L’omicidio Varani e le nuove identità del male

Rivendicare confuse identità e non essere mai nati, scopare per festeggiare un omicidio, fare uno snuff movie degli ultimi istanti della vittima: tutto questo, per vedere l’effetto che fa. Marco Prato e Manuel Foffo durante un festino a base di droghe e superalcolici hanno denudato Luca Varani con l’obiettivo di avere un rapporto sessuale e lo hanno costretto a bere dosi da cavallo di Alcover. I due hanno prima provato a soffocare Luca con una corda di nylon, poi gli hanno inflitto 107 colpi di pugnale e di martello: i primi per infierirgli dolori, i secondi per ucciderlo. Le immagini ne mostrano il cranio scalfito, la bocca lacerata, il corpo bucato. Prato, che durante l’esecuzione era vestito da donna, accusa Foffo di essere responsabile materiale dell’omicidio, ma dichiara comunque di amarlo; la più grande preoccupazione di Foffo, che minaccia il suicidio, sarebbe quella di essere reputato gay. La Procura accusa la coppia di omicidio premeditato con aggravanti di crudeltà e motivi abbietti e futili. Nicola Lagioia (Bari, 1973, premio Strega 2015 per “La ferocia”), con il suo straordinario reportage sull’omicidio Varani, consumatosi in un’incerta primavera ai margini di una Roma confusa, ricorda le nuove forme di male con cui dobbiamo fare i conti, e che la vita degli stolti è peggiore della peggiore delle morti.

 

In una città allo sbando, nessuno accetta il ruolo che i fatti gli cuciono addosso. C’è un gay che vorrebbe diventare donna, il suo amante che ribadisce la propria eterosessualità, il padre del primo che si considera un modello e quello del secondo che parla in tv definendo “modello” il proprio figlio nonostante i due ragazzi siano rei confessi dell’omicidio più raccapricciante degli ultimi anni. Omicidio di cui per strada, in casa, negli uffici tutti parliamo rifiutando l’idea che una parte di quell’orrore ricada su di noi.

Dal decimo piano del palazzone in via Igino Giordani n.2, si vede la periferia di Roma est. Non ci sono finestre. Per evitare che qualcuno si sporga rischiando di precipitare per cinquanta metri, c’è una mezzaluna di listoni di metallo aperta sull’esterno. Tra le grate passa l’ultimo vento invernale: entra impetuoso nel pianerottolo e si disperde vorticando per le scale. Addentrandosi in un cono d’ombra reso perenne dalla disposizione delle mura, c’è una porta segnata dai sigilli dei carabinieri.

Oltre questo ingresso anonimo, a due passi da un comunissimo zerbino in polipropilene, si apre l’appartamento dove si è consumato il delitto. Il 4 marzo, attratto da un sms («vieni che c’è roba e soldi per te»), il ventitreenne Luca Varani è stato massacrato dal trentenne Marco Prato e dal ventinovenne Manuel Foffo, proprietario dell’appartamento. I due hanno stordito Luca con un bicchiere pieno di farmaci,poi lo hanno torturato. Lo hanno legato, per non farlo gridare hanno tentato di tagliargli le corde vocali, lo hanno disordinatamente preso a coltellate e colpi di martello. Il tutto, dicono, senza ragione.

Lo stabile è immerso in una quiete livida. Il silenzio è tale che si sentono i rumori di stoviglie attraverso le pareti. I vicini se ne stanno chiusi in casa. I pochi che incontro svaniscono rapidamente oltre una porta. Scendendo una rampa di scale, c’è l’appartamento di Daniela P. È la mamma di Manuel. Sulla sua testa, per giorni, si è consumato il festino culminato con l’omicidio. A un certo punto Manuel ha bussato alla sua porta chiedendole stracci e del sapone. Lei dice di non sapere che servivano per pulire il sangue. La separazione da suo marito l’ha provata. La ricetta del Minias con cui Marco Prato ha provato a suicidarsi quando il rimorso ha preso il sopravvento sulla furia (o il narcisismo ha simulato la morte rituale), l’ha fornita Manuel: l’ansiolitico lo comprava per sua madre.

Sono laico, non credo nella soprannaturalità delle case segnate. Eppure sono giorni che giro per Roma raccogliendo testimonianze su questo delitto, e il malessere che ho provato davanti all’appartamento di Manuel Foffo non mi abbandona. Come aver immerso una mano nello Stige e sentirla ancora gonfia d’ombra. Esiste una malvagità dei luoghi, una persistenza fisica del male anche dopo che è stato consumato? O è solo suggestione? Un ufficiale delle forze dell’ordine parte attiva nelle indagini mi dirà che lui, da credente, intravede in questi orrori il passaggio del demonio. Lì per lì sono rimasto perplesso. Ma è stato incontrando amici e conoscenti dei protagonisti di questa storia, facendo domande, camminando per la città che ho messo a fuoco l’aggettivo «diabolico» proprio isolandolo da qualunque idea di trascendenza. Se ogni vita umana è irripetibile e preziosa oltre la sorda meccanica biologica, il suo contrario è il vuoto.

Qualche commentatore ha tirato in ballo l’atto gratuito di Lafcadio, che nei Sotterranei del Vaticano uccide un uomo senza motivo. La Roma in cui mi sono mosso io non ha niente però di quella di Gide. È un paesone stremato, una città senza guida che fino a poche settimane fa era invasa dal guano e adesso lo è dai topi (tre per ogni cittadino), una giustapposizione di quartieri che affondano tra incuria e corruzione. Gli assassini come Lafcadio erano accesi dalla peggiore luce novecentesca, nietzschiani per vocazione, provavano a incarnare un’idea radicale. Nel mio viaggio di questi giorni ho trovato solo buio, frustrazione, solitudine, e un diffuso, tristissimo vuoto d’identità.

A un certo punto della notte tra il 4 e il 5 marzo, mentre Manuel Foffo confessava il delitto dopo essersi costituito, uno sguardo è passato rapido tra il pm Francesco Scavo e il colonnello dei carabinieri Giuseppe Donnarumma. Questi uomini sono abituati alle storiacce, ma un ragazzo che raccontava l’orrore in modo tanto calmo era strano anche per loro. I carabinieri sono stati bravi a mettere Manuel a proprio agio, subito dopo è partito il racconto.

Manuel dice che lui e Marco Prato – noto pr nell’ambiente delle feste gay romane – si sono incontrati la prima volta a Capodanno. Si sono visti poche volte. Durante uno di questi incontri Prato, omosessuale dichiarato, avrebbe ripreso col telefonino Foffo nell’atto di praticargli una fellatio, e per questo motivo Manuel (“io sono eterosessuale”) si sarebbe sentito ricattato e avrebbe continuato a frequentarlo. Il 2 marzo lui e Prato si sono visti nell’appartamento di via Giordani.

Hanno comprato quasi duemila euro tra coca e crystal meth, hanno iniziato a drogarsi e fare sesso per giorni. Hanno invitato nell’appartamento altri conoscenti (un pugile registrato sul telefonino di Foffo come “Alex Tiburtina”, un amico milanese di Prato). Rimasti di nuovo soli, sono usciti a rimorchiare senza successo. In una percezione del tempo che si può immaginare quanto fosse alterata, sono tornati nell’appartamento, e (forse già con l’intento già di uccidere) hanno mandato a raffica ventitré sms tutti uguali. In questa lotteria della morte l’unico ad abboccare è stato Luca, un ragazzo de La Storta, estrema periferia nord.

Fidanzato da anni con Marta Gaia, famiglia umile (il papà vende frutta e dolciumi alle fiere), adottato quando aveva 4 mesi, Luca lavorava in una carrozzeria. Secondo i suoi assassini, li ha raggiunti sapendo di doversi prostituire per 120 euro. Dopo averlo seviziato e ucciso, Manuel e Marco hanno dormito abbracciati a pochi metri dal cadavere. Al risveglio, si sono separati. Marco si è infilato in un albergo di piazza Bologna dove ha provato a uccidersi. Manuel ha confessato a suo padre l’omicidio mentre erano in macchina per andare al funerale di uno zio. Così almeno dicono loro, colmando un buco d’ore da cui forse le indagini estrarranno qualcosa che ancora non sappiamo.

«Comunque sono eterosessuale, sono eterosessuale…», continuava ripetere Manuel ai carabinieri in modo sempre più coriaceo, come se questo – l’eterosessualità – fosse l’ultimo scivolosissimo appiglio, perduto il quale la domanda “chi sono?” avrebbe assunto definitivamente la forma del baratro in cui Manuel forse precipita da anni.

I giorni dopo il delitto, stampa e opinione pubblica hanno cercato di farlo aderire un po’ troppo a un modello anni Settanta. Da una parte le borgate dei bravi ragazzi che ogni tanto fanno una marchetta, dall’altra il centro dei ricchi viziati e perversi. In realtà il delitto del Circeo c’entra poco, e il ribaltamento di certe drammaturgie pasoliniane («se ci pensate qui muore Pino Pelosi») ancora meno.

Il mondo di Marco Prato, per esempio, non era bello e scintillante come qualcuno ha raccontato. Figlio di un manager culturale, Marco viene descritto dai suoi amici come un ex ragazzino complessato e sovrappeso, bullizzato dai compagni a causa dell’omosessualità. I rapporti con il padre sono nel segno dell’assenza di un vero scambio, mentre la mamma gli sembra la reincarnazione della cantante Dalida, che lui adora. Crescendo, Marco va in palestra, cerca con fatica di darsi un’aura da vincente, entra come organizzatore nel giro delle feste gay.

«Solo che il marchio da vorrei ma non posso gli è sempre rimasto tragicamente addosso», dice un suo amico. «Non pensare che gli aperitivi che organizzava a Colle Oppio fossero chissà che», fa un altro, «erano feste dove al massimo arrivava una starlette del mondo cafonal. A volte il catering veniva dagli scarti di feste del giorno prima». «Pur di finire sul giornale si era spacciato per il fidanzato di Flavia Vento». «Un ragazzo che non riusciva a trovare un posto nel mondo». «Era angosciato dalla calvizie precoce. Si era fatto trapiantare i capelli. Aveva fatto le cose in economia e ogni mese doveva rifare il tagliando». «Si sentiva realizzato quando riusciva a imbucarsi nella villa di qualche ricco. Poi però faceva sempre una cazzata. Così lo cacciavano a pedate». «Mi è sempre sembrato un ragazzo molto intelligente. Aveva grandi capacità di seduzione». «Diceva di avere origini francesi per darsi un tono. Non era vero».

«Cambiare sesso stava diventando un’ossessione». «Voleva fare l’operazione e litigava coi genitori. Ma siamo a due passi dal Vaticano, mica nella Chicago dei fratelli/sorelle Wachowski». «Uno che rifilava fregature». «Ultimamente si travestiva. A quanto pare era vestito da donna anche mentre ammazzavano quel poveraccio». «Proprio perché si sentiva donna, voleva scoparsi solo gli etero o i bi». «Mi fa pena. Vivendo in un mondo che in fondo ci disprezza, noi gay dobbiamo fare più fatica per costruirci una grammatica sentimentale. Ma in lui la mancanza di puntelli era eclatante. Non mi riferisco solo all’identità sessuale. Per la disperazione si era costruito un personaggio, un falso sé. Mandava in giro quello. La società offre decine di modelli vuoti se vuoi sottrarti alla fatica bestiale di capire chi sei». «Suo padre è un uomo stimato. Ma come genitore era freddo e narciso. Ha dato pochi strumenti a Marco per orientarsi nella vita. Il che non significa nulla.Tanti padri fanno ben di peggio e non è che i figli diventano assassini».

Così, a una festa di Capodanno, la fragile identità di Marco Prato, dopata da cocaina e estroversione sociale, allenata alla seduzione pur di sentirsi capace di qualcosa, si imbatte nella fragile, cupa, introspettiva identità di Manuel Foffo.

Manuel è il ragazzo che ha dichiarato di voler uccidere suo padre dopo che questo a Porta a Porta l’aveva definito «un modello, un ragazzo contro la violenza, un buono». Suo padre Valter gestisce un piccolo ristorante a Pietralata ma soprattutto è il titolare di un’agenzia di pratiche auto tra le più grosse a Roma. A quanto pare, Manuel aveva accumulato un forte rancore nei suoi confronti: perché suo padre gli avrebbe sempre preferito il fratello, e forse anche perché Valter, che ha una nuova compagna, separandosi dalla mamma di Manuel le ha causato sofferenza.

Manuel fa l’eterno fuoricorso a giurisprudenza. Suo fratello lavora e viaggia in Porsche. Lui no. In più, ha problemi con la coca. Se Marco sognava un’improbabile svolta come pierre, Manuel accarezzava riscatti ancora più improbabili. A quanto pare lavorava a un’applicazione grazie a cui credeva di poter trovare in giro per il mondo i campioni di calcio non ancora scoperti dai grandi club. L’aveva spedita alla Figc. Era molto fiducioso. Non aveva ottenuto risposta.

Qualcuno, dopo l’omicidio di Luca, ha invocato la pena di morte. Gli avvocati Michele Andreano (Foffo) e Pasquale Bartolo (Prato) lavoreranno per evitare l’ergastolo ai propri assistiti. Il problema di Manuel e Marco mi sembra però quello di due individui mai nati per davvero, identità rimaste intrappolate a uno stato larvale. È probabile che Manuel Foffo non avrebbe ucciso se non avesse incontrato Marco Prato e viceversa. L’incontro di due impalcature così fragili è stato letale: una è precipitata addosso all’altra, entrambe addosso al povero Luca. Quando un cronista che segue il caso mi chiede in un raro momento di pausa a quale romanzo mi fa pensare il rapporto tra i due assassini, rispondo istintivamente Frankenstein 2016. Dove Prato è lo scienziato cialtrone che gioca con il fuoco, e Manuel un vaso di pandora che una volta scoperchiato genera una violenza da cui anche il primo si lascia contagiare. In tutto questo, le droghe svolgono un ruolo molto importante. Poi ci sono i genitori.

Le colpe dei figli non ricadano sui padri, ma con padri diversi chissà se saremmo a questo punto. Ascoltando Ledo Prato e Valter Foffo, i genitori di Marco e Manuel, mi sono fatto l’idea di una catena di mancanze. Due padri che a propria insaputa schiacciano i figli (venendo meno, senza nemmeno accorgersene, al dovere di farne degli adulti) e due figli che si sottraggono vigliaccamente al dovere di non lasciarsi schiacciare. Quando Valter dice: «a noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. Mio figlio non è da meno», non si rende conto di sognare la castrazione simbolica di Manuel, il suo totale annullamento, non perché suo figlio sia o meno gay, ma perché nelle parole del padre non è un individuo autonomo, è confuso in quel «noi Foffo» persino per un aspetto così intimo come l’orientamento sessuale.

Quando, una sera, raggiunto fuori dal suo ristorante, Valter dirà che gli dispiace tantissimo per i genitori della vittima anche perché Luca, essendo stato adottato, rappresentava per i Varani «il loro tesoretto» esprimerà, con identica mancanza di consapevolezza, l’idea che i figli siano tutt’uno col patrimonio di famiglia. Ledo Prato, a propria volta, quando esce allo scoperto scrivendo sul suo blog un post in cui parla solo di sé, autorappresentandosi come un esempio di virtù («in questi lunghi anni ho cercato di trasmettere speranza, coraggio, fiducia, di costruire bellezza, di preservare i valori fondamentali […] Quelli che vorranno ancora seguirmi sappiano che non riuscirò ad essere presente su queste pagine con continuità ma che non rinuncerò a niente delle idee e dei valori in cui credo») nominando suo figlio solo attraverso discorsi altrui, e non soffermandosi mai sulla vittima, non si accorge di essere lo speculare di Valter Foffo: vivendo il figlio come appendice di se stesso, recide linguisticamente il legame per timore che la macchia su Marco risalga fino a lui. Il tutto nell’assordante silenzio delle madri, che in questa vicenda non hanno mai ritenuto di dovere (o di potere?) prendere la parola.

L’identità di ognuno di noi non è compiuta. Ma in Manuel e Marco questo deficit supera il livello di guardia. Tutti ci illudiamo di essere migliori di come siamo realmente. Ma nei padri di Manuel e Marco la sopravvalutazione sfiora il parossismo,poiché dalla propria griglia emotiva e intellettuale questi uomini sembrano aver sradicato ciò che consente di trattare gli affetti col rispetto dovuto all’altro da sé, facendo scendere se stessi dal pianeta di chi si reputa incolpevole a priori. A contrario, qualcosa di Marco e Manuel, e dei loro genitori, risale a noi. Anche per questo, provare a entrare nelle loro teste è un dovere etico.

Senza tutta quella droga, Manuel e Marco non avrebbero ucciso Luca. Ma se la droga bastasse, soltanto a Roma avremmo centinaia di omicidi al giorno. La coca e il crystal meth, usati in quel modo, possono rendere molto aggressivi, ma prima ancora servono a reggere l’impalcatura identitaria se non sei riuscito a costruirtene una in grado di stare in piedi. Se hai lasciato che il tuo io rimanesse schiacciato (dal mondo, dai genitori, dalla vita) sarai un eterno affamato che pensa solo a estinguere il bisogno. Manuel e Marco non sono in grado di vedere altro che se stessi. Io io io… Parlano di sé, del proprio dolore, delle proprie frustrazioni. Quando riescono a provare compassione, ancora una volta, è soprattutto per la propria persona. Io io io… come se l’ossessiva menzione di un pronome personale compensi la mostruosa insufficienza del suo corrispettivo reale. Se in fondo ti senti poco più di uno zero, ridurre l’altro a niente (ad esempio uccidendolo) può essere il mostro che porti dentro senza saperlo.

Infine, Luca Varani. Era un ragazzo. Ha avuto la sfortuna di rispondere a un sms. Quando Marco e Manuel l’hanno visto entrare nell’appartamento, «è scattato un clic», hanno capito che sarebbe stato lui la vittima. Non perché fosse un debole, ma perché la debolezza drogata e violenta dei carnefici poteva averla vinta solo sulla fragilità, che è cosa ben diversa.

Nel racconto di amici, conoscenti, ex professori, Luca era vispo, allegro, ingenuo, intelligente, teneramente logorroico, e aveva un grande bisogno di essere accettato dagli altri. In due parole: un mite. Aveva lasciato la scuola serale l’anno scorso senza diplomarsi, ma forse avrebbe recuperato in seguito. Anche lui cercava un posto nel mondo. Alla fidanzata, con cui era stato fino al giorno anteriore alla sua morte, hanno dovuto spiegare prima che era morto, poi che l’avevano ammazzato in quel modo, e infine che secondo gli assassini Luca era lì per prostituirsi.

Gli amici di Manuel ritengono impossibile che Luca si vendesse. Al massimo, affermano, era lì perché credeva di arrotondare spacciando un po’ di coca. Qualche conoscente, per ribadire l’eterosessualità della vittima, mostra post non proprio teneri verso gli omosessuali che lo stesso Luca aveva messo su Facebook. Gli si potrebbe rispondere che l’omofobia dei prostituti occasionali è un vecchio classico. Ma il punto non è questo. Il punto – mi sentirei di dire ai giovani amici di Luca ­– è amare Luca qualunque cosa sia successo. Amatelo se per ingenuità ha commesso un errore, se era andato dai suoi assassini per rivendersi due grammi di coca. Se invece verrà fuori che le cose sono andate come oggi credete sia impossibile, amatelo lo stesso. Accettate che oltre una certa soglia siamo sconosciuti gli uni agli altri, che chi ci è accanto può avere zone d’ombra, e non per questo possiamo smetterle di amarlo.

Accettate di essere insufficienti voi, di non potere o non sapere leggere ogni cosa della persona a cui volete bene, dal momento che, essendo però riusciti a vedere in lui o lei ciò che è essenziale, sarete forti di un amore che non verrà tradito. Solo restituendo con coraggio all’altro un profilo quanto possibile compiuto e fedele, saprete meglio chi siete voi stessi. Allora sentirete la bellezza di essere diventati adulti. E se lo siete già, ne uscirete rafforzati. Saprete benissimo dove andare, sentirete forte e chiara la direzione, pur nel ventre di una città, Roma, che per adesso ne è schifosamente priva.

«Piangi meno tristemente per un morto, ché ora riposa», ha detto al funerale di Luca il suo ex professore Davide Toffoli citando Siracide, «ma la vita dello stolto è peggiore della morte».

Nicola Lagioia, “Un reportage sull’omicidio Varani”, «Il Venerdì di Repubblica, 1.04.2016.

Illustrazione: “Abigor – Demone su drago” (Collin de Plancy’s Dictionnaire Infernal, 1863).

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