si crede, né la storia è mai una certezza. Si può non avere memoria della storia, e restare però imbrigliati in memorie storicizzate che ingannano ponendosi quali presunti doveri etici; si può mandare a memoria la storia, eppure essere sprovvisti di una storia della memoria che permetta di individuare le connessioni tra gli eventi. La consistenza dei due termini, che possono escludersi tra loro in diversi modi, dipende anche dagli interessi di chi ordisce le narrazioni, e quindi da una politica che, tanto nelle amministrazione locali quanto negli interessi globali, non sembra essere in grado di uscire dai propri vicoli ciechi, rendendo più drammatica la realtà della guerra e più incerto il significato della pace.

Le tragedie che segnano il passato come il presente sembra far capire che si evita accuratamente di conoscere, mentre pregiudizi nuovi e vecchi lasciano in preda tanto delle superstizioni dell’attualità, quanto di condizionamenti antichi. Forse, la ferita viene dal futuro; forse, il tempo stesso è in frantumi. Rimane sempre difficile comprendere il potere nella propria forma più essenziale, quale capacità di raggiungere scopi al di là delle circostanze: risulta molto più facile esercitare un dominio sterile e continuare a non vedere e a non sentire, e così credersi forti e pretendere, oppure reputarsi deboli e recriminare. Vada come vada, non è un granché.

Ogni città è un racconto della storia, viva nelle sue pietre, anche laddove queste sono ormai polvere. Il sedimento della storia, compresa o meno che sia, è rappresentato ancora oggi da città coinvolte in un cambiamento profondo, ed è nelle città che una cultura coinvolge le persone e le loro relazioni, pure per chi non se ne accorge affatto. Anche dove, e ormai accade spesso e ovunque, le città sono prive di un autentico contesto sociale e culturale, caratterizzate ampiamente da fenomeni distruttivi quali comunità assente, ospitalità mancata, residenzialità ostile, e si limitano ad ostentare feticci e progetti che nemmeno comprendono. Anche dove, come vedo io ora, le città si allargano ormai in ogni direzione, comprendendo foreste e cielo negli spazi vuoti e densi una stessa metropoli.

E così, anche nelle automobili che assediano centri storici posticci e male organizzati e nei parcheggi a pagamento il cui fondamentale diritto espresso è quello di fare cassa, nelle aree archeologiche feticizzate e precluse alla frequentazione i cui recinti esprimono tutele sempre troppo parziali incapaci di rendere presente la storia, possiamo vedere l’immagine della difficile, e tuttora incerta, transizione dell’Italia ad una democrazia compiuta. Transizione ancora più problematica, dal momento che ormai la democrazia non sembra una conquista civile, ma una merce da esportare e imporre. E mentre la politica e la storia lasciano troppe questioni insolute, le guerre non finiscono mai, continuando a distruggere altre città.

 

Mario Titi (1921-1982), Ricostruzione ideale del Tuscolo
Mario Titi, Ricostruzione ideale del Tuscolo

 

Fotografia: Claudio Comandini, “Persistenza delle rovine” – Frascati, settembre 2016.

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