I tre pontificati di Benedetto IX

Storia di un’eclisse. Benedetto IX, la stirpe tuscolana e la Roma medievale. Le fonti dell’epoca e la controversie sul pontefice. Imperium et Ecclesia. La coscienza infelice di Hegel e il kathecon di San Paolo. Scrivere la storia: Ovidio Capitani e Valeria Beolchini. Benedetto IX nei suoi atti ufficiali. Il romanzo storico di Raffaello Giovagnoli. Tutte le donne del papa. Il monogramma di Enrico III. Roma e Bisanzio. Lotte tra trono e altare. Vescovati all’asta e nozze incestuose. La questione di Aquileia. Roma in rivolta. Famiglie della nobiltà romana. Silvestro III e i Crescenzi. Gregorio VI e la charta refutationis. Il ruolo degli ebrei. Il Mirabile Concilio. Il decreto di elezione imperiale e i pontefici tedeschi. Benedetto IX alla riscossa. Il predominio dell’aristocrazia burocratica bizantina. L’imperatrice Zoe e i sui tre mariti. Leone IX, sinodi e bolle. Le questioni dell’ostia e lo scisma d’Oriente. Il ruolo di Cerulario. L’insegnamento di Psello. L’avanzata dei Normanni nel Meridione. Diplomazia e litigi a Costantinopoli. Le divisioni tra Chiese oggi. Bisanzio e Roma verso il cambiamento. Tuscolo ci riprova. La riforma di Gregorio VII. La fine del laicismo religioso. Il cuore di Roma spezzato. Le nuove sfide dell’universalismo. Una lapide, un fantasma e i tempi penultimi. Ragionata bibliografia e verticalità della rete.

 

1. L’eclisse dell’eclisse

L’eclisse di sole di venerdì 29 giugno 1033, giorno dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, provoca un enorme spavento in tutta Europa. Rodolfo Glabro, che la osserva dal monastero benedettino di Cluny, la trova “davvero terribile”. Con nitide immagini ci descrive che «il sole prese un colore di zaffiro, e portava nella parte superiore l’immagine della luna al suo primo quarto. Gli uomini, guardandosi tra loro, si vedevano pallidi come morti, Le cose tutte sembravano immerse in un vapore color zafferano. Allora uno stupore e uno spavento immenso pervasero il cuore degli uomini. Tale spettacolo, ben lo comprendevano, annunciava che qualche funesta calamità stava per abbattersi sul genere umano». E infatti, «nella Chiesa di San Pietro alcuni nobili romani, congiurati, si sollevarono contro il papa di Roma, vollero ucciderlo, non vi riuscirono, ma lo cacciarono tuttavia dal seggio» (Historiae lib. IV cap. IX). La prosa di Glabro è così suggestiva che arriva al punto di trasfigurare il tempo: infatti, colloca nel 1033 la ribellione della nobiltà romana contro il pontefice Benedetto IX che si svolge invece nel 1044, anno in cui il monaco è priore a Fonte Avellanna presso Pesaro, datando però l’evento all’«anno millesimo dalla passione del Signore», e cioè nel Mille, quando addirittura non è neppure nato! Glabro avrà avuto i suoi motivi per raccontare così la storia, e comunque Benedetto IX, al secolo Teofilatto III dei Conti di Tuscolo, è l’unico papa ad aver avuto la carica per tre volte, ed è pressocché contemporaneo di ben altri sei vescovi romani: è comprensibile che le notizie sul suo conto siano piuttosto confuse, a cominciare dal ricorrente appellativo di «papa bambino».

A detta di diversi cronisti, Benedetto IX diventa pontefice per la prima volta ad un’età in cui al massimo si dovrebbe imparare a salire a cavallo. Egli è «puer ferme decennis», ma anche «puer circiter annorum duodecim» (Rodolfo Glabro), «parvulus» (Vita di Leone IX), «adolescens» (Desiderio di Montecassino, in seguito pontefice Vittore III): la circostanza sarebbe insolita anche in un ambito piuttosto disinvolto come quello del papato medievale. Appartiene alla stirpe de Tuscolana, di tendenza filoimperiale e dominante nel sistema dinastico dell’epoca. Tra 1012 e 1046 la casata baronale, che sembra possedere il pontificato per «diritto ereditario» (Bonizone di Sutri), stabilisce una sorta di «papato di famiglia» nella sede del Laterano. La Basilica di San Giovanni, detta allora Costantiniana o del SS. Salvatore, era stata ricostruita dopo un crollo nel X secolo da papa Sergio III, anch’egli esponente del gruppo parentale, e davanti alla sua facciata troneggia una statua in bronzo che si crede rappresenti Costantino a cavallo – quella di Marco Aurelio oggi visibile sul Campidoglio. La città conta circa 35.000 abitanti e vive in intimità con le rovine di un mondo antico ancora molto presente. Orientata al cielo e fitta di mistiche corrispondenze, la civiltà dell’anno Mille è intessuta di trame simboliche, drappi colorati vestono le pietre e dipinti privi di prospettiva ricordano la nostra uguaglianza agli onnipresenti occhi del trascendente. La durezza delle condizioni di vita si accompagna ad una rigida divisione in caste, ma per quanto sia un’epoca difficile e precaria non è tanto la paura della fine a prevalere, quanto la persuasione di precedere i tempi ultimi.

I Tuscolani sono eredi delle fortune e delle controversie di generazioni di signori laici della città: lo iudex dativus Teofilatto, l’augusta senatrix Marozia, il princeps romanorum Alberico e il pontefice Giovanni XII, che con l’incoronazione del re sassone Ottone I rinnova nel 962 l’istituto imperiale spostandone l’equilibrio a favore dell’elemento germanico, il quale mantiene la sua preponderanza anche quando nel 1024 subentra la dinastia di Franconia. Nei secoli X-XII il gruppo parentale tuscolano domina l’Urbe e ampie porzioni di territorio della Campagna fino alla Marittima, puntando lo sguardo dall’antica città di Tusculum, poi distrutta nel martedì di Pasqua del 1191 dalla congiura di tutti i poteri dell’epoca, che sorge sulla collina omonima all’oriente del quadrante laziale. Nel Mille il preafecto navalis Gregorio riceve dall’imperatore Ottone III il titolo di Conte di Tuscolo e lo stemma gentilizio che rappresenta la casata con un’aquila nera in campo rosso; uomo di fiducia dell’artefice della renovatio imperii che si irradia dall’Aventino, Gregorio è anche colui che nel 1001 mette in fuga dall’Urbe Ottone per un contenzioso fiscale sorto tra questi e la città di Tivoli.

Nel costante conflitto con la famiglia rivale dei Crescenzi, dal canto loro prevalentemente inclini a rapporti con gli imperatori bizantini, i figli di Gregorio assurgono a pontefici con i nomi di Benedetto VIII e Giovanni XIX: con loro il modello diarchico che era stato stabilito da Alberico viene definitivamente superato a favore di una piena integrazione dei poteri laici e religiosi. In carica dal 1012, Benedetto VIII si caratterizza per essere un potente guerriero, impegnato a contrastare insieme all’imperatore tedesco i Bizantini al Meridione, mente alleandosi con Genova e Pisa scaccia dalla Sardegna i Saraceni di Al-Mughiaid, detto il Muscetto, in una guerra che Pirenne segnala essere già religiosa oltre che commerciale. Nel 1024, Giovanni XIX ascende alla tiara pur se privo dell’ordinazione ecclesiastica, mantenendosi poi “laico” al punto di rischiare di concedere a Eustachio patriarca di Costantinopoli il titolo di ecumenico: la notizia proviene da Glabro ed è poco certa, ma ad ogni modo  la proposta è rigettata, e Giovanni risulta l’ultimo vescovo di Roma ad essere citato nei Dittici Bizantini. Il terzo figlio di Gregorio I di Tuscolo è Alberico III, che porta avanti l’altra tradizione di famiglia e, come «onore e vanto della città di Roma» (Vita di Leone IX), esercita la carica di senatore e console, è capo politico e militare ed è anche padre del pontefice che succede ai suoi due fratelli con il nome di Benedetto IX, nato come Teofilatto III dei Conti di Tuscolo in una data generalmente posta intorno al 1020.

I cronisti dell’epoca, oltre ad essere un po’ distratti, sono spesso anche arbitrari, maldicenti, soprattutto tendenziosi e, nonostante le loro alte aspirazioni, si ritrovano perlopiù a svolgere interessi di parte, clericale o imperiale che sia. Di questi tempi, la storia non è “scienza”, e somiglia di più al gossip. Se, come abbiamo visto, le date stesse sono suscettibili di enormi incertezze al punto di sembrare che gli storici, come già notava Ludovico Antonio Muratori, «imbroglino», è anche vero che nessuna misura risponde a criteri di precisione: siamo nel pieno di quello che Alexander Koyré ha chiamato «il mondo del pressappoco». Tuttavia, anche il “pressappoco” ha atti ufficiali, documenti e leggi a cui fare riferimento, mentre interessi ed imbrogli di quell’epoca lontana possono anche essere decaduti, lasciando spazio ad esigenze di chiarezza.

Suggerisce Lucio Lombardi che l’età adolescenziale all’epoca dell’incarico pontificale sarebbe potuta dipendere dalla possibile ereditarietà del vescovato di Porto retto da Gregorio I, oppure da elementi del diritto longobardo vigenti nel territorio romano dalla Costituzione di Lotario dell’827. Benedetto IX ne potrebbe rivendicare le disposizioni in quanto discendente da Alberico I da Spoleto, e gli istituti giuridici avrebbero anche potuto coesistere, per quanto la preminenza del diritto romano sia già stata ristabilita dall’imperatore Corrado II il Salico nel 1027. Ad ogni modo, l’ipotesi della giovane età del pontefice non è affatto inappellabile: Glabro rispetto ad essa si contraddice apertamente, e potrebbe pure aver attinto «duodecim» da una fonte relativa alla sua espulsione dopo dodici anni di papato, così come è possibile che un copista abbia trasformato «per annos XII» in «circiter annorum XII». Lo storico Reginald Poole ha fatto un calcolo delle date piuttosto preciso: dove Alberico III è attivo come iudex già nel 999 ad un’età di circa ventiquattro anni, suo figlio Teofilatto III figura nella «datatio» papale nel 1032; se al momento dell’elezione papale avesse avuto davvero dodici anni sarebbe nato nel 1020, quando il padre aveva almeno quarantacinque anni, con la conseguenza che questi sarebbe stato responsabile del governo di Roma all’improbabile età di cinque anni: pertanto, è realistico supporre che alla sua elezione il pontefice poteva essere almeno venticinquenne. L’età di diciott’anni è invece sostenuta dal gesuita Agostino Mathis, in quanto il futuro papa e suo fratello Gregorio ricevono già nel 1022 richiesta da parte dello zio papa Benedetto VIII di mantenere in custodia dei beni rilevati ai Crescenzi.

L’eclisse è accertata il 29 giugno 1033: Benedetto IX ha intrapreso da appena un anno il suo incarico, e l’imperatore è impegnato ad annettere la Borgogna ai suoi territori e non è nemmeno in Italia, dove risiede da fine 1036 a luglio 1038. Nella penisola, ai forti contrasti tra i poteri locali ed europei si accompagnano i primi fermenti indipendentisti al nord e l’instabilità del sud, dove alle rivendicazioni dei Bizantini, costretti seppur in modi altalenanti a porzioni territoriali sempre più ridotte, si accompagna l’estinzione del dominio arabo fatimide sulla Sicilia e il permanere di alcuni principati Longobardi, mentre prosegue l’inarrestabile espansione dei seminomadi Normanni, di origine scandinava e fede cattolica. In un modo che per la violenza dell’epoca sembra piuttosto insolito, l’autorità del pontefice si conserva a lungo solida e indisturbata.

La spiccata incongruità di diversi elementi a disposizione dei posteri rende particolarmente ardue le nostre sentenze: piuttosto, suggerisce alla nostra comprensione di mantenere un disegno ideale senza costringere i dati a continuità ipotetiche, che hanno portato anche gli studiosi più autorevoli a compiere errori. Infatti, lo storico del medioevo Ferdinando Gregorovius e quello della Chiesa mons. Agostino Saba avallano un grossolano errore di immaginazione che già il cardinal Cesare Baronio sulla scorta di Glabro aveva convalidato, ambientando nel 1036 la fuga di Benedetto IX, che si sarebbe quindi rifugiato quindi presso l’imperatore Corrado II il Salico per farsi aiutare a recuperare il soglio pontificio. Tuttavia, il 2 novembre dello stesso anno il pontefice presiede uno dei sinodi più popolati, con la presenza di 34 vescovi e numerosi abati, e l’anno successivo gli eventi dimostrano la piena concordanza tra i due poteri nel contrastare due diverse insurrezioni a nord e sud della penisola. A rendere poco credibile l’ipotesi di qualche palese scorrettezza da parte di Benedetto IX concorre anche la spiccata attitudine legalistica di Corrado II, privo di ogni scrupolo nell’entrare in conflitto con gli stessi epicentri del suo potere.

Nel 1037 a Milano papa e imperatore si oppongono congiuntamente, attraverso ripetute scomuniche, l’incarceramento e tentativi di sostituzione, al tentativo autonomistico dell’arcivescovo Ariberto. Questi, che aveva incoronato Corrado quale Re d’Italia, aveva subìto i contrasti degli aristocratici della Lega Motta, per poi porsi alla guida della rivolta della città, inaugurando l’uso simbolico del Carroccio e coinvolgendo anche Parma, poi oggetto delle rappresaglie imperiali; tuttavia, le due autorità non ottengono nessun risultato apprezzabile e la situazione si mantiene a lungo in stallo. Invece, a Salerno l’imperatore sostiene con efficacia il potere del principe longobardo Guaimario V, il cui fratello Pandolfo ha sposato Teodora di Tuscolo, zia del pontefice, rafforzando in questo modo la posizione complessiva dei Conti. La situazione conosce notevoli intrecci etnici e di potere: Guamario intercede presso l’imperatore per concedere Aversa al suo feudatario normanno Rainolfo, mentre l’altro principe longobardo Pandolfo III di Capua subisce un momentaneo esilio dall’imperatore bizantino Michele IV Paflagone al quale aveva peraltro chiesto soccorso contro Guamario e Rainolfo. A beneficiare di questo intervento è soprattutto l’Abbazia di Montecassino, di cui viene ripristinata l’indipendenza.

Se gli equilibri sono altamente instabili e si modificheranno ancora coinvolgendo territori sempre più ampi, sempre nel 1037 l’imperatore con la Constitutio de feudis favorisce l’ereditarietà dei feudi minori, permettendo anche all’incipiente incremento demografico di distribuirsi nelle città che ricominciano a fiorire dopo il periodo in cui è prevalso l’incastellamento e la concentrazione delle rocche. La disposizione apre ai cambiamenti a venire dal momento in cui il costituirsi di unità amministrative che frazionano il fronte nobiliare permettono la definizione di un nuovo ceto sociale e quindi anche di una tendenza politica differente da quella dell’Imperium. L’epoca ci confronta con tessere che sembrano derivare da mosaici diversi, il cui il disegno complessivo potrebbe essere reso più comprensibile proprio ponendo in rilievo la figura di Benedetto IX.

 

2. Ritratto di un giovane pontefice

Ricorda Jacques Le Goff che già dalla caduta dell’Impero del 472 la Chiesa di Roma si insedia a livello locale appoggiandosi a centri urbani all’epoca in forte contrazione e sottoposti al potere dei vescovi, proprio mentre il vescovo dell’Urbe assume il ruolo di Pontifex Maximus ed eredita il ruolo dell’Impero nel tentativo di imporre supremazia su tutte le Chiese, a partire da quella di Costantinopoli. A Bisanzio invece l’Impero romano procede per oltre un millennio accentrando il potere teocratico del Basileus, a cui si sottomette il patriarca, a sua volta limitato dalla Chiesa, mentre si articola una forma statale priva di connotati di appartenenza etnica e di classe le cui componenti decisive sono l’aristocrazia militare e la burocrazia urbana. Da parte sua Roma è a lungo un ducato bizantino e inizia a stabilire il potere temporale e territoriale con la Donazione di Sutri compiuta del re longobardo Liutprando nel 728, giustificando la propria appropriazione del patrimonio di San Pietro in base alla Constitutum Constantini, un documento posticcio ma decisivo per legittimare le aspirazioni pontificie. L’Urbe riceve ulteriori donazioni e il sostegno dei poteri franchi e rinnova l’istituto imperiale prima nell’800 con Carlo Magno e poi nel 936 con Ottone I; tuttavia i Rex Barbari che ascenderanno in Occidente al ruolo di imperatori non saranno mai riconosciuti tali da Bisanzio.

Nell’impianto teorico prevalente di quello che in seguito sarà chiamato Sacro Romano Impero, il trono e l’altare sono come il sole e la luna: ognuno dei quali deve mantenersi nel quadro dell’ordine e della vocazione che gli è propria, permettendo al mondo ordine e misura. La distinzione tra i due non è però ben comprensibile, perché laddove il potere dell’Imperium esercita sacralità, l’Ecclesia manifesta vocazione imperiale. In pagine in cui nel tempo a venire indagherà il “farsi” del reale, Hegel definisce la cristianità medievale, così come l’ebraismo, nelle forme della «coscienza infelice», che per la Fenomenologia dello Spirito vige laddove due autocoscienze non riescono a cogliere la loro identità, ma si concepiscono come opposte ed estranee. Il filosofo si riferisce propriamente al rapporto del mistico con Dio, per cui la speranza si volge integralmente al trascendente, condannando la stessa speranza di cui si anima ad essere priva di compimento. Tuttavia, possono essere verificate ulteriori implicazioni di tale coscienza infelice, straordinariamente empiriche, proprio dove l’ideale del papato sembra quello di legittimare l’imperatore senza averlo troppo tra i piedi, e la prassi dell’imperatore consiste nel pestare quando può i piedi al papa.

Le lotte tra papa e imperatore con Benedetto IX e Enrico III conoscono una radicalità e un’asprezza che un quarto di secolo dopo sarà uguagliata con segno opposto da quelle tra Gregorio VII e Enrico IV, e nelle quali davvero ogni parte costringe l’altra all’estraneità e quindi all’inessenzialità. Per usare le parole di Hegel, in questi dissidi prevale un rapporto conflittuale tra essenza e non-essenza che rende l’eventuale vittoria di uno dei due termini quale semplice sottomissione del «nemico» e mai come piena integrazione di forze. In tale movimento le «singolarità» sono costrette a riemergere di continuo anche nella tensione all’«Immutabile», determinando un’aporia che invece sarebbe superabile soltanto attraverso la rinuncia a sé e un sacrificio effettivo, in grado di riconoscere che potenza e attività pur compiendosi in se stessi dipendono dall’altro. Tale mediazione accompagna tanto la conservazione delle peculiarità quanto il loro rendersi universali, permette così all’infelicità di rovesciarsi nell’appagamento di sé.

Nel pensiero di Hegel ad essere cruciale è la capacità della ragione di realizzarsi attraverso le forme del reale, e ciò è da lui concretamente visto nel suo effettivo compiersi; nella nostra contemporaneità tale idea sembrerebbe piuttosto incerta, e perlopiù dobbiamo accontentarci di veder tralucere qualche mezza ragione da accadimenti apparentemente insensati, anche grazie alla mediazione di apparati concettuali sepolti nella nostra storia quali le “forze catecontiche”, rese a a noi contemporanee da una riflessione di lungo periodo come quella di Massimo Cacciari. A maggior ragione, possiamo restituire tali concezioni all’epoca che gli è propria, laddove nel medioevo vige con forza l’idea che alla base dei poteri sussista l’esigenza del kathecon, potenza in grado di trattenere l’Apocalisse e l’Anticristo. Tale idea è espressa da San Paolo nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6-9): teologi quali Giovanni Crisostomo nel Commentarius all’epistola evidenziano tale trattenimento quale compito dell’Impero romano cristiano, la cui caduta rivela il “mistero” dell’iniquità e della menzogna. La Chiesa eredita l’afflato dell’Impero e gli restituisce forma e capacità decisionale, completandolo con la propria funzione evangelizzatrice.

L’Imperium, come ricorda ancora nel 954 nel Trattato dell’Anticristo l’abate Adsone di Montier-en-Der, deve proseguire nel suo compito di sottomettere tutti i regni terrestri ad una Universitas capace di risolvere ogni volontà individuale senza dar luogo a disgregazioni, contrastando quindi l’Anticristo, che nascendo da stirpe ebraica a Babilonia affermerà di essere figlio di Dio. Tuttavia, trattenere la fine (eschaton) e contenere l’urto dell’Anticristo comporta la loro stessa possibilità di esistenza proprio all’interno degli istituti imperiali ed ecclesiastici, e così prospettiva della fine e urto dell’Anticristo divengono letteralmente presenti nei momenti di maggiori crisi. Le non rare accuse rivolte a diversi personaggi storici di realizzare l’Anticristo vedono il loro punto di maggiore condensazione proprio nella figura di Benedetto IX: tale evenienza, invece di lasciarci crogiolare in banali riflessioni moralistiche, deve farci chiedere quale possa essere il senso effettivo della vicenda complessiva di cui egli è parte. Recenti contributi particolarmente significativi nella ricostruzione di testi, contesti e pretesti sono quelli del medievista Ovidio Capitani e della storica del territorio Valeria Beolchini, che spiccano per la competenza della valutazione delle fonti rispetto ai pasticci dei pubblicisti intenti a propagare pregiudizi e copiarsi l’un l’altro.

Mettendo il pontefice tuscolano a confronto con la storia, oltre a conoscere che è stato eletto grazie al denaro dal padre «non parva plofigata» (Desiderio di Montecassino), possiamo anche constatare che la circostanza all’epoca è piuttosto comune e la sua attività effettiva è del tutto regolare. Tra i suoi cardinali ci sono figure prestigiose come Gebeardo, arcivescovo di Ravenna e protettore dell’Abbazia di Pomposa, e Lorenzo arcivescovo di Amalfi, erudito che riconduce la cultura classica al cristianesimo. Oltre a realizzare numerosi interventi urbanistici a Roma e nella Campagna, il papa nel primo periodo del suo pontificato si concentra a regolarizzare i rapporti tra enti ecclesiastici dell’Italia centrale, con interventi a Silva Candida, dove concede all’arcidiacono Pietro e ai suoi successori l’incarico di bibliotecari e cancellieri della Chiesa, e a Grottaferrata, dove dona un terreno al monaco basiliano Bartolomeo, che regge il monastero di rito greco ma di confessione latina fondato dall’eremita di origine calabrese Nilo, già consacrato da suo zio papa Giovanni XIX. Concessioni e protezioni coinvolgono in maniera particolare Perugia, Firenze, Pesaro, Verona e anche Bordeaux, e inoltre istituisce l’arcivescovato di Siponto distaccandolo da quello di Benevento. All’inizio del decennio successivo interviene sulle autorità del Montefeltro per una pieve in Bagni di Romagna, sul possesso di due villaggi contestati dai vescovi di Toscanella e Castro e ordina un vescovo a Troia. La sua azione si inserisce nella tensione inaugurata dalla riforma cluniacense nel secolo precedente con gli auspici di Alberico II di favorire strette relazioni tra papato e monasteri, per sottrarli al potere del clero feudale ed alle eventuali prepotenze dei vescovi-conti locali.

Il cancelliere Pietro ci offre un quadro piuttosto truce dell’Urbe del secolo XI: i nobili razziano chiese in rovina, i preti si danno ai bagordi, i pellegrini sono assaliti e saccheggiati dai briganti e la gente si ammazza regolarmente per strada. Di tale mondo, considerata la generale ostilità dimostrata nei suoi confronti, Benedetto IX sembra essere un autentico campione, laddove, come ci ricorda Capitani, riesce ad attirare biasimo da componenti molto diverse: oppositori del particolarismo (Rodolfo Glabro), fautori dell’azione moralizzatrice e di tutela da parte dell’impero (Annales Altahenses, Annales Corbeienses, Ermanno Augense); sostenitori ierocratici e anti-imperiali dell’assoluta regolarità della vita religiosa (De ordinando pontifice), austeri spiriti monastici (Odilone di Cluny).

Il teologo e santo Pier Damiani, convinto riformatore e acceso moralista, fustigatore del clero pedofilo e sodomita, in un’invettiva arriva a definirlo, tra le altre cose, «apostolo dell’Anticristo», «saetta scoccata da Satana, verga di Asur, figliolo di Belial», «puzza del mondo, vergogna dell’umanità». Bonizone di Sutri, entusiasta seguace di Gregorio VII e sostenitore del pauperismo dei Patarini milanesi, ci riferisce che di propria mano il pontefice si rese colpevole di «numerosi e turpi adulteri ed omicidi». L’anonimo biografo di Leone IX, il suo definitivo rivale sul soglio pontificio e in seguito riconosciuto come santo, informa che il pontefice tuscolano è sistematicamente impegnato a contravvenire i dieci comandamenti. Vittore II, un suo successore tedesco, lo definisce «ladro ed assassino», «scellerato oltre ogni dire». Il  cardinal Bennone fornisce i dettagli scabrosi per cui «attirava le donne nei boschi e sulle montagne», aggiungendo selve di racconti storicamente inverosimili su una sua alleanza con Pietro re d’Ungheria e confondendo le successioni papali già complicate per conto loro. Desiderio di Montecassino, il pontefice Vittore III, ribadisce l’aspetto lascivo per cui «era votato alla voluttà e molto più incline a vivere come epicureo che come un pontefice», concetto sul quale ritorna anche l’abate Luca dell’Abbazia di Grottaferrata (luogo in cui Benedetto IX finirà i suoi giorni)  affermando che era «troppo giovane e dedito ai piaceri».

Raccogliendo le testimonianze su questa figura a proprio modo “leggendaria” ed “epica”, probabile primo esponente di un’illustre schiera di bohemiens, Gregorovius annota che «con Benedetto IX il papato toccò il fondo della decadenza morale» e aggiunge tra le molte perle che egli «conduceva tranquillamente in Laterano una vita da sultano orientale», confezionandone per bene l’aspetto demoniaco laddove impiegava le formule di evocazione contenute nei «libri segreti» del Laterano nel far «commercio» nei boschi con il diavolo. Le accuse sono forti, seppur piuttosto generiche, ma certamente suscitano attenzione: infatti, quando i riferimenti a questo discusso pontefice non sono vergognosamente omessi, è luogo comune diffuso avventarsi sulla sua figura per esecrarlo, fornendo ritratti zeppi di imprecisioni più o meno volute che hanno come unico risultato di confonderne ulteriormente i numerosi enigmi.

Rimane quindi inevitabile riferirsi anche alla migliore opera narrativa dedicata al controverso personaggio, rappresentata dal romanzo storico Benedetto IX (1899) scritto da Raffaello Giovagnoli, un patriota di sinistra inizialmente antimoderato e anticlericale progressivamente stemperatosi verso posizioni conciliatorie, che ha dedicato la sua scrittura ad esplorare le diverse declinazioni dell’idea di Roma. Convinto come storico dell’esistenza di intrinseche necessità, in qualità di narratore equidistante da moralismi e semplificazioni, è attento al realismo di figure e ambientazioni; rispettando i canoni delineati per il romanzo storico da Manzoni, Giovagnoli sa utilizzare i documenti a disposizione per approfondire i caratteri di un’epoca attraverso il rilievo fornito a protagonisti esemplari. Rispetto a questo pontefice, dai tratti apparentemente così perversi, che rappresenta indubbiamente un enorme catalizzatore per indagare le tensioni tra laico e profano e tra cristianità e paganesimo che animano il cattolicesimo, nonostante le forzature con cui propone elementi a volte completamente anacronistici e altre volte del tutto sbagliati, non manca l’intento di regalarci sfumature suggestive nell’affresco di un’era. Facendo attenzione a confrontare gli elementi che la sua fantasia ci fornisce con dati documentari comprovati, Giovagnoli può soccorrerci nel trovare alcuni dei tasselli mancanti della vicenda.

Il pontefice Benedetto ci viene incontro con una descrizione basata sui ritratti del Platina e altre fonti iconografiche: «dal viso oblungo, bianchissimo di pelle, pupille turchine, capelli biondi, riccioluti e un po’ stempiato, affetto da leggero strabismo e dal naso aquilino, ben rasato». Veste preferibilmente «una tunichetta di seta bianca, tutta lavorata a fregi d’oro e stretta alla vita, mediante una larga cintura di cuoio tempestata di pietre preziose […], stretti calzoni di seta di Reims finissimo di colore azzurro chiaro […], un piccolo e leggiadro berretto di seta, di colore azzurro simile a quello dei calzoni, sul quale tremolava una piuma bianca». Nel romanzo il papa entra in scena davanti alla Basilica Laterana alla testa di un corteo che sembra una Street Parade ante litteram (anche per Giovagnoli) mentre si reca ad una battuta di caccia ad Ostia; è seguito da un’orchestra di fiati, paggi e falconieri e, oltre ad esponenti di nobiltà e clero, esibisce giovinastri volgari e cacciatrici in abiti succinti, licenziose e procaci.

Tra queste, alcune delle sue molte donne: la bionda Gismonda di Wolfendorf, una tedesca massiccia, altera e colta, che si dice sia stata già amante del papa “mago” Silvestro II e mantenutasi giovane grazie al sangue dei bambini rubati alle famiglie; la graziosa ma risoluta morettina Gemma dei Frangipane, congiunta a suo fratello Gregorio II, senatore e patrizio romano, capo politico e militare e giudice della città, soprannominata la «moglie del papa». Altre cavalle della sua scuderia rispondono ai nomi di Edvige di Cencio, aristocratica veneziana di stirpe reale ungherese, chiamata vezzosamente «Venere di Milo» oppure «Maria santissima nuovamente incarnata», nonché la sua dolce zia la contessa Emilia, dalla quale oltre a pretendere morbose attenzioni si fa elargire anche un discendente. Il papa, pur se a volte avverte il peso del suo alto uffizio, ha stile, è raffinato e di buona compagnia, organizza cene e ricevimenti suntuosi, allegri e ben assortiti, dove si scatena con sillogismi assurdi il buffone prediletto della corte, un ciccione di nome Scheletro; dimostra inoltre di essere un vero uomo di mondo nel divertirsi a passare le notti vestito da marrano tra bettole e bordelli, per venir riportato a casa in spalla ubriaco dal suo massiccio scudiero Oviccione Dello Massimo, fedele compagno di sbronze e «sempre pronto alle risse ed al sangue». Al colmo del divertimento e adeguatamente camuffato, nella mitica notte di San Giovanni del 1043, dopo essersi abbuffato di lumache, lega con una catenella due gatti tra loro per poi gettarli nel fuoco. Il popolo lo chiama «maledetto nove volte», e non c’è mica da stupirsi.

Giovagnoli ha una prosa molto fluente e ben costruita, a tratti commovente e sempre interessante, sa giocare d’anticipo, fare colpi di scena e sciogliere gli intrecci, è seducente nelle scene di sesso e divertente quando mette in bocca ai personaggi del popolo un’ipotetica lingua tuscolana che rassomiglia al dialetto frascatano che ancora oggi qualcuno sa parlare. Per quanto abbia un ritmo narrativo un po’ lento, è capace di irrompere con vividi squarci allucinatori, riuscendo comunque a mantenere l’attenzione del lettore anche quando si dilunga nelle descrizioni di personaggi seduti a tavola e impiega secoli di intrecci dinastici per far accadere qualcosa – ma per manicaretti quali orso arrostito infarcito di lardo e condito con salsa garofonata, si può anche aspettare. Tuttavia, i racconti grassi, osceni e delinquenziali sul conto di  Benedetto IX, per quanto molto simpatici, possono rispondere solo in parte alle domande della storia e rendono necessaria una ricostruzione della vicenda del pontefice tuscolano in grado di individuare il momento in cui matura la sua contrapposizione agli altri poteri: infatti, è nella frattura tra il ruolo esercitato, la sua tradizionale legittimazione e i nuovi orientamenti in atto che la vicenda assume valore emblematico.

Il singolarissimo caso del pontefice Benedetto arriva a chiudere un periodo in cui aristocrazia romana e papato si identificano e va compreso non tanto secondo un’agiografia rovesciata, quanto attraverso una prospettiva di lungo periodo nella quale viene a verificarsi la rottura degli equilibri che definiscono le funzioni del soglio pontificio, che per rispondere alla vocazione universale derivatagli dall’eredità di Roma non può più limitarsi ad essere espressione dell’egemonia dei poteri locali e deve trovare nuove aperture. Inoltre, occorre valutare attentamente i rapporti con la casa regnante tedesca, laddove nel 1039 Corrado II muore per la peste contratta nel Meridione ed è sostituito sui troni di Germania e Italia dal figlio Enrico III da Ingelheim, detto il Nero per via della barba. Potente guerriero e governante inflessibile, destinato ad avviare cambiamenti importanti, esprime regalità anche nel monogramma che lo simboleggia, nel quale iniziale e cifre realizzano il cristogramma, una figura ad asterisco che copre tutte le direzioni dello spazio, ulteriormente arricchita dalle lettere del titolo.

 

3. Trono versus altare

Segnala Le Goff che il Sacro Romano Impero aveva «la testa a Roma e le braccia in Germania»: nella concretezza dei processi storici, Roma rimane lontana dai processi decisivi dell’area continentale, mentre i paesi tedeschi diventano progressivamente acefali. L’istituzione è quindi più teorica che reale e, pur godendo di grande prestigio simbolico ed esercitando notevole influenza culturale, esaurirà la sua forza politica senza averla mai dispiegata del tutto. Laddove la sua polarità è basilare nella dinamo degli eventi, è però riduttivo definirla quale semplice forma vuota destinata a consumarsi nelle dispute tra i poteri da cui è costituita, a meno che questo vuoto non sia in grado di generare e di riempirsi continuamente di contenuti. Conflitti e cambiamenti sono in corso anche nella teocrazia bizantina, basata, come ricorda Steven Runciman, su un’universalità che tende a raccogliere tutti i popoli e a renderli membri di un’unica Chiesa, in modo da realizzare l’imitazione del Regno di Dio, la cui capacità plastica di accogliere possibilità risulta molto meno rigida di quanto si possa pregiudizialmente supporre.

A Bisanzio e a Roma il ruolo internazionale e l’importanza delle componenti istituzionali sono tra loro in continua opposizione: al prevalere della potenza militare di una, corrisponde la debolezza dell’altra; se in una prevale l’aristocrazia cittadina, nell’altra assistiamo al suo decadere; gli strumenti attraverso cui il Laterano cerca equilibri con il trono conducono sul Bosforo a scompensi tra imperatori e patriarchi. Bisanzio, dopo aver conosciuto con Basilio II il suo apice, si trova sull’orlo di un lungo declino gestito dagli esponenti della dinastia macedone a lui successivi, ed è travolto da conflitti simili a quelli romani. Il ruolo di Roma è cresciuto per l’identificazione tra aristocrazia e soglio pontificio, gestito prevalentemente dalla stirpe di Teofilatto e dai suoi discendenti Tuscolani, che attraverso vicende per nulla lineari hanno inoltre ricostruito il tessuto connettivo dell’Impero. Nell’anno esatto in cui l’ultimo pontefice tuscolano Benedetto IX muore nel monastero di Santa Maria di Grottaferrata, estremo lascito del mondo bizantino all’Occidente, a Costantinopoli si consuma il definitivo scisma tra i due mondi cristiani, del quale principale artefice è il patriarca Cerulario, che entra in conflitto con diversi esponenti del potere imperiale proprio dove emula il ruolo del papa.

Roma e Bisanzio sono due modelli speculari, seppur molto diversi, specchi opposti e distanti che nel momento in cui stanno per distogliersi definitivamente lo sguardo rimandano l’uno l’immagine dell’altro in modo distorto: se ruoli, rituali e paramenti occidentali sono fortemente ispirati al modello bizantino, a Costantinopoli il mito e il modello di Roma, così come le frontiere occidentali, sono decisive quanto mai. Nel secolo X, la potente Marozia consegna in sposa la figlia Berta ad un figlio dell’imperatore Romano I Lecapeno; Alberico II figlio di Marozia, princeps laico di Roma, e l’amante di lei Ugo di Provenza, feudatario di Ottone I e imperatore mancato, tentano l’incrocio dinastico con una principessa bizantina; i rivali Aleberico e Ottone sono quindi destinati ad imparentarsi, e da loro discende Ottaviano, il già citato papa Giovanni XII, modello di ogni biasimo possibile verso i pontefici del periodo. L’imperatore sassone Ottone I tenta di trovare sul Bosforo una moglie per suo figlio in modo da ricevere in dote anche i possedimenti bizantini del Meridione, ma la delegazione di Liutprando è umiliata dall’imperatore Niceforo Foca; Ottone II sposa quindi Teofane, probabilmente figlia di Giovanni I Zimisce e pertanto non di pura stirpe porfirogenita; il piano di congiungere le due Rome è quindi di nuovo rinnovato e mancato dal mezzo sangue Ottone III.

Nel secolo XI a Bisanzio il modello di eikumene romana è compiuto nella massima estensione da Basilio II, che conferisce all’impero domìni che vanno dal Mar Adriatico al Mar Caspio, dalla Croazia al Tagikistan; dopo cinquant’anni di regno succede a lui il fratello Costantino VII, infatuato del mito romano in forme più domestiche. I cronisti spettegolano nella vecchia come nella nuova Roma, e pertanto sappiamo che Costantino un giorno imita Traiano, un altro Marco Aurelio, quello dopo Giustiniano, passando da un banchetto a quello successivo senza prendere una decisione. A lui succede la figlia Zoe, quasi contemporanea di Benedetto IX e come lui protagonista di vicende piuttosto travagliate, mentre per quanto riguarda il numero di mariti è piuttosto affine all’antenata di questi, Marozia.

Oggi come ieri, il discredito di un personaggio importante non dipende da una sua eventuale pessima condotta, ma è deciso dai rapporti con coloro che ne definiscono il potere: la diffamazione, quando è praticata a certi livelli, non è mai uno strumento fine a se stesso, e occorre leggere aldilà dei contenuti grossolani che evidenzia. La pessima fama di Benedetto IX si costruisce lentamente, insieme alla crescente contrapposizione con Enrico III. Infatti, in un periodo di poco precedente, Pier Damiani stesso aveva scritto al cancelliere papale Pietro, sempre riconfermato all’incarico in tutto l’intricato periodo in questione, di aver desiderio di lavorare per il pontefice «beatissimo ed apostolico». È inoltre su consiglio del santo che il pontefice scomunica i vescovi di Fano e Pesaro a causa delle loro «perduranti nefandezze». Con altre disposizioni la cui data rimane non precisata sopprime per cattiva condotta il convento femminile di San Juan de las Abadessas (Ripoll), e istituisce una sede espicopale a Finisterrae. Nel 1039 Bretislao duca di Boemia e Severo vescovo di Praga, trafugano il corpo di S. Adalberto apostolo della Prussia e invadono la Polonia: Benedetto IX li costringe a sottomettersi al nuovo re e a costruire un monastero. Sembra incerta tuttavia la sua effettiva partecipazione all’atto più importante della sua attività pontificale, che si verifica nel 1040 a Marsiglia, dove alla presenza di ventitré vescovi della Provenza è riconosciuta la Tregua dei, che vincola la conflittualità armata permanente dell’epoca all’osservanza di periodi regolari di pace. Nel 1041 il pontefice scomunica l’insorto ungherese Samuele, in lotta contro il legittimo re Pietro, e santifica in modo non del tutto canonico l’asceta Simone di Treviri morto pochi anni prima. Fin qui, tutto bene.

La prima avvisaglia dell’incrinatura tra poteri avviene su diversi terreni di scontro nel 1043. Il re tedesco ha già conquistato Boemia e Carinzia, è in guerra con Goffredo di Lorena, detto il Barbuto, per annettere anche la Lotaringia, e sta affrontando le rivolte degli Ungheresi tornati al paganesimo. Il messo Adalgero comunica ai vescovi di Pavia, Asti, Marengo e Como che la sua prossima discesa nel Regnum italico avrà come oggetto la revisione della condotta dei patrimoni ecclesiastici. Pur se il suo intento fosse stato relativo a semplici atti amministrativi scevri da ogni esigenza di riforma, è comunque inevitabile la presa d’atto delle modalità di elezione vescovile, che coinvolgono frequenti pratiche simoniache di compravendita dei titoli religiosi, considerate del tutto ordinarie e implicite negli episcopati italiani e destinate a precisarsi nello stesso pontificato romano negli eventi che nel 1046 segnano la calata del re in Italia. Infatti, all’epoca la simonia era normalmente definita come “beneficium”, i vescovati erano apprezzate fonti di rendita e addirittura venivano messi all’asta; ancora nel 1058 il cardinale Umberto di Silva Candida ci informa che dal tempo degli Ottoni a quello di Enrico III la vendita degli uffici ha avuto enorme diffusione per tutte le terre dell’Impero.

Un altro elemento di conflitto viene a porsi quando nel novembre dello stesso anno Benedetto IX invia in Germania i messi apostolici Andrea vescovo di Perugia e il clericus Sichelmo, ai quali Enrico III concede la defensio regia al monastero di San Miniato di Firenze. Tuttavia, tale riferimento amministrativo non è l’unico interesse dei legati: Giovan Battista Borino segnala la fondata ipotesi di una missione esplorativa rispetto alla sanzione delle possibili nozze del re tedesco con la cugina consanguinea Agnese di Poitou, considerate incestuose negli ambienti canonici. Inoltre, i rapporti stanno per infrangersi su una questione di enorme rilevanza politica che coinvolge il nord-est italiano, strategico per i passaggi tra i territori germanici e quelli italiani. Gli imperatori hanno un preciso interesse nel mantenere punti d’appoggio in città come Milano, Aquileia e Ravenna per controllare le vie di comunicazione tra Germania, Italia settentrionale e Roma. Pertanto, all’indebolirsi della posizione di Milano, si incrementa il ruolo di Aquileia, “seconda sede” episcopale in Italia, e i problemi emergono definitivamente nel momento della successione della carica vescovile della città, testa di ponte decisiva degli interessi imperiali.

Il conflitto che oppone papa e imperatore su tale questione prescinde ormai tanto dalle lontane rivolte anti-imperiali di Berengario I del Friuli, quanto dal ruolo ricoperto dai vescovi-conti, i cui privilegi spesso dipendevano dalla frode e la stessa acquisizione dell’incarico poteva essere decisamente fuori dalla legge. Nel 1027 era accaduto un fatto cruciale, laddove Poppone di Treven vescovo di Aquileia aveva conquistato Grado con le armi e contro la volontà dei suoi abitanti, ottenendo il riconoscimento dell’annessione dall’imperatore Corrado II e dal papa Giovanni XIX. Nel 1042 è nominato come nuovo vescovo Eberardo III, canonico di Augusta e cancelliere del re, e nel 1045 muore anche Ariberto arcivescovo di Milano, reintegrato nelle proprie funzioni da Enrico III, ma nei suoi ultimi anni contrastato da rivolte popolari che iniziano a coinvolgere anche il movimento pauperistico dei Patari. Ovidio Capitani evidenzia come nell’Italia settentrionale l’assenza di Ariberto è più temuta dell’eventuale profilarsi di una figura di pari importanza: l’arcivescovo aveva esaltato il particolarismo politico servendosi a vario livello dell’impalcatura di piccole e grandi forze dell’Italia centro-settentrionale, senza però rappresentare ad un livello ancora propriamente “comunale” gli effettivi interessi dell’alto clero contro l’invadenza tedesca. Pertanto, l’equilibrio di particolarismi che aveva trovato fulcro in Ariberto evolve quando questi viene a mancare, a vantaggio di forze estranee al contesto propriamente italiano.

Il rischio di un’intromissione dell’imperatore è compreso tanto dall’episcopato dell’Italia settentrionale, che intrattiene legami piuttosto stretti con la casa regnante tedesca, quanto da Benedetto IX, i cui rapporti con la stessa sono forse meno puntuali, ma istituzionalmente imprescindibili. La dimensione della pur notevole potenza tuscolana è strettamente regionale e continuamente minacciata al suo interno da fazioni avverse, alle quali ora si aggiunge anche l’incertezza su un eventuale sostegno di Enrico. Questa situazione problematica conduce a considerare opportuna la bolla emanata dal sinodo dell’aprile 1044, che in un capolavoro di sottigliezza non menziona neppure il re tedesco e il vescovo Eberardo, attenendosi ad esaltare la funzione del papato a difesa degli interessi episcopali italiani non legati al trono. Si concede appello alle suppliche inascoltate da due anni di Urso di Grado e di Domenico Contareno dux Venetorum, ed è quindi deciso che Aquileia venga separata da Grado e di nuovo eretta quale patriarcato autonomo. Il sinodo condanna in maniera implicita ma decisa l’ingerenza politica del re tedesco, ed è uno dei più popolati dell’attività pontificale di Benedetto IX, probabilmente sollecitato da esponenti del clero del nord Italia; vi troviamo anche Andrea vescovo di Perugia, presente nella missione esplorativa in Germania dell’anno precedente, e anche due futuri pontefici, Giovanni arcivescovo della Sabina (Silvestro III) e Giovanni Graziano arcidiacono di San Giovanni a Porta Latina (Gregorio VI). In un ardito disegno tattico, si considera che l’impresa possa costituire una carta importante nell’eventualità di altri confronti con Enrico III, ma la situazione precipita rapidamente.

 

4. La rivolta di Roma

Nel settembre del 1044 a Roma si scatena una sommossa, molto oscura e complessa, ulteriormente complicata dal fatto che ognuno l’ha raccontata a proprio modo, inglobando tra loro dati incerti e intenzioni di parte, ma alla quale comunque tutte le fonti si riferiscono come ad una sollevazione generale. Possiamo assistere alla scena decisiva attraverso una descrizione non attendibile, ma indicativa, di Giovagnoli. Durante uno dei suntuosi ricevimenti papali, l’insorto Gelasio Melafiore, uno dei più valenti balestrieri del tempo, scocca una freccia verso la fronte di Benedetto IX, che però colpisce la spalla sinistra del fratellastro Romano, figura forse di pura fantasia, ubriaco come il pontefice e chino a parlargli sottovoce. All’attentato hanno collaborato le guardie della scorta e anche alcuni sodali del papa, il quale reagisce scomunicando coloro che hanno congiurato contro la sua persona servendosi «della frode, del tradimento, della calunnia e del ferro nei loro sacrileghi attentati». Nella rivolta, capitanata da Tolomeo Crescenzi, figurano esponenti degli Anguillara, Annibaldi, Astalli, Capizucchi, Crescenzi, Colonna, Normanni, Bucciaporci, Del Sasso, Savelli: in pratica, buona parte della nobiltà romana si oppone al pontefice, così come molti suoi parenti. I capi della sommossa sono rinchiusi nella Torre dei Conti presso il foro di Nerva, ma non finisce lì.

Giovagnoli, attraverso un anacronismo funzionale a renderci il senso dell’epoca, introduce negli eventi esponenti di famiglie che appartengono perlopiù a periodi storici successivi, che possiamo anche conoscere integrando recenti studi di Mario Sanfilippo con quanto emerge dalla valutazioni delle fonti. I Colonna sono i più diretti eredi del potere dei Conti di Tuscolo, saranno esponenti decisivi della nobiltà romana dei secoli a venire e discendono da Pietro “dalla Colonna”, figlio di Gregorio II, fratello di Benedetto IX; se Gregorio inizialmente è responsabile delle proprietà che procedono lungo la valle del Tevere a nord della città, i Colonna porranno roccaforte in diversi feudi della Campagna a sud, tra i quali Marino e Preneste (Palestrina). I loro acerrimi rivali risponderanno al nome degli Orsini e fanno riferimento al patronimico Orso già molto diffuso al tempo di Benedetto IX; il loro esponente Clemente III favorirà assieme all’imperatore Enrico V la distruzione finale della città di Tuscolo compiuta dal Comune di Roma. Invece, l’esistenza dei Frangipane, anche questi congiunti ed eredi dei Conti, è attestata dal 1014 con la presenza di un Leo qui dicitur Frangipane, addetto alla distribuzione gratuita del pane, si dividono in diversi rami legati all’antica aristocrazia territoriale e avranno un numerosissimo numero di cardinali decisivi nell’elezione dei pontefici del secolo successivo. Occorre citare anche i loro parenti e rivali Pierleoni, non compresi in questo elenco, di origine ebraica e legati ai nuovi poteri finanziari; il capostipite è il convertito Baruch-Benedetto Cristiano, la famiglia prende il nome dal figlio Leone, sposato ad una Frangipani, e dal nipote Pietro; l’esponente più significativo sarà di lì ad un secolo l’antipapa Anacleto II, e in diversi modi sono ipotizzati legami tra loro, Gregorio VI e Gregorio VII.

Gli Annibaldi sono congiunti dei Conti e ne ereditano molti feudi nella Campagna al confine con il Meridione, tra cui il castello della Molara, succedendo inoltre ai Frangipane nel controllo militare della città. I Dal Sasso sono vassalli e forse parenti con i Tuscolani e prendono il nome da una località presso Cere (Cerveteri), controllano la Tuscia fino a Sutri e anche i beni dell’Abbazia di Farfa; per quanto in questa fase di agitazioni il ruolo del conte Gerardo sia piuttosto dibattuto, è certo che questi successivamente stabilirà con Benedetto IX un’alleanza atta a preservare il ruolo dell’aristocrazia romana nella determinazione del soglio pontificio. I Crescenzi sono tradizionali rivali dei Conti, hanno espresso un conflitto molto aspro con Ottone III di cui Crescenzio è stato eroe e martire e i loro rapporti con la corte bizantina hanno generato un antipapa sanguinario come Bonifacio VII, rivale del pontefice tuscolano Benedetto VII fedelissimo di Ottone II; da Preneste si diffondono fino alla Sabina e, se come i Tuscolani discendono da Teofilatto e Teodora, un loro ramo in seguito confluirà nei Colonna. I Savelli compaiono solo nel XII secolo, anche loro sono legati alla Curia vescovile e un loro esponente, poi eletto papa come Onorio III, è l’autore del Liber Censum, importante collezione di atti amministrativi realizzata l’anno successivo la distruzione di Tuscolo; dallo smembramento dell’immenso patrimonio racimoleranno come tutti qualcosa e daranno anche il nome al castello di Borghetto presente sulla via Latina. Insomma, al di là della variabile del papato, gli esponenti dell’aristocrazia passano il tempo ad incrociarsi, fottersi e farsi guerra tra loro, come in tutta Europa.

Un’attenta ricostruzione della rivolta romana è stata tentata da Borino sulla base degli scarsi e spesso contraddittori elementi forniti da Rodolfo il Glabro, dal Chronicon e dal Regestum di Farfa, dagli Annales Altahenses, da Ermanno Augiense, Desiderio di Montecassino, Bonizone e Bennone; la notizia più ampia è quella degli Annales Romani, che, pur collocando gli avvenimenti nel MXLVI anziché nel MXLIV, rappresenta la fonte più prossima ed esauriente.

Benedetto IX sfugge alla rivolta riparando presso Monte Cavo, la più alta montagna della regione tuscolana, dove già secoli prima aveva trovato rifugio un altro transfuga eccellente, il re etrusco Tarquinio il Superbo. In città infuria la guerra e si verifica anche un terremoto: l’evento è così parossistico da farci convenire con Rodolfo Glabro che l’eclisse di qualche anno prima abbia un valore scenografico molto pertinente. Gli insorti fanno riferimento al Vaticano e a Castel San Angelo, roccaforte dei Crescenzi, mentre Laterano, Trastevere e Città Leonina sono presidio dei Tuscolani. I combattimenti più aspri si svolgono a Santo Spirito, nel territorio del conte di Galeria Gerardo del Sasso, che sappiamo essere figlio di Ranieri e giudice a Corneto. Le truppe di Gregorio capitolano il 7 gennaio 1045 dopo circa cento caduti in battaglia e tre giorni d’assedio da parte di milizie guidate dai Crescenzi di ramo Stefaniano. Il 20 gennaio 1045 viene posto sul soglio pontificio Giovanni arcivescovo della Sabina con il nome di papa Silvestro III. È un probabile congiunto dei Crescenzi e assume l’incarico sborsando parecchio denaro ai rivoltosi, principalmente al conte Gerardo, il quale offre sua figlia quattordicenne Riccarda a Benedetto IX per distoglierlo dalle sue rivendicazioni (Annales Altahenses), ed è permesso al pontefice di definire addirittura un progetto matrimoniale (Bonizone).

La rivolta forse non è connessa direttamente alle tensioni nei rapporti tra papa e imperatore generati dalla diatriba sul patriarcato di Grado, ma sicuramente la circostanza fornisce alla fazione ostile ai Tuscolani l’occasione per tentare di spodestarli dal controllo del papato; come suggerisce uno storico non preciso e tuttavia attento come Lombardi, è probabile che il re tedesco abbia foraggiato le rivolte contro il papa. I Crescenzi, in assenza di interlocutori presso la corte bizantina, travolta internamente dagli intrighi che hanno come epicentro l’imperatrice Zoe, per affermare il loro predominio contro quello dei Tuscolani si rivolgono verso la corte tedesca: in un’epoca in cui tutto è citazione, l’ipotesi si può comprovare con lo stesso nome scelto dal candidato crescentino (a Silvestro I è attribuita la Donazione di Costantino, nell’anno 1000 Silvestro II è stato il papa di Ottone III). Inoltre, la calata del re nell’Urbe è sollecitata da un sinodo indetto dall’arcidiacono Pietro, autore della pietosa descrizione della città già riportata. Silvestro III è regolarmente iscritto negli Annales Pontifici, ma riesce a mantenere l’incarico per soli quarantanove giorni, durante i quali procedono i combattimenti in città. Infatti, non è chiaro se Benedetto IX abbia carpito la fanciulla, ma è sicuro che rivuole il soglio pontificio, e con l’intervento armato dei fratelli Gregorio e Pietro scaccia il rivale in Sabina e lo scomunica. Il 10 marzo recupera il papato e lo mantiene per un mese e ventuno giorni fino al I° maggio, il tempo per individuare “pro bono pacis”, e in tregua con la parte avversa, un terzo candidato al di sopra delle parti.

Il recupero del papato non ha affatto dissipato pressioni e tensioni politiche: riguardo alla pessima fama che in qualche modo il papa tuscolano si è guadagnato tra i posteri, non abbiamo modo di valutarne l’effettivo impatto tra i contemporanei. Tra coloro che intervengono a consigliargli la rinuncia per eliminare ogni motivo di attrito, Luca di Grottaferrata nomina il monaco basiliano Bartolomeo, già al suo fianco nell’emanazione della bolla sulla questione di Aquileia, che avrà poi un ruolo decisivo nel suo definitivo ritiro; le circostanze suggeriscono che a trovare un modo di troncare una situazione diventata intollerabile senza perdere del tutto la battaglia con i rivali influisca proprio il suo successore Giovanni Graziano, già presente con Silvestro III al concilio sulla questione di Aquileia, probabilmente già suo padrino di battesimo e figura piuttosto illustre e rispettata, responsabile a San Giovanni a Porta Latina di una delle prime canoniche attestate.

Conformemente ai patti di pace stabiliti da quella che gli Annales Romani chiamano la charta refutationis, andata poi perduta, Giovanni Graziano diviene pontefice con il nome di Gregorio VI: se si richiama al primo papa tedesco che con Ottone III fu fermo oppositore della politica dei Crescenzi, prende il nome di un candidato crescentino costretto alla fuga dalle armi di Benedetto VIII. È confermato dagli Annales Romani, da Pier Damiani, Desiderio di Montecassino ed Ermanno Augense che la consegna è accompagnata dal versamento di una quota la cui entità oscilla dalle 1.000 alla 2.000 libbre d’oro; la cifra sembrerebbe procacciata da Baruch Pierleoni, significativo esponente della comunità ebraica prossimo a convertirsi con il nome di Benedetto Cristiano e a dare origine alla famiglia dei Pierleoni. L’elezione di Giovanni Graziano a nuovo pontefice è gestita da Ildebrando da Soana, monaco a Santa Maria del Priorato sull’Aventino e nominato in seguito suo cappellano; prima di ricevere nel 1073 l’incarico pontificio come Gregorio VII, nome certamente ispirato al suo stimato predecessore e mentore, sarà consulente di cinque pontefici a partire da Leone IX.

La fictio storica del Giovagnoli evidenzia la stima che lega Giovanni Graziano ed Ildebrando, e collega il primo ai Pierleoni in qualità di figlio dell’ebreo convertito; se Bonizone associa in modi piuttosto oscuri Giovanni Graziano al nome profeta Onia, l’appartenenza del prelato al gruppo parentale giudaico è legittimata solo nel 1674 da Ottavio Pierleoni con l’apporre il nome di Gregorio VI quale “patruus” (zio) sul sepolcro di Pietro di Leone presente nell’atrio della Basilica di S. Paolo. Ildebrando è da parte sua nativo della maremmana Sovana di Sorano, zona da sempre caratterizzata da una forte presenza ebraica e potrebbe anche essere congiunto di Benedetto Cristiano: se l’ipotesi di una stretta parentela da parte materna con i Pierleoni è stata ampiamente destituita, ha comunque ragione d’essere, considerando inoltre che al tempo gli Ebrei, nonostante fossero discriminati, non subivano persecuzioni ed erano addirittura presenti nei rituali di intronizzazione papale, dove una loro delegazione consegnava la Torah al nuovo incaricato, che la accettava pur rifiutandone l’interpretazione. Il romanzo arricchisce la figura di Ildebrando di spessore umano laddove egli figura quale tormentato e sincero amante della contessa Dal Sasso, madre di Riccarda, la fidanzatina di Benedetto IX; la storia ci racconta che Gregorio VII sia stato molto vicino ai Pierleoni, da cui è finanziariamente sostenuto nel contrastare il potere imperiale sulle investiture religiose: del resto, la riforma era consapevole che per essere profonda doveva avere una forte base economica. Tuttavia, esiste anche la testimonianza, riportata dal Muratori e la cui fonte è Ottone di Frisinga, che nei confronti di Benedetto IX non vi fu nessuna delle transazioni descritte e il papa uscente si limitò a far depositare nelle casse della sua famiglia il tributo versato annualmente a San Pietro dall’Inghilterra.

In questa storia assurda le situazioni improbabili sono molte, il vero e il falso non hanno una ripartizione precisa, gli stessi documenti originali sono fortemente adulterati ed è pertanto impossibile non valutare le fabulae nella ricostruzione complessiva della storia. Le notevoli circostanze appena citate possono aver esercitato una forte suggestione nel favorire l’idea della fine dei tempi; l’immagine che prevale di più è quella che rappresenta il papa come un lussurioso e la sua vita privata come un continuo baccanale: se la sua libidine ha già assunto i toni sacrileghi del sacrificio al demonio, giunge ora ad un più proto-borghese progetto matrimoniale, definendosi al grado più infimo con l’umiliazione della richiesta della rinuncia al pontificato. Capitani ci fa notare come tali particolari, atti ad evidenziare l’indegnità del personaggio, non sono così scandalosi da dover addirittura provocare una rivolta: peraltro, la stessa precisazione dell’abbandono del papato rivela che al tempo in un clericus lo stato matrimoniale era ampiamente tollerato, e anche se il papa tuscolano fosse stato un emerito puttaniere, non sarebbe certo l’unico della sua epoca. Pur volendogli lasciare tutta la responsabilità diretta degli eventi, ad essere davvero straordinario è l’accanimento negativo nei suoi confronti: forse il suo problema non è tanto l’esser stato sconfitto, quanto il non essersi mai arreso.

 

5. Mirabilia e usurpazioni

La rivolta di Roma è sedata, ma sta per aprirsi lo scontro con Enrico III. Se la successione papale ha costituito un caso esemplare di simonia, questo sfugge ampiamente ai contemporanei, piuttosto inclini a considerarlo, come segnala anche uno storico insigne come Brezzi, una sorta di indennizzo alla famiglia, che esercita collegialmente funzioni e prerogative, e quindi di “rimborso spese”. Dopo l’accordo con i papi uscenti, l’elezione viene regolarmente eseguita secondo la prassi dell’epoca dai voti del clero e dall’acclamazione del popolo romano. La designazione di Gregorio VI è salutata come grande evento da Pier Damiani, che ne parla come «la colomba tornata con il suo ramo d’ulivo» esortando entusiasta il nuovo pontefice ad intraprendere un’energica azione di riforma. Gregorio VI gestisce il papato con le migliori intenzioni per quasi due anni, ma per la sua severità si fa molti nemici; mentre persevera in quella compravendita di cariche ecclesiastiche a cui Enrico vuol porre rimedio, ha anche l’ardire di mantenere ferma opposizione alle nozze del re con la propria cugina, provocandone le ire (De ordinando pontifice). Il “papa bambino” invece, ormai diventato grande, va in prepensionamento e, forse seguendo un consiglio ispirato da San Paolo sull’opportunità che il vescovo abbia una sola donna (Seconda lettera a Timoteo, 3, 2), si ritira con Riccarda in gita permanente ai Castelli Romani, le cui località già sorgono in una forma diversa dell’attuale nel territorio del feudo tuscolano. Sempre con beneficio d’inventario, dobbiamo però considerare che la relazione di Teofilatto con l’amante quattordicenne, di cui sembrerebbe sinceramente innamorato, siavenga ora fortemente ostacolata dal padre di lei.

Nel settembre 1046 Enrico III muove da Augusta verso Roma. Giunto a Pavia convoca un concilio preliminare sulla questione romana e sulle agitate vicende degli ultimi due anni; nel consesso sono quasi del tutto assenti i vescovi dell’Italia centrale, il re inizia a costruire la sua fama di implacabile attraverso la deposizione dell’arcivescovo Widgero, da lui stesso precedentemente promosso alla sede di Ravenna, e indice per il 20 dicembre quello che è chiamato il Mirabile Concilio di Sutri, le cui risoluzioni saranno confermate due giorni dopo ad un’altro concilio a Roma. Come segnala Lombardi, forse unico tra tutti gli storici, tale atto è al di fuori delle sue competenze in quanto non ha ancora ricevuto l’incoronazione imperiale; ad ogni modo, il concilio “mirabile” lo è per davvero, in quanto vengono convocati tre papi, tutti e tre accusati di simonia e tutti e tre convinti della loro legittimità (Lupi Protospatarii Chronica).

Tuttavia, anche se l’immagine è suggestiva, non ci sono mai stati tre papi in nomina contemporanea, e nemmeno figurano insieme a processo. Benedetto IX che, per quanto possa anche essere pieno di difetti, stupido non è, non si presenta nemmeno, Silvestro III è confermato in absentia quale deposto, mentre Gregorio VI, che aveva conferito il suo pieno assenso ai piani del re andandogli incontro a Piacenza, è ritenuto colpevole, disconoscendo ogni significato giuridico alla cartha refutationis. In sintonia con l’opinione pubblica romana e con quella illustre di Wazone di Liegi, egli riconosce la colpa, ma afferma la sua buona fede, in quanto «nella legge del Signore fu fatta la sua volontà» (De ordinando pontefice), ma per altri invece è egli stesso a riconoscere la propria indegnità (Desiderio di Montecassino, Bonizone di Sutri). Costretto all’esilio e relegato a Colonia, questa sfortunata figura muore sulle rive del Reno e ignoto rimane il luogo della sua sepoltura; è devotamente assistito fino alla fine da Ildebrando, che entra in ritiro in un monastero cluniacenese per reintrodursi due anni dopo nell’ambito romano come tesoriere del papa tedesco Leone IX.

Il 24 dicembre 1046 Benedetto IX è dichiarato deposto seppure non scomunicato, la rocca di Tuscolo è posta sotto assedio senza essere espugnata, mentre l’acquartieramento delle truppe tedesche mantiene posizione nei pressi dell’attuale Grottaferrata. Enrico III consacra papa con il nome di Clemente II il suo cappellano di corte Suitgero, vescovo di Bamberga, ai tempi capitale di un principato pontificio transalpino. Nel punto culminante della cerimonia, il re si china per compiere il bacio della pantofola: il papa lo incorona coinvolgendo nel rito anche la consorte “cugina”, e lo consacra con l’anello della fede, della fermezza e della forza. A questi e altri elementi desunti dal rito bizantino, Enrico III aggiunge la solennizzazione del legame con Roma acquisendo il titolo di Patricius Romanorum e sottomette l’Urbe e la Chiesa a sé ed ai suoi eredi in maniera più stringente di quanto fosse già previsto dal Privilegium Ottonis. Questa soluzione è aggravata dal Decretus in Electione Papa, per cui la nomina pontificia assume legittimità solo con il preventivo consenso imperiale, dando origine all’eresia “enriciana”, convalidata da Pier Damiani che vede nell’azione dell’imperatore la possibilità di realizzare le idee di riforma maturate nell’ambiente vescovile ravennate.

Enrico, per stroncare ulteriormente i Tuscolani ne elimina gli alleati: toglie il feudo di Capua a Guaimario di Salerno per affidarlo al suo vassallo Pandolfo, pone sotto protezione diretta anche i Normanni di Aversa e di Melfi, depone l’abate di Farfa e quello del monastero di S. Vincenzo al Volturno. Il nuovo papa emette scomunica contro la simonia e il concubinaggio degli ecclesiastici, tentando di coinvolgere in queste riforme anche le terre di Germania. I Romani acconsentono a tutte le misure disposte dal re tedesco, accettano il papa da lui scelto e ne convalidano il patriziato ed il diritto di prevalere nell’elezione papale su popolo e senato. I Conti di Tuscolo sono però soltanto in ritirata strategica, e non hanno alcuna intenzione di riconoscere la legittimità di nessuno di questi atti. Teofilatto è pronto a riprendere per la terza volta le funzioni pontificie ed appena può scomunica Clemente II, «illegittimo ed usurpatore».

Mentre Enrico III torna in Germania, riprendono gli scontri nell’Urbe: i Romani tentano la loro «improba affermazione»  (De ordinando pontifice), e Clemente II muore il 9 ottobre 1047 durante le celebrazioni di una messa a San Tommaso in Apostella presso Pesaro, colto da «un forte affaticamento fisico» per aver contratto «malaris morbo» (Regesta Pontificum Romanorum) oppure per «veneficium», avendo ingerito veleno propinatogli dai sicari tuscolani (Lupo Protospatariis Chronicum), che Giovagnoli immagina addirittura presente in un’ostia consacrata. Clemente viene sepolto in Germania nella cattedrale di Bamberga. Benedetto IX assume di nuovo le sue funzioni a partire dall’8 novembre 1047 e l’Annuario Pontificio riconosce anche il suo terzo pontificato, che coerentemente con gli atti ufficiali riprende il computo dall’anno I° «post recuperationem».

Il papa tuscolano raccoglie un’alleanza dallo spiccato carattere “nazionale”: Guaimario di Salerno ha riconquistato Capua favorendo il controllo di tutte le rotte verso il Meridione, Gerardo del Sasso e Bonifacio II di Toscana permettono di legare il territorio dell’Urbe al nord della penisola e quindi al continente; sono ora dalla sua parte anche gli ex rivali Giovanni arcivescovo della Sabina e Terenzio Crescenzi con l’intero ramo Ottaviano della sua famiglia, le genti di Preneste e anche quelle di Tivoli si aggiungono a quelle delle località dell’immenso feudo tuscolano. L’alleato più potente, Bonifacio di Toscana, le cui relazioni con la Germania sono molto ravvicinate in quanto è congiunto a Beatrice di Lotaringia (nel 1046 è nata la loro figlia, la celebre Matilde, poi fedelissima di Gregorio VII), è intenzionato a colpire la potenza tedesca per conquistare il patriziato romano e rendersi autonomo. Tuttavia, anche se recalcitrante per via del suo esplicito supporto alla reintegrazione di Benedetto IX, ha su lui effetto il ricatto dall’imperatore, che lo obbliga a condurre attraverso i castelli della Sabina un nuovo papa tedesco a Roma. Poppone di Brixten-Bressanone è eletto il 17 luglio 1048 con il nome di Damaso II, mentre Benedetto IX dopo otto mesi e dieci giorni che ha recuperato il soglio pontificio è definitivamente spodestato dai legati imperiali.

Il 9 agosto, ventitre giorni dopo la sua elezione, forse anche lui stroncato dal veleno, Damaso II muore a Preneste, feudo dei Crescenzi, che hanno compreso come il rischio di essere eclissati dal potere diretto nei confronti del papato riguarda tutte le litigiose “tribù” romane. Si vocifera di una nuova nomina di Gregorio VI di cui si ignorano le sorti ed è inoltre fatto il nome di Alinanardo vescovo di Lione, ma in realtà nessuno vuole l’incarico: è troppo facile morirne. Il Laterano rimane sede vacante per sette mesi e nel frattempo prosegue la guerra dell’imperatore nell’Urbe e nella Campagna, atta a sbaragliare le truppe tuscolane e ad annientare le basi economiche del suo potere. Le milizie sono pesantemente sconfitte ed il territorio è devastato, sono distrutte vigne e sradicati alberi, coinvolgendo anche importanti avamposti, tra cui il dazio attraversato dalla via Latina esattamente nel mezzo, oggi conosciuto come castello di Borghetto e lambito dalla via attualmente chiamata Anagnina (Vita di Leone IX). Il grande e dimenticato Giovagnoli ci regala una scena madre a conclusione del crescendo sabbatico e decisamente pagano del suo monumentale romanzo, facendoci assistere presso il sacro bosco di Nemi alla morte dell’ingenua Riccarda Dal Sasso durante una congiura ordita dal padre di lei e dalla strega tedesca Gismonda, in cerca di una sua personale e sorprendete vendetta, in cui troverebbe la morte anche il pontefice Benedetto, alfin dall’amore redento.

Se vogliamo ammettere la storia della fidanzata del papa come vera, questa circostanza è molto romantica e non manca di suggestionare; tuttavia, è del tutto fuori dalle condizioni della realtà, in quanto il conte Gerardo sostiene ampiamente la riscossa romana e Benedetto IX resta vivo ancora a lungo, pur se in esilio presso l’Abbazia greca di Grottaferrata, consigliato in questa risoluzione dal monaco Bartolomeo, in seguito nominato santo. Rimane in ritiro, forse anche in preghiera, ma non rinuncerà mai al titolo: questo papa così laico, spezzato tra l’esigenza di governo locale della città e quella di accogliere il compito universale della Chiesa, non accetterà mai nessuna secolarità. Ma la considerazione più sorprendente è che Benedetto IX è l’ultimo esponente papale a testimoniare un cattolicesimo comune ad Oriente e Occidente, non minato dallo scisma prossimo a verificarsi. Nonostante il disprezzo che generalmente gli è stato riservato, l’ultimo vero cattolico è stato lui.

 

6. Questioni bizantine

A Roma l’istituzione ecclesiastica romana conquista l’universalità a prezzo dei suoi equilibri locali e attraverso il complesso rapporto con l’istituto imperiale; a Bisanzio il fattore di universalità è esercitato dalla funzione statale dell’impero, la cui capacità di contenimento inizia a procedere verso un lungo e inesorabile declino. Roma e Bisanzio hanno strane consonanze, individuabili anche attraverso le loro figure femminili più influenti. La donna di potere per eccellenza del secolo X è l’esponente tuscolana Marozia, senatrice romana e regina d’Italia, amante di papi decisivi quali Sergio III e Giovanni X, madre e manipolatrice del pontefice Giovanni XI, compagna di tre dei più influenti regnanti del periodo: Alberico I di Spoleto, Guido di Toscana e Ugo di Provenza. Gli ultimi due personaggi sono ambedue figli di un’altra importante donna della storia, la contestata discendente carolingia Berta di Lotaringia, figlia di Lotario II e della sua concubina Gualdraga; Berta, seppur privata dell’eredità familiare a causa del rifiuto pontificio di riconoscere la legittimità dell’unione dei genitori e dall’usurpazione della Lotaringia compiuta Carlo il Calvo, diviene contessa di Arles e marchesa di Toscana. Marozia, di cui è possibile supporre una lontana origine greca per via dei nomi dei genitori (Teofilatto e Teodora) e della zona d’origine (l’Aventino e l’Emporio navale) rappresenta probabilmente l’espressione più piena del potere di Roma e sicuramente lo consolida a beneficio dei suoi discendenti, per quanto le direzioni di costoro non siano riconducibili alla sua politica di accentramento. Molto verosimilmente, è lei ad ispirare la leggenda della papessa Giovanna.

Nel secolo successivo la bizantina Zoe, ultima esponente decisiva della gloriosa dinastia Macedone, esercita un potere anche più saldo, laddove lo trasmette in qualità di moglie di tre imperatori e di madrina di un quarto, che si succedono in un periodo più ampio di quello in cui a Roma si esprime il pontificato di Benedetto IX, manifestando adeguatamente la proverbialità di una corte bizantina, scandalosa quanto il papato tuscolano. Zoe è quasi cinquantenne quando sposa nel 12 novembre 1028 Romano III Argiro, costretto a divorziare da nozze precedenti; protettore dei grandi proprietari e vincitore degli arabi ad Edessa, questi muore alle terme in circostanze oscure l’11 aprile 1034. La sera stessa è incoronato Michele IV Paflagone, amante di Zoe e più giovane di lei di quasi quarant’anni; Michele tenta di scaricarla, ma è contrastato da una congiura ordita dall’imperatrice e dall’ambizioso funzionario Michele Cerulario, che nel suo esilio prende gli ordini preparandosi alla carriera di patriarca. Nel 1038, durante uno sfortunato recupero della Sicilia, il generale Giorgio Maniace si allea ambiguamente con Longobardi e Normanni e riesce a lasciare nelle mani di Bisanzio soltanto la città di Messina; lo stesso anno l’imperatore sconfigge una ribellione in Bulgaria. Alla sua morte viene alla ribalta il fratello, l’intrigante eunuco Giovanni Orfanotrofo, ministro (parakoimòmenos) le cui misure fiscaliste sfavoriscono la nobiltà terriera e provocano ulteriori sollevazioni nelle regioni slave; questi influenza Zoe ad adottare Michele Calafato, il quale conduce in esilio la neo-madrina per meglio operare nei suoi grandi progetti.

Il popolo si solleva e richiede il ritorno dell’amata imperatrice. Il 20 aprile 1042 c’è guerra a Costantinopoli, con 3.000 morti per le strade;  l’imperatore fugge ma è catturato e accecato. Zoe riprende potere, affiancata dalla sorella minore Teodora, rinchiusa in convento quindici anni prima e come lei senza marito. Mentre i litigi tra donne dividono il governo, Zoe trova le terze nozze, considerate estremamente peccaminose dalla Chiesa orientale, con il senatore Costantino Monomaco, complice di Cerulario nella congiura contro Michele Paflagone. Il 12 giugno Costantino IX è nominato imperatore; Zoe ha sessantaquattro anni, Costantino ha fama di donnaiolo e intrattiene una relazione, ufficializzata anche a corte, con Sclerina, nipote della sua seconda moglie e parente del defunto Romano III. Costantino IX rimuoverà definitivamente Zoe dal trono ed è generalmente considerato un sovrano effimero e insulso: di fatto, è del tutto inefficace contro i Normanni che si stanno espandendo nel Meridione italiano togliendo terreno a Bisanzio e allontanandola definitivamente da Roma, e non è in grado di impedire la separazione tra le Chiese di Oriente e Occidente per nulla funzionale al suo stesso potere. Tuttavia, sembra mantenere diversi meriti.

Il nuovo imperatore, oltre a contrastare il tentato colpo di stato del generale Maniace, ostacola le invasioni dei Pecenighi, nomadi delle steppe di ceppo turcofono nel secolo precedente alleati di Bisanzio tanto contro i Bulgari (già dotati di un loro impero e sottomessi con forza da Basilio II) quanto contro i Variaghi (russi di ceppo normanno cristianizzati dalla Chiesa di Costantinopoli e ora formidabili alleati dell’esercito bizantino, che attorno Kiev stanno costituendo il futuro nucleo della Russia). Zoe, molto amata dal popolo che addirittura la chiama “mamma”, muore nel 1050 a settantadue anni; nei mosaici della galleria sud di Santa Sofia può essere ammirata insieme a Costantino, la cui testa è sovrapposta a quella degli altri due mariti.

Abbiamo incontrato l’elegante papa tuscolano alla testa di un corteo piuttosto festoso; il 2 febbraio 1049, giorno di Candelora, sul selciato dell’Urbe un uomo scalzo ne guida uno del tutto diverso: l’alsaziano Brunone di Eghisheim-Dagsburg, di estrazione cluniacense, circondato dalla fama di uomo pio e con un passato di guerriero, dieci giorni dopo diventa papa con il nome di Leone IX. Terzo pontefice tedesco consecutivo e parente dell’imperatore, dedica numerose chiese a Michele Arcangelo e si caratterizza per un’intensa attività di predicazione. Ildebrando, suo tesoriere, gli consiglia di rimettersi alle forme d’elezione in uso, e quindi di ottenere anche il voto del clero e l’acclamazione popolare; nonostante questa concessione, il nuovo corso si distacca decisamente dalla stretta localizzazione capitolina.

Leone IX non si sente romano e nemmeno italiano, e trascorre a Roma nove mesi su sessantuno di pontificato non sostandovi mai per più di tre mesi successivi; è circondato da un folto gruppo di ecclesiastici provenienti dalla Lotaringia che permettono di ottimizzare l’integrazione tra Curia papale e corte imperiale, facendo in modo che la Lotaringia, area di confine inadatta a diventare nazione, esprima la propria massima influenza proprio mentre le nazioni iniziano a profilarsi. Intanto Benedetto IX dal suo sdegnoso ritiro continua a considerarsi legittimo vescovo di Roma e mantiene aperta ribellione, arrivando anche a svaligiare il tesoro pontificio; riceve quindi definitivamente la scomunica nel concilio romano dell’aprile 1049, durante il quale sono avviate le prime riforme ecclesiastiche e subiscono revoca molte disposizioni dovute a lui e a Gregorio VI; Otgerio, il nuovo vescovo di Perugia, propone inoltre un’azione definitiva contro i residui focolai di resistenza tuscolana (Vita di Leone IX).

Leone IX emana a proprio nome centoventiquattro bolle, tra cui pochissime destinate all’Italia centrale, convalidando anche numerosi falsi e favorendo diversi interessi privati. Valeria Beolchini evidenzia la bolla dell’ottobre del 1051, esemplata dall’attribuzione del Regesto Sublacense della proprietà di civitas e castrum tuscolano al monastero di Subiaco, per inverare la quale furono addirittura falsificati in modo piuttosto grossolano documenti del 1015, come già nel 1902 hanno dimostrato gli studi di Pietro Egidi. Michel Parisse segnala la bolla del 25 gennaio 1051, dalla quale si comprende come il fedelissimo del papa tedesco Udone, già bibliotecario vaticano, riceva la nomina di vescovo a Toul, dove Leone IX stesso aveva esercitato tale incarico; al contempo, diventa nuovo bibliotecario e cancelliere il parente del papa Federico di Lorena, in seguito pontefice a sua volta con il nome di Stefano IX. Sempre nel 1051 il Sinodo di Roma, nel tentativo di normalizzare i costumi sessuali del clero, prescrive che le donne colpevoli di commercio sessuale con i preti siano condannate a perpetua schiavitù e offerte in dono alla basilica lateranense, ma la loro presenza è così numerosa che la Chiesa non è in grado di mantenerle. Mentre il Laterano da bordello si trasforma in ospedale, l’Urbe è rallegrata nel 1050 dalla visita di re Machbet di Scozia, che distribuisce generose elemosine. Nel 1051 Leone IX scomunica il vescovo Berengario di Tours, che nega la transustanziazione e la presenza di Cristo nell’Eucarestia; se si può osservare che il veleno forse introdottovi dai sicari di Benedetto IX era rimasto tale senza trasformarsi in null’altro, questo non risolve certo le complesse questioni sottese al dogma; ad ogni modo, il vescovo francese abiura la posizione nel Concilio di Tours del 1054.

Sulle questioni dell’ostia, contestando l’uso dei pani azzimi nella liturgia, interviene anche Cerulario, dal 1043 patriarca di Costantinopoli, che, dopo aver fatto chiudere e aver confiscato chiese latine, è fermamente interessato a regolamentare dottrina e poteri delle Chiese. La sua mano contribuisce ad una lettera inviata nel 1053 dal patriarca bulgaro Leone di Acrida al vescovo Giovanni di Trani nella Langobardia, territorio bizantino ma legato al culto latino. Cerulario accusa i latini di eresia e definisce «peccaminose e giudaiche»  le loro pratiche: oltre all’uso del pane azzimo, contesta il digiuno del sabato, il celibato dei preti e l’omissione dell’Alleluja nella Quaresima, e inoltre si ricollega alle tesi articolate nel secolo X dal patriarca Fozio sulla processione trinitaria dello Spirito Santo solo dal Padre e non anche dal Figlio, come invece prescrivono i cattolici nel filioque presente nel Credo. L’operazione di Cerulario, comunque possa venir considerata a livello teologico, comporta una delegittimazione radicale del potere latino e segna tanto un’innovazione e un riordino della tradizione orientale, quanto un’imitazione del primato romano. Leone IX non accetta nessuna discussione sulle posizioni cattoliche e contesta l’elezione stessa del patriarca.

Romani e Bizantini hanno approcci differenti alla religione, dimostrati da un’impressionante serie di concili che nei primi secoli della cristianità ne definiscono forme e pensiero. Per i Bizantini le questioni dottrinarie sono di pertinenza del concilio ecumenico, e quindi il papa non avrebbe diritto ad affermare la sua supremazia e a formulare dogmi; Roma, da parte sua, esprime una mentalità giuridica indispettita dalla speculazione teologica orientale. Cerulario manifesta maggiore capacità decisionale rispetto a quanta ne eserciti nello stesso periodo il vescovo di Roma, costretto nei confronti dell’autorità imperiale ad alternare la massima ribellione di Benedetto IX e l’estrema subordinazione di Leone IX. Mentre assume l’autorevolezza del papa e persegue un deciso piano di riforma, con la sua affermazione di totale autonomia distacca definitivamente il patriarcato da Roma e lo conduce all’autocefalismo; mentre tenta di svincolare il patriarca dalla tradizionale sudditanza al Basileus, riduce la portata del potere imperiale e lo costringe ad un lento declino. Le Chiese si sdoppiano e gli epiteti cattolico, che significa universale, e ortodosso, fedele al dogma, in linea teorica propri ad entrambe le entità ecclesiastiche, iniziano ora a differenziarle, seguendo una cesura impercettibile, ma gravida di decisive ripercussioni sulle asimmetrie dell’Eurasia.

Nel frattempo i gruppi Normanni stanno conquistando ampie zone del Meridione. Enrico III nel 1047 li ha investiti ufficialmente dei territori delle Puglie, in cui si sono diffusi a partire da Melfi, e fornisce loro ulteriore supporto cedendogli anche l’ex capitale longobarda Benevento; il papa rivendica la città e la annette nel 1051, l’imperatore gliela concede ma recupera piena autorità su Bamberga, donata alla Chiesa nel secolo X dall’imperatore Enrico I l’Uccellatore. L’anno successivo muore Bonifacio di Toscana: la vedova Beatrice sarà impalmata nel 1054 da Goffredo di Lorena, fratello dell’attuale bibliotecario ecclesiastico, e Goffredo dopo anni di lotte con l’imperatore ne riconosce l’autorità rafforzando tanto il clan lotaringio nella corte papale quanto il potere imperiale. Dopo aver raccolto alleati in Germania, Leone IX scomunica i Normanni e muove loro guerra, ma l’impresa non conosce buon esito. Infatti, il 18 giugno 1053 il papa è ferocemente sconfitto a Civitate e, per quanto i vincitori dopo averlo catturato bacino i suoi piedi in segno di rispetto, lo imprigionano per sette mesi e lo costringono a negoziare. Riccardo di Aversa e Roberto il Guiscardo accettando l’autorità feudale del pontefice ricevono sanzione giuridica delle loro conquiste.

Mentre sono in corso le trattative con i Normanni, Leone IX cerca di contrastarli ulteriormente prendendo accordi con i Bizantini e invia a Costantinopoli una missiva in cui racconta le proprie disavventure all’imperatore Costantino IX, chiedendogli tanto di concertare con l’imperatore Enrico III una spedizione contro i Normanni, quanto la restituzione di tutti i beni dell’Italia meridionale da effettuarsi in base alle disposizioni della Donazione di Costantino, e inoltre relativizza il ruolo del patriarca di Costantinopoli affermando di voler conservare ad Alessandria e Antiochia un posto privilegiato nella gerarchia delle Chiese. I Bizantini dimostrano l’avvenuto distacco verso l’Italia astenendosi dal partecipare al conflitto nel Meridione, dove attraverso il catepano barese Argiro, favorevole da parte sua a mantenere buoni rapporti con Roma e a latinizzare il culto, mantengono dominio sulla sola Bari.

Gettiamo uno sguardo nello sviluppo degli eventi. Nel 1071 Bisanzio perderà definitivamente Bari; l’idea di una possibile riunificazione delle Chiese è coltivata da Gregorio VII, che nel 1073 progetta la creazione di una lega antimusulmana. Se nel clima delle Crociate Bisanzio verrà attaccata e conquistata dai Veneziani nel 1204, il piano di riunificazione ecclesiastico troverà un esito parziale e discusso con la conversione del clero bizantino al cattolicesimo del 1439, che prelude alla caduta dell’Impero. Sempre nel 1071 nella città armena di Mantzikert l’imperatore Romano IV Diogene è sconfitto e catturato da Alp Arslãn, sultano dei Turchi Selgiughidi, alleatisi proprio vent’anni prima con il califfo di Baghdad per contrastare i Fatimidi di Egitto, sciiti e quindi considerati eretici; trattenuto dai Turchi per trattative, Romano è da questi soccorso nel momento in cui è contrastato dal suo stesso esercito. Tale paradossale situazione annuncia i cambiamenti decisivi che condurranno nel 1453 alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani, eredi effettivi dell’impianto teocratico bizantino.

Intanto, Roma e Bisanzio alla metà del Mille stanno giocando il  loro rapporto sulle posizioni di Cerulario. Nell’aprile 1054 giungono a Costantinopoli il cardinale Umberto di Silva Candida, nativo di Moyenmoutier, il cardinale Federico di Lorena e l’arcivescovo Pietro di Amalfi, consegnando una lettera che il patriarca per via dei sigilli manipolati considera inautentica e sospetta essere scritta da Argiro. Nel frattempo, il 19 di aprile, Leone IX muore poco più di un mese dopo il suo rilascio; non è chiaro se la delegazione abbia ricevuto notizia del suo decesso, e nemmeno se questo abbia potuto privare di rappresentatività i tre prelati, che continuano a soggiornare nella capitale perseverando nelle rimostranze. Umberto è autore di numerosi trattati che contrastano le tesi bizantine, di cui un esponente è il teologo Niceta Stetato, autore della critica sulla questione degli azzimi; il 24 giugno contro di lui il cardinale prevale in una disputa pubblica, ma Cerulario si oppone orgogliosamente alla risoluzione di una Corte approvata dall’imperatore stesso.

Sabato 16 luglio alle ore 15:00 i tre prelati depositano sull’altare maggiore di Santa Sofia la bolla di scomunica contro Cerulario, Leone di Ocrida e tutti i loro sostenitori, accusati di eresia rispetto alla negazione della doppia processione dello Spirito Santo (pneumatomachia), al matrimonio dei clerici (nicolaismo); inoltre, Cerulario è attaccato anche per sostenere l’autocastrazione (valesiismo), mentre al clero bizantino è rimproverato l’abuso di non aver comunicato i preti cattolici in quanto sbarbati. Nel prendere le distanze, i latini stabiliscono posizioni decisive per la definizione del proprio culto e, ottemperando ad un precetto evangelico, si vanno a pulire energicamente le scarpe sulla soglia della chiesa. Dopo due giorni lasciano la città. Arrivati a Salymbira sul Mar di Marmara, a settanta chilometri da Costantinopoli, sono richiamati dall’imperatore per un nuovo tentativo di mediazione, ma devono immediatamente fuggire per le sommosse popolari manovrate da Cerulario, il quale il 24 luglio convoca un sinodo in cui a nome di tutta la Chiesa orientale scomunica i legati pontifici, escludendo però ogni riferimento alla persona del papa. La maggior perdita di prestigio è a danno di Costantino IX, nemmeno lui coinvolto dalla scomunica, e le cui tendenze filolatine e unioniste avevano base nell’universalismo comune tanto all’autorità imperiale bizantina, quanto a quella ecclesiastica romana.

 

7. Le conseguenze di un divorzio

Come ha notato lo storico Vito Sibilio, lo scisma recide il legame dell’ecumenismo imperiale bizantino con la Chiesa di Roma, decidendone quindi l’estinzione: la corte non seppe imporsi sul patriarcato per la mancata consapevolezza delle effettive alternative e delle loro diverse conseguenze: o accettare l’incipiente riforma del papato e riconoscere marcatamente il primato, oppure rifiutarla per perseguire la piena indipendenza pur sacrificando l’universalismo politico. Se questa fu la risoluzione, di fatto il potere di Bisanzio cominciava ad essere eroso da diversi fenomeni pronti a dispiegarsi definitivamente: il formarsi dei nazionalismi, l’affermarsi dell’Impero tedesco, l’azione dei Normanni, la ierocrazia papale. Sibilio riconosce che, se la rottura permise alle due entità uno sviluppo separato decisamente florido, l’attuale esaurimento di ambedue renderebbe necessaria una nuova riunificazione capace di far confluire i risultati maturati in un millennio.

Tuttavia, la distinzione tra culti, oltre a non precludere affatto rapporti costruttivi, ha ragioni d’essere piuttosto radicate nei rispettivi contesti culturali, permettendo specificità preziose, per quanto opacizzate. Ad ogni modo, la soluzione sarebbe possibile nell’attuale clima di dialogo interconfessionale di cui uno dei precedenti è proprio nel sollevamento della scomunica effettuata dai legati papali nei confronti della Chiesa ortodossa, compiuta soltanto nel 1964 dal pontefice Paolo VI e riconosciuta da Atenagora patriarca di Costantinopoli. Tre anni dopo si verifica anche la riconsegna alla Turchia delle bandiere sottratte dalla flotta cristiana agli Ottomani dopo la battaglia di Lepanto del 1571, peraltro guidata da Marcantonio II Colonna, discendente dei Tuscolani. Queste azioni hanno coinvolto la giovane repubblica favorendone la riacquisizione delle glorie di passato imperiale particolarmente decisivo laddove la Turchia oggi ha recuperato un ruolo di mediazione delle rotte eurasiatiche che avrebbe possibilità di ampie aperture; il paese, a lungo rifiutato dall’ottusa stoltezza dell’Europa di Maastricht, si è rivolto verso un Oriente favorito dall’attuale fase di sviluppo economico. Nella nostra epoca così piatta e secolare, interessata solo a contare i soldi che non ha, assume particolare rilevanza politica l’intesa maturata verso il 2014 tra papa Francesco e il patriarca Bartolomeo, in particolare sintonia nell’idea di “custodire il creato”, previsto nella storica sede del patriarcato di Fanar, che mantenne la vitalità della fede ortodossa anche in epoca ottomana.

Nel secolo XI, senza che le tensioni dottrinarie compromettano i rapporti istituzionali, Leone IX si rivolge a Costantino IX sempre col titolo di Imperator, senza aggiungere nessuna specificazione e, nonostante lo scisma e le scomuniche reciproche, nel bienno a seguire anche Vittore II chiama Teodora Imperatrix Augusta, testimoniando quanto l’Universitatis dell’istituzione imperiale fosse riconosciuta dai pontefici romani; soltanto alla fine del secolo cambia il protocollo e l’imperatore bizantino viene qualificato dal papa di Roma con l’appellativo di Costantinopolitanus. In Oriente nessuno fornisce attenzione alcuna all’avvenuto scisma: Georg Ostrogorskj segnala che con questo divorzio quasi inavvertito si compie la separazione di due poteri ormai resi autonomi da una lunga deriva che ha permesso ad ognuno di loro di costruire la propria autorevolezza erodendo il prestigio del rivale. A livello culturale, la distanza è enorme: in Occidente l’ultimo teologo greco ad essere conosciuto è stato Giovanni Damasceno (VII sec.), l’ultimo mistico ad esercitare influenza Pseudo-Dionigi l’Areopagita (V sec.).

A Costantinopoli la permanenza del modello classico è in grado di alimentare una continua pre-rinascenza; inoltre, proprio in questo periodo la ricostituzione dell’università permette il formarsi di nuove competenze amministrative. Il cardine di questo fermento è Psello, il cui ampio insegnamento è impartito anche ad allievi arabi, persiani, etiopi e babilonesi, mentre in Occidente troverà diffusione per interessamento di Gemisto Pletone solo nel XV secolo. Psello, oltre ad essere un filosofo platonico, è anche un politico piuttosto spregiudicato che esprime decisa influenza a corte, ma come storico non salva nessuno dalla condanna. Il quadro più lucido della situazione è offerto da Cecaumeno, che denuncia la corruzione e l’immobilismo degli ultimi esponenti della casa macedone collocando con decisione proprio tra gli anni 1041 e 1054 le cause della «rovina e desolazione della basileia dei Romani».

L’11 gennaio 1055 muore Costantino IX e Cerulario prosegue il suo programma, nel quale all’indipendenza da Roma segue la riorganizzazione del rapporto tra Chiesa e Stato; egli si aspetta adeguata contropartita da Isacco I Comneno, il recalcitrante generale sollevato sugli scudi dal suo esercito e di cui nel I° settembre 1057 ha sostenuto l’incoronazione imperiale rompendo il lungo periodo di predominio dell’aristocrazia burocratica della capitale per aprire a quello dell’aristocrazia militare. L’imperatore si impegna ad astenersi da ogni ingerenza nelle questioni ecclesiastiche e concede al patriarca l’amministrazione di Santa Sofia: come nel modello occidentale, uno governa lo Stato e l’altro la Chiesa. Il tentativo di mantenere equilibrio delimitando le rispettive sfere di influenza fallisce perché in maniera simile nessuno rispetta gli accordi, e manca inoltre anche una teoria di riferimento che possa permettere al conflitto una capacità generativa. L’imperatore confisca le proprietà della Chiesa, il patriarca pretende che il potere spirituale domini su quello temporale. Per le sue rivendicazioni Cerulario si appella addirittura alla Donazione di Costantino, che influenza Bisanzio in una maniera del tutto inedita. Per sottolineare il carattere ardito delle pretese si racconta che, come nessuno mai nella storia, il patriarca oltraggi l’imperatore calzando le sue scarpe purpuree, le stesse del papa, minacciando anche di deporlo.

Sicuri del loro potere, alla fine della lotta entrambi cadono come vittime. All’inizio, la superiorità degli strumenti sembra favorire l’imperatore, ma Cerulario è protetto dalla popolarità di cui gode a Costantinopoli. L’8 novembre 1058, giorno in cui il calendario bizantino celebra la festa degli arcangeli, l’anziano patriarca è rapito fuori città dalla guardia imperiale ed è condotto in esilio, ma rifiuta di abdicare e si è quindi costretti a convocare un sinodo in provincia. L’accusa è redatta da Psello, che senza scrupolo alcuno lo accusa accanitamente di vizi ed eresie, ma Cerulario muore mentre il sinodo è in svolgimento costringendo il filosofo ciambellano ad un epitaffio dove lo esalta come campione di ortodossia e compendio di tutte le virtù. Ma non solo il rispetto dovuto ai morti salva la memoria del patriarca: diventato martire, è ancora più pericoloso che da vivo, e contro l’imperatore all’inimicizia della Chiesa e all’opposizione dell’aristocrazia cittadina si aggiunge anche il risentimento del popolo. Pertanto, il 22 novembre 1059 Isacco Comneno depone la porpora imperiale e si ritira in un monastero sul monte Athos, seguendo i consigli di Psello che riceve la nomina a primo ministro. Pur considerando le diversità di ufficio, vocazione e destino, l’enorme capacità politica e diplomatica che assimila Psello a Ildebrando permette alla loro ambizione di sfuggire al biasimo che anche presso i posteri circonda personaggi scomodi come Cerulario e Benedetto IX.

Nel settembre 1054 è presclelto come pontefice come Vittore II Gebardo vescovo di Eichstädt, un altro parente di Enrico III, consacrato ufficialmente solo dopo sette mesi; la sua richiesta di garanzie e tutela è risolta attribuendogli la nomina a vicario imperiale, e il suo primo incarico è quello di tenere sotto controllo Goffredo di Lorena. Il re toscano gioca d’anticipo e come diversivo torna a fare guerra in Lotaringia, ma l’imperatore giunge a Firenze e mette la regina Beatrice e sua figlia Matilde sotto tutela e ordina di arrestare al rientro da Costantinopoli il fratello di Goffredo, il cardinale Federico; questi prende gli ordini a Montecassino e si rifugia alle Tremiti. Il pontefice si reca in Germania per pianificare una nuova guerra contro i Normanni, ma Enrico III muore il 5 ottobre del 1055 mentre è impegnato a sedare una rivolta in Baviera, lasciando come erede un bambino di appena sei anni che porta il suo stesso nome. Il pontefice riesce nel compito obbligato ma difficile di pacificare le varie parti in lizza, mentre Ildebrando prosegue i piani di riforma agendo soprattutto in Francia.

Verso la fine del 1055, sopravvivendo di qualche mese a Leone IX, ad Enrico III e anche a Bartolomeo di Grottaferrata, muore Benedetto IX. Sappiamo infatti da preziose ricerche d’archivio compiute da Pietro Fedele che i quattro fratelli Teofilatto, Gregorio, Pietro e Ottaviano sono nominati in quest’ordine in una donazione di metà della chiesa di San Pancrazio (cum toto colle) compiuta il 18 settembre 1055 al monastero dei SS. Cosma e Damiano presso il Foro Romano; invece, mantenendo lo stesso ordine, gli ultimi tre ricorrono in una carta del 9 gennaio 1056 per cui è conferito un grande orto al monastero di S. Lorenzo vicino S. Maria Maggiore e sono disposte 40 messe annue in suffragio di Benedetto IX, che mantiene il titolo pontificale pure da morto. Si dice che Leone IX, prima di spirare già in odore di santità, pregò per la salvezza del rivale; da parte loro, i Tuscolani continuano ad esprimere la validità del travagliato pontificato di Benedetto IX e la volontà di dominio del particolarismo romano, ma anche se la loro potenza territoriale e dinastica è destinata a crescere ulteriormente stanno andando incontro alla loro fine irreversibile.

Federico di Lorena è nominato pontefice come Stefano IX per acclamazione popolare il 2 agosto 1058 e Ildebrando si reca in Germania a trattare la posizione del neoeletto con la regina Agnese. Il nuovo papa si reca in Toscana a consultarsi con il fratello Goffredo, ma muore avvelenato dai poteri romani, fermamente decisi a riprendere il controllo. Il 5 aprile Gregorio II di Tuscolo, Gerardo di Galeria e Ottaviano Crescenzio di Monticelli impongono sul soglio pontificio Giovanni Mincius vescovo di Velletri, un nipote di Benedetto IX, figlio della contessa Emilia e di Guido, del quale lo storico Gaetano Bossi ci segnala la possibile presenza nel sinodo romano del 1044 in qualità di vescovo di Labico; acclamato dal popolo, assume il significativo nome di Benedetto X (Chronica monasterii Casinensis). Per quanto considerato antipapa, egli esercita regolare attività amministrativa e costringe il gruppo dei riformatori a fuggire, prima a Benevento e poi in Toscana, dove in rispetto di un giuramento fatto a Stefano IX aspettano il ritorno di Ildebrando dalla Germania.

Pier Damiani, divenuto vescovo di Ostia e quindi istituzionalmente incaricato di compiere la consacrazione, si rifiuta di effettuarla; per blindare ogni possibile scelta, con una manovra priva di ogni ragione geografica, alla diocesi di Ostia è unita quella di Velletri, sulla cui area la potenza tuscolana è in crescita. Le manovre di Ildebrando e di Leone dei Pierleoni permettono di convincere alla loro causa i Trasteverini, mentre i Normanni di Riccardo di Capua assaltano e devastano Galeria dove Benedetto X si è rifugiato. Il 24 gennaio 1059 il cardinale Gerardo di Borgogna è nominato papa come Niccolo II; lo stesso anno con il Concilio di Melfi Roberto il Guiscardo diventa duca di Puglie e Calabrie e giura fedeltà; due anni dopo suo fratello Ruggero intraprende una battaglia trentennale per conquistare la Sicilia. Il Decretum in Nomine Domini coinvolge le elezioni pontificie lasciando alle pretese imperiali un generico diritto di considerazione e all’aristocrazia un debole diritto di preferenza nominale, per lasciare il potere al solo collegio cardinalizio. I laici e i proceres sono esclusi dall’azione pontificia, la cui elezione è sganciata dalla sede di Roma, l’antico apparato del Patriarchium lateranense viene sostituito dalla burocrazia della Curia, con il concetto di “diocesi suburbicaria” viene ridefinito anche il ruolo dell’episcopato locale. Il rapporto tra Regnum e Sacerdotium conosce ormai un nuovo assetto e sono definitivamente separate nelle idee e nella prassi la città e il papato, il Clerus Urbis e l’Ecclesia.

Nel 1061 Gerardo di Galeria cerca di mantenere l’autorevolezza della nobiltà romana alleandosi con il decenne Enrico IV e contro Alessandro II, eletto in autonomia dai cardinali, e quindi la corte imperiale eleva alla dignità papale come Cadalo II il vescovo di Parma, apostrofato anche lui da Pier Damiani secondo una formula dalla comprovata efficacia quale «voragine di libidine». Cadalo, lasciato senza protezione, si rifugia a Tuscolo dove riceve una delegazione del basileus bizantino Alessio I Comeno per un progetto di guerra contro i Normanni, e tenta per ben due volte di marciare su Roma. Ma è tempo di altri equilibri. Infatti, la reggenza tedesca con il concilio di Mantova del 1064 riconosce la legittimità della disposizioni di Ildebrando, portandoci alle porte della sua elezione come Gregorio VII del 1073 ed alla definitiva riforma della Chiesa. Nel 1074 è introdotto l’obbligo di castità per il clero secolare, l’anno successivo la proibizione nei confronti dell’autorità imperiale di compiere investiture religiose determina scomuniche e sospensioni per numerosi sacerdoti, e un lungo ed aspro conflitto con Enrico IV; lo stesso anno il Dictatus Papae stabilisce in primato assoluto del pontefice romano su ogni altra autorità.

Un’epoca trapassa e con lei muore un mondo intero: mentre inizia a sparire l’uso dell’antico formulario del Liber Diurnus, i rigidi assetti stabiliti degli imperatori tedeschi non saranno più osservati e ma più nessun tuscolano per quanto illustre salirà ancora al trono pontificio: come perfetti e inseparabili emblemi della coscienza infelice hegeliana, questi due alleati spesso destinati ad essere contendenti verranno superati per lasciare spazio ad altre figure. Tuttavia, nessuna realtà davvero “integra” sembra pronunciarsi su questa terra: nessuna “felicità”, e forse neanche nessuna “coscienza”. Peseranno a lungo su Italia e Germania le difficoltà di unificazione nazionale già evidenziate da Gioacchino Volpe, conoscendo in entrambi i paesi esiti disastrosi; inoltre, come ha notato Arnold Toymbe, nonostante la nobiltà delle intenzioni le conseguenze della riforma gregoriana saranno tragiche, portando «non la pace ma la spada», come rende palese anche il tremendo sacco di Roma compiuto dai Normanni che conclude ingloriosamente il pontificato di Gregorio VII. L’autoaffermazione della Chiesa comporterà un rinnovato senso del sacro ma anche elementi di fanatismo e repressione che oltre a coinvolgere aspetti delle Crociate e dell’Inquisizione saranno destinati a sclerotizzarsi nel tempo.

Nonostante alcuni estremismi forse inevitabili, il partito riformista si era ispirato alla razionalità e alla giustizia che rispondono alla vocazione universalista del cattolicesimo; le sfide contemporanee oggi sono diverse, e le stesse esigenze hanno di fronte a sé insorgenze neo-oscurantisme, laiciste o integraliste che siano, prive di prospettiva e articolazione, forti come soltanto l’ignoranza sa essere. Una cultura che ha, tra le sue componenti di origine, anche quella cattolica, per essere in grado di affrontare tali insorgenze deve necessariamente superare proprio alcune eredità istituzionali e antropologiche della riforma gregoriana, ormai obsolete laddove sembra che bigotti, speculatori, pedofili, baciapile e imbecilli presumono di avere il monopolio di un patrimonio millenario che data la loro ingombrante presenza ad altri potrebbe pure risultare desolatamente impoverito. Tutto ciò è risolvibile anche attraverso la ridefinizione dello stato clericale e di quello laico e dei loro reciproci rapporti, ed è questo uno dei motivi che rende interessante valutare quella convivenza di autorità politiche e religiose che ha avuto uno dei casi più emblematici nel “papato di famiglia” tuscolano, del quale possiamo considerare come valore positivo la spiccata integrazione tra gestione delle risorse, uffici e sacralità.

A livello territoriale le conseguenza negative dell’estromissione dei poteri romani dalla loro piena autorità continuano a scontarsi dove l’Urbe è palesemente incapace di congiungersi con coerenza al proprio ruolo di capitale e alla sua area complessiva. Roma è molte città e non riesce ad esserne nemmeno una, i Castelli Romani sono spezzati in identità stereotipate slegate anche tra loro, Tuscolo è una collina di radi ruderi trattata altalenando trascuratezza e feticismo, dalla quale possiamo godere il panorama di una metropoli infranta nel suo stesso cuore, incapace di riconoscere se stessa e costretta ad un perdurante provincialismo. Un destino piuttosto beffardo per la sede di una civiltà che oltre ad aver unificato il mondo antico è tuttora capace di far comprendere cosa sia il cosmopolitismo ad una globalizzazione perlopiù impegnata ad irretire ogni diversità in un becero livellamento.

Fermiamoci qui: di fronte ad un’aquila nera in campo rosso, lo stemma dei Conti di Tuscolo che sovrasta la pietra sepolcrale di Benedetto IX nella parete sinistra all’ingresso della chiesa di Santa Maria a Grottaferrata, dove nel XVII secolo ne fu ritrovata la tomba; se è dubbia persino la tradizione della sepoltura nel monastero, ultimo monumento tuscolano ad essersi trasmesso integro, Pier Damiani non fa mancare voci sull’apparizione del fantasma del pontefice: forse aleggia ancora, insieme a tutti gli altri che le colpe dei vivi continuano a mantenere sospesi. La lapide recita «Vendicatum Eius Pont. Nomen.» e alla destra un ritratto accompagnato dalla dicitura «Benefactor», sottraendo all’ignominia un nome che lascia dietro di sé una serie di problematiche mai adeguatamente chiarite: ma è difficile fare domande al passato e chiedere di un futuro quando non comprendiamo neanche i nostri tempi, perennemente penultimi.

RAGIONATA BIBLIOGRAFIA

Nell’elenco sono ordinate le principali opere su cui si dipanano le questioni attraversate da questo studio: testi e commentari religiosi essenziali, fonti primarie latine, tedesche, galliche, ispaniche e bizantine (ordinate per pertinenza e prossimità), bibliografia (con studi dal 1800 ad oggi). Oltre a molte pubblicazioni recenti, anche numerose fonti sono disponibili su web. La rete non è soltanto orizzontale.

 

TESTI E COMMENTARI RELIGIOSI

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Paolo DI TARSO, Seconda Lettera a Timoteo (anno 67).
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Pubblicato anche su: «Christianitas. Rivista di Storia, Pensiero e Cultura del Cristianesimo» n. 2. Riveduto.

Fotografia: Claudio Comandini, “Il cavallo di Marco Aurelio” – Roma febbraio 2013.

 

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