Maschile e femminile: sessualità e scrittura nel “Basso impero”

Gli incontri nelle vicende della vita e dello scrivere. Cabala e candele. La polarità maschile/femminile da Platone a Weininger. Il dogma contemporaneo della masturbazione. La stesura del romanzo “Basso Impero” e la realizzazione della sua colonna sonora. “Viaggio allucinante di un coatto”: dalla pornografia ai libri. “Nel suo corpo”: accoppiamenti estatici con donne leggendarie. Perniola ed il sentire neutro. Transessuali nella Suburra. Von Baader, l’androginia e la Genesi. Gatti e alchimia. Crowley oltre il satanismo e la bigotteria. Cazzeggio e riflessione alla fine del ’900. Derrida e Borges: i compiti della scrittura. La sessualità dopo l’impossibilità del desiderio. La scrittura nel silenzio del corpo.

 

Ho potuto verificare l’incidenza di un maschile e un femminile nella scrittura in maniera piuttosto diretta nella stesura di uno degli episodi contenuti nel mio romanzo Basso Impero: in una delle scene del capitolo Festa di Liberazione due dei protagonisti più giovani, Angelo ed Elena, fanno sesso nel rudere della fontana di un parco pubblico; sorpresi dai Carabinieri, sono infine rilasciati senza conseguenze. Il capitolo è composto da una serie di quadri che si svolgono il 25 aprile 1994 a Frascati, la città in cui sono nato e dove è ambientata la maggior parte della narrazione. L’episodio è uno dei pochi che hanno un preciso rimando autobiografico riferendosi ad un fatto accaduto a metà anni ‘80 a me e Claudia, la mia compagna dei tempi del liceo; può essere interessante considerare che questo episodio deve la sua versione definitiva proprio alla collaborazione tra me e lei, avvenuta dodici anni dopo il verificarsi del fatto.

Detto per inciso, in tutto il periodo intercorso non avevamo affatto intrattenuto rapporti cordiali, poco tempo dopo la separazione c’eravamo addirittura azzuffati durante una festa, ci siamo persi di vista per lungo tempo, e la nostra nuova amicizia quasi ci sorprese. Ribadendo in forme operative il suo antico ruolo di musa colta, dopo aver letto quanto avevo scritto riformulò la storia dal suo punto di vista: ho quindi accorpato i due racconti rivedendo con lei il risultato e riservarmi le messe a punto finali. Ci sono quindi nella tessitura di questo passaggio del testo alcune espressioni che riconosco come mie, altre che sono esattamente le sue, altre ancora nate dal nostro incontro: tra quelle che ognuno di noi ha formulato distintamente, alcune rispettano la tradizionale opposizione maschile/femminile, altre per nulla.

Noi abbiamo avuto due opportunità: quella di vivere insieme quella vicenda e quella di poterla elaborare in un momento successivo. L’argomento trattato è esplicitamente sessuale, ma forse ciò è accidentale rispetto al processo creativo: potevamo parlare pure di cucina, l’importante era celebrare l’incontro e ritrovarsi anche dopo la separazione. Non è difficile immaginare che tale dinamica di incontro/separazione e di singolarità/intersoggetività sia proprio quanto costituisce la scrittura. Il più delle volte, il processo è portato avanti da un autore singolo, comunque in rapporto essenziale con una sorta di comunità di idee; nei casi nei quali gli autori siano più di uno, è comunque necessario un coordinamento unitario del processo creativo.

Se una polarità di tipo maschile/femminile è presente nella scrittura come nel pensiero, maschile e femminile sono attributi il cui utilizzo può essere del tutto trasversale rispetto ai generi biologici che caratterizzano l’individuo. Laddove maschile e femminile sono elementi di un processo unitario si comprende quanto possano essere inadeguate alla loro intima realtà tanto chiusure e isolamenti quanto sovrapposizioni e violenze. Siamo assuefatti a tali obbrobri, così come ad una scrittura priva di consistenza e carente di riferimenti, costretta ad autereferenzialità e autopromozione. Tuttavia, non siamo obbligati a sottostare ai luoghi  comuni, e possiamo anche volgere oltre.

La Cabala suggerisce che gli elementi costituenti il maschile e il femminile provengano dalle sfere cosmiche. Lo Zohar ricorda che l’anima è formata da elementi maschili quanto femminili: così la candela è maschile nel suo elemento scuro, lo stoppino, e femminile in quello chiaro, la fiamma. Un carattere analogo è facilmente attribuibile alla scrittura: possiamo infatti vederla maschile nei caratteri manifesti ed espressivi, femminile in quelli taciuti e puramente recettivi. Come una candela ha il compito di trasmetterci luce in condizioni di oscurità, alla scrittura compete la funzione di distinguerci dalle altre cose e al contempo ricongiungerci ad esse: i due aspetti sono correlati e non hanno senso l’uno senza l’altro.

Una metafisica della sessualità relativa all’origine dei generi da una singola unità si formula nella Grecia antica dal mito platonico dei Titani, dopo il loro assalto al cielo scissi in due principi in perenne ricerca reciproca; nei primi del Novecento Otto Weininger indaga i principi e le manifestazioni sessuali in base all’idea che i due generi siano modelli ideali che rappresentano le polarità a cui ogni individuo tende. La teoria della polarità fa comprendere l’immensa portata di ogni incontro, ma laddove viene a mancare la dinamica della relazione i presunti elementi cosmici o metafisici si risolvono in ipostasi dei ruoli sociali e quindi in giustificazione dei rapporti di potere, rendendone i caratteri semplici strumenti di dominio: ciò è quanto l’esperienza contemporanea sta cercando di smantellare, pur se nelle forme più pubblicizzate procede in modo confusionario e banalizzante, e laddove isola e contrappone il maschile e femminile non fa che confermare i condizionamenti da cui pretenderebbe di emanciparsi.

Tra i vari piani che ho tentato di stabilire in Basso Impero, mio primo e finora unico romanzo, l’elemento sessuale è decisamente presente. Il libro è nato in lunghi anni a partire da quelli dell’università intersecando tra loro percorsi molto diversi. La sua pubblicazione a fine 2006 coincide con la decisione di mettere un punto definitivo alle esperienze e ai contesti nei quali era stato formulato, e si accompagna al perfezionamento dei miei interessi musicali; gli adattamenti sonori di vari estratti dell’opera, da me realizzati attraverso processi di istant composition e post-produzione, e tratti principalmente da registrazioni effettuate durante il soggiorno maremmano del biennio 2005-2006, hanno ricevuto un paio di premi.

Attualmente, per quanto abbia in mente un sequel, questo libro dalla composizione piuttosto eterodossa zeppo di sperimentazioni linguistiche rappresenta una particolarità nella mia produzione, e tuttavia è piuttosto rappresentativa dei miei percorsi. Non lo considero affatto finito ed è ancora ampiamente perfezionabile, ma questo è un po’ il tratto di tutta la mia attività, ed è uno dei motivi per cui sono prolifico e parco allo stesso tempo. Ad ogni modo, arriva il momento per ogni cosa.

Quando qualcuno mi chiede quale sia la trama del libro, dico che ce ne sono così tante che almeno una di suo gradimento la trova sicuramente. Se insiste e vuol sapere di che tratta, rispondo che riguarda quanto gli altri libri escludono. Per i più insistenti, riassumo così: il documento triviale e squisito dell’incoscienza dei nostri tempi, concentrato nell’osservazione del periodo tra 25 aprile e 8 settembre 1994, cioè durante la prima era berlusconiana. A chi osserva che situazioni e personaggi sono un po’ estremi, faccio notare che è quasi tutto inventato, e che eventuali modelli reali erano decisamente peggio.

Inizialmente, lo scritto rappresentava una specie di sgabuzzino dove stipavo quanto non trovava spazio nelle mie sfere di attività poetica, filosofica e giornalistica; affollandosi i materiali, è divenuto cantiere, per assumere quindi un carattere cruciale quando ho precisato una narrazione ad un tempo continua e discreta: la suddivisione dei capitoli in episodi non sequenziali mi ha permesso di articolare una struttura modulare nel cui montaggio potevano trovare spazio precisione dei dettagli e sviluppi aperti.

La considerazione dell’elemento sessuale riguarda sia le figure maschili e femminili, che forniscono prospettive su se stesse e sulle diverse modalità di relazione, sia aspetti che hanno rilevanza per una fenomenologia dell’atto erotico, interessante tanto di per sé, quanto rispetto ad un ordine simbolico della narrazione, per cui la sessualità è cifra di qualcos’altro. Insomma, ci sono scopate di ogni tipo, la descrizione di una sega e anche una pagina intera dedicata all’organo femminile, la vecchia, dolce e cara fica: questo repertorio, però, non è mai fine a se stesso.

Infatti, l’atto masturbatorio, oggi enormentente esaltato (in contraddizione non solo rispetto alle indicazioni religiose e a quelle della medicina tradizionale ma anche del criticismo kantiano, per cui costituiva «profanazione di sé per mezzo della volontà»), si affianca nella narrazione a peculiari manifestazioni dell’altrettanto celebrata e inconcludente comunicazione mediatica, dove il dolcissimo tonto-kattivo Porkoskin passa con toni inevitabilmente deliranti dalla fascinazione subita dalla pornografia (ai tempi del servizio 144) alla scoperta improvvisa della scrittura (nella forma di libri sulle bancarelle). Le musiche passano in rassegna tecno, silenzi, psichedelia e progressive, seguendo il flusso di quello che può ben essere definito il Viaggio allucinante di un coatto.

 

 

Sullo schermo televisivo imperversano i canali del 144: sesso non tattile, esente da malattie veneree e veramente accessibile a tutti indistintamente, basta che paghi: il modello perfetto della democrazia contemporanea. Milly gli promette piogge dorate, quelle di Santo Domingo lo inquietano, Jessica Rizzo lo provoca, Selen lo cattura. «Selen. Selen, ti amo. Selen, sei bellissima, mi fai impazzire, non andare via, stai con me. Selen.» Masturbandosi con forsennata e scomposta eccitazione chiama il numero sovraimpresso, si vergogna e attacca al terzo squillo, eiacula rapidamente, inavvertitamente.

Lo strepito degli uccelli dilaga. Passa un camion. Un cane inizia ad abbaiare e poi altri, in lontananza, e non si fermano. Intanto lui ha collassato. Il chiarore del mattino non lo sorprende nemmeno un po’.

Dopo tempo indeterminato esce a cavallo del suo motorino modificato, prima che la madre lo chiami, che non gli va di sentirla, sennò la ammazza. Percorre le strade con noncuranza, non percepisce, non se ne rende conto nemmeno. Si è assuefatto anche all’odore dei rifiuti rancidi. Passa in piazza, non c’è nessuno, chissà perché. Arriva a scuola, la trova chiusa. S’era dimenticato del ponte. Un’occasione persa per fare sega. Torna in piazza, si mette ad orbitare come un satellite in demolizione. Dopo un po’ gli viene lo sgiribizzotto di fare un girozzo alla bancarellozza dei librozzi, che occhieggia dalla passeggiata: i libri, nuovo oscuro oggetto di un desiderio torbido. Li guarda inebetito nella loro lunga mareggiata. I libri.

Libri pieni di pagine, pagine di parole, parole mai viste pria. Massicce distese di libri, di pagine, di parole, sterminate e sterminanti. Avoia a canne, pasticche e droghe varie! Sgomento. Improvviso, s’avvede di tutta l’ignoranzità. Ne apre qualcuno ad oracolo, e subisce dei traumi, giacché non ci capisce un cazzo che è un cazzo uno. Eppure resta incantato di fronte a loro. Non capisce a che servono, come quasi tutti ormai, ma continua a guardarli.

(Basso Impero, Sovera, Roma pp. 32-33)

 

L’episodio finale del capitolo Vocazioni inizia con il salvataggio della gattina Ishtar, trovata morente presso un cassonetto, e finisce con l’irrompere della luna alla finestra. L’episodio ha una funzione cruciale nell’economia del libro, ed è basato sull’osservazione dei rapporti tra capitale e provincia, cronaca e storia, concentrandosi nei passaggi di Cronache dal Basso Impero; si conclude quindi alle soglie dell’accoppiamento estatico tra l’io narrante e la sua compagna Serena: il primo non sono io pur se gli ho fatto molti prestiti, lei non è nessuna delle donne con cui sono stato anche se a queste concede molto. La simmetria tra l’occhio di cui la gatta è priva e la luna alta nel cielo porta in maniera piuttosto incidentale all’idea di una «sapienza solo apparentemente smarrita» e invece sempre disponibile.

La considerazione che ieri come oggi siamo abbandonati al nostro «perenne basso impero», l’immanenza nell’ordine delle cose di una sovversione legata alla nostra capacità di comprendere, la potenza degli aspetti magici impliciti della sessualità sono motivi che tornano in chiave diversa anche in un episodio del capitolo Di ogni cosa è vero l’opposto. Qui il nome della donna è Marozia, preso con molte libertà dalla principale donna di potere del mio amato medioevo romano, coperta di biasimo spesso più per il suo essere donna, che per la sua effettiva mancanza di scrupoli. Qui, in un amplesso occasionale sospeso tra sogno e realtà, diventa immagine del “conoscere” permettendo di aprire squarci sulla precarietà del vivere e sui raggiri della civiltà, sui rapporti tra parola e silenzio, scrittura ed entropia. E come ogni corpo si ritrova Nel suo corpo, musica e parole si sposano dove la reciproca attrazione mantiene la rispettiva indipendenza:

Mi ha parlato senza parole nel suo corpo, mi ha ricevuto nel suo ventre immenso come la notte carica di sogni. Il suo sangue gemeva come se una falce di luna avesse reciso il velo che nasconde ancora il cielo. E ho avuto cognizione. Lei sa, dentro sè, anche se non ne parla, non ne parlerà mai, non ne ha le parole, non ne ha bisogno. 

Lei è Marozia, non puoi non conoscerla, nessuno potrà mai averla. Un sogno veramente, veramente un sogno. 

La mia memoria si deve affrettare a registrare, altrimenti andrà davvero tutto perduto, tornando alla sua matrice senza nome. Scrivere può essere davvero strappare la realtà alla sua consunzione; per chi leggerà, sarà una traccia per proseguire, e reinventare un percorso.

Che non è mai stato. 

(Ibid, p. 72)

 

Gli squarci del possibile si chiudono implacabili, il limite della realtà ci consegna alla nostra storia: nessuna fuga è lecita. Il tema decisivo del “basso impero” non decade nel feticismo nozionistico, mantenendo peculiare l’attenzione al presente; l’interesse verso la sessualità tantrica, per cui prevalgono le idee di cosmicità e fusione, non preclude allo sguardo verso le categorie contemporanee di neutralità e ibridazione da una parte, e di quelle di desessualizzazione e apatia sensitiva dall’altra.

Una nuova percezione del corpo, con l’imporsi di un sentire impersonale indifferente alla bellezza, all’età e alla forma, comporta il riesame dei rapporti tra sessualità e filosofia; un’altra direzione decisamente regressiva si accompagna al dilagare della pornografia, nell’era di Internet preciso modello di riferimento dai cui dipende un immiserimento non esclusivamente sessuale. Queste riflessioni sono sviluppate dal filosofo Mario Perniola, mio stimato professore a cui in diversi modi non ho mai smesso di fare riferimento, citato per altri motivi anche nella lettera con cui si apre il libro; ho cercato di sviluppare l’argomento della «sessualità espansa» per contrasto in un altro episodio del capitolo nominato, dove descrivo con dovizia di particolari l’incontro con una transessuale.

La scena si svolge a Roma, più esattamente nella Suburra, rione Monti, dove peraltro nacque mia madre. I toni grotteschi tentano il distacco tanto dal moralismo sessuofobico, quanto dalla retorica del sesso estremo, senza nascondere lo squallore e la sciatteria di televisori accesi, preservativi alla fragola e piedi puzzosi. Tra le righe, accenno alla bioingegneria senza cui sarebbe impossibile reinventarsi un corpo, e alludo alla componente feticista (da Freud collegata alla fantasia infantile del “pene materno”, pertanto piuttosto adeguata a comprendere molta della fascinazione esercitata dai transessuali).

Dal canto suo, il protagonista si stupisce nel considerare la sua neutralità sessuale: sostanzialmente, si accorge che non ha importanza appartenere ad un sesso o ad un altro, non ha nessun senso nemmeno la contrapposizione tra etero e omo, ormai abusata da piccole menti reazionarie dell’una e dell’altra schiatta dal presenzialismo mediatico sempre più funesto. La semplice scoperta a cui perviene è che al di là ruoli, inversioni, ansie e prestazioni ciò che conta è l’esperienza di un sentire libero dalla costrizione ad uno scopo.

Il sentire neutro vuole disancorarsi dal vitalismo facilone e distruttivo, ma la vita imprecisa ci insegue negando spesso ogni perfezione minima. La cosidetta vita è ancora fortemente condizionata da inibizioni e tentazioni e avvinta ai miti del piacere e del dominio, mentre gli ibridi alla moda si riducono perlopiù a posticce unioni di attributi succubi di un’esasperazione degli stereotipi. Tuttavia, anche all’uscita del postribolo ci si può sorprende a riscontrare che non solo ogni genere ha in sé sostanza dell’altro, ma che diversità e incontro agiscono in tutte le cose: è questo il punto in cui è  possibile il recupero dell’androginia naturale e psichica, la cui consistenza originaria è individuabile anche nel primo manoscritto della Genesi, come ha decodificato in pagine suggestive e misconosciute il singolare teologo anarco-cattolico Fritz von Baader.

In Basso Impero tale idea trova immagine più piena nel gattino Rebis, che compare e caratterizza, per quanto in sordina, il penultimo capitolo La lunga notte delle stelle danzanti, in cui ho cercato di compendiare, incastanando qua e là citazioni di diverse canzoni, cosa possa aver significato essere stati ragazzi alla fine del ’900, non troppo beatamente ignari della bancarotta delle illusioni a cui ha costretto il periodo successivo. Ad ogni modo, è tutto il libro a fare a pezzi il proprio mondo e ad uccidere quasi ogni suo personaggio.

Un gatto è l’unica cosa che vi nasce; la madre ha nome Ishtar, la luna, ed è quindi Figlio della Luna, sviluppando uno spunto del neo-gnostico Aleister Crowley, i cui spesso brillanti stimoli sono ordinariamente e colpevolmente lasciati agli opposti scempi di satanisti e bacchettoni. Il gattino, chiamato Rebis, “cosa doppia”, maschile e femminile in uno, è il prodotto finale di un matrimonio alchemico, rappresentato nell’iconografia tradizionale da un androgino bicefalo.

Com’è giusto che sia, tale sublime creatura non fa assolutamente niente, gioca tutto il tempo e poi dorme tranquillo nel chiosco di un bar ispirato a quello del Chiringuito che proprio a Frascati ha rallegrato per qualche anno le serate di un bel gruppo di gente e dove l’arte dell’incontro tra maschile e femminile chiamata “rimorchio” ha vissuto una stagione piuttosto felice, come dovrebbe essere per ogni bar degno di questo nome. Narrativamente la circostanza si incrocia con un evento apparentemente banale come la ristrutturazione di una piscina comunale (fatto “mitico” e non nel senso giovanilistico, così come lo può essere ogni opera pubblica davvero compiuta in rispetto dei diritti di una popolazione), e l’assurdo ritorno dell’ultimo re di Roma,l’etrusco Tarquinio il Superbo (un aristocratico favorevole ai ceti popolari, giustamente restituito alla sua legittima gloria con l’augusto appellativo di «Fichissimo»). Tutta questa gran massa di stronzate ha un senso piuttosto preciso in quanto, favorendo la decisa intersezione di sogno e realtà, riflessione e cazzeggio, ricorda che tutto ciò che accade davvero accade proprio nella scrittura.

Propriamente, nella scrittura accade l’impossibile, quanto altrimenti non avrebbe possibilità di esistenza pur essendo in essenziale rapporto con tutte le cose esistenti: il pensatore che ha espressamente stabilito più di ogni altro l’esigenza dell’impossibile e il carattere differente e altro della scrittura, è stato Derrida; invece, lo scrittore in cui possiamo trovarne l’indagine più dettagliata di fluttuazioni, svolgimenti e implicazioni, che nella sua opera prendono forme che vanno dalle enciclopedie incrociate con gli specchi di Uqbar ai vicoli di periferia di El Tango, è Borges. Tra i compiti che questi grandi autori ci hanno lasciato, concepire dei sistemi di relazione che smontino le false opposizioni, e articolare scritture che siano continua differenziazione.

Oggi siamo distanti dal modello platonico di certezze archetipiche, ma le parole spesso sono addirittura più veleni che farmaci e occorre prendere le distanze dai vizi di un presente in cui l’incapacità di distinguere si accompagna alla grafomania diffusa: la scrittura quindi sollecita il compito di registrare le variazioni che avvengono nel manifestarsi di un accadimento impossibile, e a rendere reale il suo stesso differire. Il sesso, ordinariamente dissociato tanto dall’eventualità della riproduzione quanto dall’esistenza dei generi, va salvaguardato dalla caduta di tensione erotica che costringe il desiderio alla propria impossibilità proprio laddove sembrerebbe regnare incontrastato: la sessualità può quindi mantenere senso e porsi alla base stessa del sentire nel suo testimoniare l’eventuarsi di un’androginia inattingibile, la quale né esclude gli opposti, né li risolve.

Scrittura e sessualità si muoverebbero quindi in uno spazio stabilito da un movimento ad un tempo di distinzione ed assimilazione, dove i generi non sono prodotti finiti e definiti, ma parte di un processo di continua scoperta. Maschile e femminile, autonomi e separati ma sempre uniti da continue gradazioni, si attraggono e si incontrano, si confrontano e si contrastano, rimangono distinti e tendono a fondersi. Ogni singola individualità è testimone di questa vicenda, scritta nel silenzio del corpo: ma non tutti sanno leggere sin qui.

Prima pubblicazione su “Terza Pagina” n.16, luglio/settembre 2008. Riveduto e ampiato.

Fotografia: Claudio Comandini, “Accoppiamenti ciechi” – Grizzana Morandi, aprile 2010.

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