Declinazioni dell’autore

Responsabilità della scrittura. Pound e la produzione della letteratura. L’autore di fronte a Foucault, Derrida, Barthes, Dubois. Agamben e il gesto. Fare il libro. Ideazione e redazione. Labor limae, elocutio, pronunciatio, editing. Calvino: dalla parte di chi legge. Svevo, Montale e il ruolo dell’editore. Il problema della censura. Schopenauer e la precisione. Ferroni e la ricerca dell’essenziale. Perniola e l’orizzonte mondiale. Dubini e le moltiplicazioni del testo. La condivisione del sapere e l’invenzione dello scaldabagno.

 

Un autore è chi assume responsabilità verso la scrittura e risponde personalmente di un’opera, pur sciogliendola dal legame con sé. Può essere in grado si esercitare di una serie di influenze, rispetto alle quali risponde soltanto parzialmente. Anche a prescindere da riconoscimenti pubblici, compie un gesto che non si esaurisce nella sfera privata. Tale gesto, pur prendendo a paradigma la scrittura verbale, comprende anche quelle musicali e visuali, così come ogni tipo d’inscrizione, le cui specificità riguardano riflessioni di carattere tecnico-realizzativo.

Ezra Pound in ABC del leggere, prezioso anche in una società alla quale già ai tempi «la cura e la riverenza per il libro non si confà più», segnala alcune precise categorie di persone hanno prodotto quanto è chiamato letteratura:

1) Gli inventori: coloro che hanno scoperto un nuovo procedimento.
2) I classici: quelli che hanno combinato alcuni di questi procedimenti per farne impiego sagace.
3) I volgarizzatori: venuti dopo gli altri due e non altrettanto ben riusciti.
4) Scrittori notevoli, senza qualità eminenti: sufficientemente fortunati nel nascere in un momento di «fioritura» letteraria.
5) Scrittori di belle lettere: uomini che non inventarono nulla, pur accanendosi in uno specifico genere.
6) Gli iniziatori di mode: rispetto a costoro, il poeta non fornisce nessuna indicazione.

Aver nozione delle prime due categorie è quanto permette ad un lettore di «inoltrarsi in una foresta riuscendo a conoscere il bosco e non soltanto i singoli alberi»; chi le ignora, sarà incapace di fare una selezione tra le opere e così comprendere il valore di un testo, tanto se questo «rompe con le convenzioni», quanto se appartiene a quelle di qualche secolo precedente.

Un  lettore inesperto non potrà mai comprendere perché provoca fastidio al conoscitore quando tira fuori un «sorprendente» e stereotipato giudizio sulla propria «schiappa» (parola di Pound) preferita. Quanto tale evenienza debba essere tollerata in società è noto a chiunque frequenti i libri e le persone, ed è tuttavia più sopportabile rispetto all’odiosa circostanza di incontrare chi avendo appena leggiucchiato di qualcuno non solo pretende di spiegartelo, ma anche di correggerti, anche laddove dimostri di conoscerlo a fondo.

A coloro che sono privi di ricerche e analisi approfondite e sanno essere esenti da presunzione, il poeta lascia l’ironica raccomandazione di non accogliere le opinioni degli uomini che non hanno mai prodotto opere notevoli o di quelli che non hanno mai «corso il rischio» di pubblicare il proprio lavoro, seppur svolto seriamente. Tale categorie comprende anche la sottospecie di coloro che si astengono dal pubblicare, attualmente piuttosto a rischio, tanto per un diffuso protagonismo, convinto della propria indispensabilità proprio laddove è più stereotipato, tanto perché i tra gli usi aberranti della tecnologia c’è quello di aver permesso a perfetti analfabeti di infestare il mondo di parole. Cresce la diffusione degli strumenti di comunicazione, ma la dignità di pubblicazione sembra diventare un concetto obsoleto. Diventa così incerto se l’autore sia definitivamente sparito o se  ormai tutti siano ormai tali.

Il pensiero contemporaneo ha cercato in diversi modi di comprendere cosa definisca un autore. Foucault indica come «funzione-autore» un complesso di fenomeni indifferenti alla realtà storica di un’individualità empirica, connessi alla trasmissione culturale in modo che le opere non siano assoggettate a chi le compie. Derrida focalizza nella «scrittura» quale manifestazione del pensiero capace di lasciare «traccia», dove si esprime un’essenziale esperienza di coinvolgimento con il mondo, e che comprendo anche alcune forme orali. Barthes definisce il linguaggio letterario nella sua chiusura nei confronti del linguaggio parlato e nel suo riferirsi ad un «ordine ritualizzato di segni». Per Dubois tanto lo «scrivente» che opera in funzione extraletteraria, quanto lo «scrittore» interessato all’elaborazione stilistica, diventano autori laddove stabiliscono rapporti con contesti che definiscono se stessi con modalità di tipo «istituzionale».

Tali istanze possono essere fatte confluire nel gesto dell’autore. Con questo nome, Agamben affermata la necessità insormontabile di quella stessa identità che perde rilevanza nell’aprirsi dello spazio della scrittura, dove autore e lettore si mettono continuamente in gioco per restarvi inespressi all’infinito. Tale gesto definisce l’etica della scrittura contemporanea, permettendo l’irriducibile presenza del soggetto che proprio nella scrittura sparisce di continuo, aprendo al vuoto che rende possibile la lettura. Ogni autore celebra l’incontro impossibile con un linguaggio da lui prodotto eppure mai del tutto addomesticabile.

Per un lettore un libro è tale anche perché disponibile sul circuito librario e sul mercato: tuttavia, il tempo speso per comporlo o per assimilarlo conoscono altri criteri di misura rispetto all’atto di acquistarlo e al prezzo corrispostogli. Vanno comprese queste diverse realtà, il differenziale che le distanzia, i rapporti che le tengono insieme.

Se la letteratura è un prodotto storico, fare un libro è un lavoro che richiede il concorso di ruoli differenti. Tuttavia, questo non assolve un autore dal compito di realizzare un’opera: è lui il professionista, anche laddove le sue capacità possano richiedere puntelli. Al riguardo, ideazione e redazione costituiscono aspetti diversi; Leopardi e Nietzsche sono in differenti modi tra coloro che sanno brillare in entrambi. Ci sono così diversi modi per prendersi cura della parola.

Il labor limae del quale Petrarca era attento cultore e l’elocutio della retorica antica si precisano nell’editing; da sempre è opportuno sottoporre un testo ad un esame impersonale, nella forma più elementare attraverso la lettura ad alta voce, come tipico nel medioevo che legava la scrittura alla pronuntiatio. Tali accorgimenti consentono di comprendere le soluzioni effettive di cui un testo può essere suscettibile, che si precisano pure nello scartare quelle non appropriate ad uno specifico contesto discorsivo.

La scrittura è sempre plurale. Non tutti i narratori sanno sviluppare dialoghi e descrivere situazioni con pari abilità. Il verso libero ha un ritmo interno anche più sofisticato di quello organizzato secondo la metrica tradizionale. Mettere due parole in croce non è scrivere, essere un autore è un’altra cosa ancora. Pur se gli scrittori ignoranti vanno di moda, la scrittura ridotta a sfogo interessa poco anche chi ci perde il proprio tempo. Aspetti tecnici imprescindibili riguardano lo stesso afferrare una penna o digitare su una tastiera, e ci sono anche altre esigenze di cui tenere conto.

Calvino consigliava di mettersi dalla parte di chi legge, pensando ne sappia sempre di più di te che scrivi, giocare al rialzo e «sapersi leggere», con distacco e partecipazione. Pur considerando che nelle attuali condizioni non è più possibile associare lavoro di scrittura con quello editoriale secondo i modello più blasonati, considerare forme di autoediting è inevitabile laddove, in rete come altrove, si è editori di se stessi in molti modi.

Il carteggio Svevo – Montale, dove il primo ricorda che ci si può occupare di letteratura anche lavorando nell’industria olearia o in quella del pellame, segnala che la relazione scrittore-editore è problematica da tempo. Tuttavia, scrittura ed editoria costituiscono fasi imprescindibili di un lavoro culturale complessivo: la prima rappresenta l’elaborazione stilistica di un pensiero, la seconda indica l’assunzione di responsabilità nel renderlo pubblico. Un autore è inevitabilmente coinvolto dalle esigenze concrete di una pubblicazione e dai servizi specifici dell’attività editoriale quali inserimento in una collana, promozione e distribuzione.

Questi rapporti sono ulteriormente complicati da diversi fattori. Infatti, se una casa editrice è ormai condizionata dalla propria collocazione di mercato più di quanto lo sia da questioni di carattere intellettuale, l’imporsi della tecnologia digitale ha rivoluzionato definitivamente gli assetti in maniera profonda e decisiva. Se leggere, scrivere e pubblicare fanno ormai parte di un’esperienza diffusa, la scrittura sembra destituita d’autorevolezza negli stessi ambiti in cui tradizionalmente è esercitata. Infatti, se ormai tutti scrivono, per quanto spesso in maniera approssimativa, ed è ormai possibile pubblicare con un semplice click, spesso si affrontano questioni che richiedono studi severi come fossero semplice passatempo, e sembra sempre più difficile leggere con la dovuta concentrazione .

La situazione è caratterizzata da forti ambiguità. Nonostante la crescente differenziazione dei prodotti editoriali, il mercato librario mantiene difficoltà di fare cassa. Prevale il doping editoriale che impone best-seller spesso di dubbio valore, eppure non mancano mai documenti ed elaborati apprezzabili. Le reti telematiche determinano una disponibilità sterminata di materiali, spesso eccellenti e preziosi, ma troppe volte prevale l’autopubblicazione selvaggia priva di ogni minima decenza.

I pochi scrittori che hanno piena visibilità si contendono un numero di lettori limitato e quasi in overdose, l’autorevolezza o non è riconosciuta quale criterio di garanzia oppure si degrada a divismo e feticismo. Anche rincorrere l’impegno sociale e denunce di tipo politico si riduce a luogo comune laddove le ragioni restano legate a retoriche diffuse, senza essere tematizzate adeguatamente nello stile. Parallelamente, si affermano nuove forme di censura.

La censura è il divieto di affrontare argomenti e trarre conclusioni non conformi ai canoni dominanti. Agisce preventivamente, spesso con meccanismi inconsci, ma la sua influenza non deve nemmeno essere assolutizzata, laddove può essere dribblata senza troppa difficoltà dagli autori capaci, e anzi secondo J. Rodolfo Wilcock le «potatura» che comporta, per gli scrittori provvisti di idee, non rappresentano affatto un problema.

La censura può essere particolarmente vincolante dove, come in Italia, non esiste per effetto di una disposizione giuridica vigente dai tempi del fascismo un’opera senza autore. La sua influenza si pone su un altro ordine rispetto a criteri quali competenza, selezione e rigore, capaci di favorire chiunque abbia un concetto minimo della decenza culturale, temuti soltanto dagli scriventi sprovveduti in vena di autoincensamenti, oppure da chi crede che scrivere sia l’equivalente in segni grafici di aprire bocca e dargli fiato.

La situazione attuale può portare il lettore a smarrire la cognizione dei diversi livelli di scrittura possibili, rendendolo così complice del proprio stesso raggiro. Inoltre, un autore sembra inevitabilmente costretto a commisurarsi con forme di barbarie che ne costringono il lavoro a confondersi con l’immenso archivio dell’inutile. Può così tornare utile una distinzione operata da Schopenhauer tra lo scrivere tanto per scrivere, con pensieri intesi a metà, e lo scrivere intento a comunicare degnamente idee ed esperienze, con il massimo di precisione possibile. Questo riguarda anche ogni denuncia che legittimamente siamo in grado di fare: l’opposto di censura non è calunnia.

Nel confronto con il caos comunicativo, se davvero la scrittura è spazio dell’alterità, occorre permettergli la dovuta consistenza, anche nel più piccolo gesto. Suggerisce Ferroni di evitare di chiudersi in soddisfazioni narcisistiche: piuttosto, rilanciare la sfida di una condivisione di responsabilità. Tali responsabilità, come indica Perniola, possono trovare diverse forme: se le condizioni materiali portano spesso gli editori a relegarsi in contesti locali, uno scrittore è condotto dalla rete ad allargare la propria portata ad un orizzonte mondiale. In questo modo, può acquisire una rinnovata forza contrattuale e un maggiore peso specifico. Chiaramente, occorre misurare adeguatamente le forze.

I cambiamenti introdotti dal digitale hanno una portata superiore rispetto a quelli introdotti dall’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg che portò alla nascita del libro moderno e di quello che McLuhan chiama l’«uomo tipografico». La scrittura si declina così in modi che portano oltre la pagina tradizionale, andando incontro a nuove esigenze di elaborazione e fruizione. Segnala Paola Dubini che se «i libri sono oggetti che generano storie […] la presenza di supporti alternativi alla carta consente un ampliamento delle configurazioni possibili del testo.» I confini dell’editoria si dilatano soddisfacendo differenti bisogni di elaborazione e fruizione, l’economia del libri è sottoposta ad un generale ripensamento ma non nega affatto il valore del libro.

Siamo all’inizio di una storia nuova, ed è necessario prendere atto dei cambiamenti e procedere, senza cadere nella nostalgia del decrepito o nell’esaltazione dell’inconsistente. Le condizioni di diffusione culturale che ci hanno preceduto sono ormai obsolete e ogni richiamo all’ordine che ignori portata e influenza dei nuovi paradigmi è tempo perso e rischia di restare del tutto incompreso; tuttavia, credere che l’uso del web comporti automaticamente la condivisione del sapere è un po’ come scambiare l’invenzione dello scaldabagno con la scoperta dell’acqua calda. Piuttosto, ognuno è tenuto a distinguere tra la disponibilità alla scrittura e il suo abuso.

RIFERIMENTI

Giorgio Agamben, L’autore come gesto, in Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005.
Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, (1953-1972), Einaudi, Torino 1982.
Italo Calvino, Lezioni americane (1988), Mondadori, Milano 2002.
Jacques Derrida, Posizioni (1972), Ombre Corte, Verona 1999.
Jacques Dubois, La letteratura come istituzione (1978), 4venti, Urbino 1980.
Paola Dubini, Voltare pagina? Le trasformazioni del libro e dell’editoria, Pearson, Milano-Torino 2013.
Giulio Ferroni, Scritture a perdere, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 110.
Michel Foucault, Che cos’è un autore? in Scritti letterari (1962-1969) Feltrinelli, Milano 2010.
Mario Perniola, Ciò che uno scrittore di saggi può insegnare ad un editore indipendente, «Il Manifesto» 5.12.2008, Supplemento.  
Ezra Pound, ABC del leggere (1934-1951), Garzanti, Milano 1974.
Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg (1962), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006.
Oliviero Ponte di Pino, I mestieri del libro, TEA, Milano 20093.
J. Rodolfo Wilcok, Aspettando la censura, in Il reato di scrivere, Adelphi, Milano 2009.
Arthur Schopenahuer, Sul mestiere dello scrittore e dello stile (1851), Adelphi, Milano 1993.
Italo Svevo – Eugenio Montale, Carteggio – con gli scritti di Montale su Svevo. A cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1976.

Fotografia: Claudio Comandini, “Autore” – Firenze, maggio 2008.

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