Comunicare è vivere?

La comunicazione ieri e oggi. Habermas e la comunicazione sociale. Perniola e la critica della comunicazione. La desessualizzazione nel fascismo e nella pornografia. Gandhi e il Duce: usi pubblicitari e improbabilità storiche. Psicologia sociale e marketing tra Le Bon, Freud, Berneys. L’inconscio in Lacan. Nevrosi e psicosi. Democrazia e manipolazione.

 

L’attuale velocità e diffusione delle informazioni non permettono che la parola comunicazione mantenga il significato che le sarebbe proprio secondo la linguistica, secondo la quale un’informazione è trasmessa da un emittente ad un ricevente: infatti, i media elettronici hanno determinato un’articolazione delle comunicazioni di massa per la quale queste vengono ad indicare in maniera esemplare le trasformazioni introdotte nella nostra cultura dalla tecnologia. Ed è forse un paradosso, eppure con “comunicazione” non si può più indicare l’espressione verbale chiara ed efficace in rapporto esemplare con il reale e il vero, con quella connotazione etica che poteva avere nella retorica e nell’oratoria dei classici. [1] La nozione ha di fatto acquisito altri sensi, particolarmente collegati agli aspetti visivi ed emotivi dei messaggi ad ampia modalità di diffusione; inoltre, con la crescita delle reti telematiche tende a decadere la distinzione tra emittente e ricevente, ponendo così nuovi compiti e nuove problematiche ad un pensiero critico.

I mass media si sviluppano all’interno dei sistemi capitalistici avanzati, e una critica a questi che attribuisce alla «comunicazione sociale» il ruolo di affrontare con modalità discorsive le loro pretese normative è svolta Jürgen Habermas. Laddove l’«agire comunicativo» esprime l’esigenza di comprensione reciproca, ogni discussione che riguarda la sfera collettiva rappresenta un aspetto dell’impegno politico; ne consegue così che tanto la credenza personale quanto il consenso pubblico sono giustificabili razionalmente. Pur sussistendo una crisi della legittimità dei meccanismi elettorali e delle altre forme di partecipazione popolare, stabilite da poteri monopolistici, [2] aspetti quali manipolazione, mistificazione e menzogna per Habermas costituiscono semplici perturbazioni, laddove il processo democratico e l’opinione pubblica sono capaci di promuovere negli individui quel tipo di emancipazione che può portarli a vivere in prima persona l’interdipendenza di autoscienza e libertà. [3]

Tuttavia, sembrerebbe che nell’enorme influenza della comunicazione elementi quali azione e comprensione non siano affatto così decisivi. Mario Perniola ne analizza modalità nel sapere e nel potere, verificandone l’inconsistenza e l’arroganza, e demistificandone le pretese di democrazia. Infatti, la comunicazione, scavalcando e ridicolizzando ogni forma di mediazione autorevole in nome di un vitalismo autoreferenziale banalizzante, trasforma l’incapacità e l’inconcludenza in virtù, dissolve i contenuti e rende impraticabile la conoscenza. Questa imbecillità trionfalistica e farneticante rappresenta il clima culturale prevalente della nostra epoca. Approfondiamo le argomentazioni di Perniola rispetto all’enorme diffusione della pornografia, che peraltro smentisce la previsione orwelliana dell’esistenza di «crimini sessuali» legati alle forme del potere contemporaneo.

La pornografia via Internet sembra infatti negare il carattere plastico e fluido della sessualità e ogni tensione erotica, non avendo alcun valore emancipatorio: tale desessualizzazione, a differenza di quella fascista, non rimuove le pulsioni sessuali per manifestarle in maniera deviata e nevrotica, ma rimuove la realtà tutta, per votarsi ad un’insensatezza generalizzata di tipo psicotico. La comunicazione procede con impudenza pornografica ma è frigida, la sua apparente leggerezza sembra contrapporsi alla rigidità fascista ma dimostra un’arroganza assoluta nel proibire ogni determinazione alle idee, permettendosi di dire di tutto, a condizione però di poter poi negare tutto ciò che afferma. [4]

Le pulsioni che agitano la comunicazione possono quindi manifestarsi disinvoltamente in varie promiscuità, per le quali si può essere comunicatori e fascisti, fascisti e contestatori, contestatori e comunicatori, contestatori, comunicatori e fascisti, non dire niente in ogni caso ma aver sempre qualcosa da pronunciare, presenziando di continuo a riunioni ed assemblee, forum e discussioni virtuali, insomma in circostanze di massa di ogni tipo. Piuttosto indicativo, un manifesto della Telecom Italia di diverso tempo fa, dal titolo Comunicare è vivere, ritraeva un’enorme massa di gente raccolta a vedere Gandhi parlare da uno schermo gigante; questa campagna poteva essere confrontata con una serie di manifesti più piccoli e dall’evidente fattura clandestina, apparsi poco dopo sui muri di Roma, che, rispetto a questa medesima scena, presentavano Mussolini al posto di Gandhi. Senza alcuna intenzione satirica, identica era anche la didascalia: «Se avesse potuto comunicare così, che mondo sarebbe oggi?»

L’aspetto inquietante di tale esaltazione dell’immagine del Duce è che sembrerebbe più prossima alle condizioni del mondo della comunicazione di quella di Gandhi, dal canto suo maggiormente associabile a concrete pratiche di vita che includono concetti quali meditazione, consapevolezza e non violenza attiva, di certo non implicati nel semplice atto di vedere la televisione con una massa di gente in adunata. Piuttosto, la circostanza descritta dai manifesti sembra indubbiamente favorire un’adesione fanatica, inconciliabile con qualsiasi forma di disobbedienza civile gandhiana; per di più, il tipo di interattività che può discendere da uno schermo vanifica in maniera determinante le stesse condizioni di giustificabilità razionale secondo le quali verrebbe a formularsi quella partecipazione responsabile a cui fa riferimento Habermas.

La comunicazione ci investe di opinioni precondizionate, decise in maniera inappellabile: non c’è scelta possibile di fronte allo schermo televisivo, nemmeno – come nel fuorviante e interessato suggerimento spesso ripetuto a suo tempo da Maurizio Costanzo – con un telecomando in mano.

Il mondo di cui abbiamo esperienza oggi sembra dimostrare in maniera sempre più insistente che, dietro l’apparente democrazia dei mezzi di comunicazione di massa, ci sia una forte dose di condizionamento psicologico, che impone subdolamente interessi, forse non totalitaristici, ma comunque decisi dal capitale monopolistico dominato dalle multinazionali, in modo tale da determinare mentalità e abitudini piuttosto docili rispetto ai giochi e agli interessi del potere.

Tutto ciò accade in maniera molto diretta, sfrondando per di più il confine tra totalitarismo e monopoli, quando alcuni concetti della psicoanalisi di Sigmund Freud sono adattati dall’ambito terapeutico a quello “comunicativo” e di marketing proprio da uno dei suoi nipoti, Edward L. Bernays, influenzato anche da alcune idee della Psycologie des foules di Gustav Le Bon, a sua volta apprezzato tanto da Freud quanto da Mussolini.

Per Le Bon la logica delle masse è dominata da associazioni di «cose dissimili prive di rapporti apparenti e generalizzazioni immediate di casi particolari», che favoriscono un’immaginazione figurativa lontana da ogni spirito critico, piuttosto incline alla regressione a stadi infantili e primitivi. [5] Freud, pur riscontrando in Le Bon l’assenza dello studio del rimosso, e una certa fragilità delle tesi relative al ruolo dei leader, ne apprezzò ampiamente la descrizione dell’anima collettiva, per cui «la folla è un gregge incapace di vivere senza un padrone.» [6] Da parte sua, Bernays non si limitò ad elaborazioni teoriche, ma utilizzò queste e altre idee per svolgere negli Stati Uniti un’ampia attività, che permette di comprendere come, già da tempi non sospetti, nel mondo dell’informazione gli interessi economici e finanziari svolgano un decisivo ruolo politico.

Cerchiamo di capire in quale modo nel mondo della comunicazione le teorie psicologiche più delicate siano rese funzionali alla logica del profitto con efficaci e sconcertanti applicazioni, ovviamente non per aiutare le persone, ma per manipolarle. Laddove Freud sostiene che la funzione sintetica dell’io è suscettibile di particolari disturbi, non si fatica a comprendere come le continue sollecitazioni a cui qualunque consumatore è sottoposto provocano un processo di difesa simile al meccanismo di «scissione dell’io» (Ich-spaltung) della schizofrenia.

Infatti, «un conflitto tra pretesa della pulsione e obiezione della realtà» si stabilisce rispetto all’acquisto laddove si permette che ogni possibile compera non sia passibile di proibizione: ciò ci rende eterni poppanti costretti per godere dei beni di consumo a spendere anche i soldi che non abbiamo, rifiutando disinvoltamente il principio di realtà secondo cui tutte le risorse sono inevitabilmente limitate. Da ciò deriva la formazione di compromesso secondo cui una realtà è riconosciuta come «pericolo» dal quale occorre proteggersi, determinando così una lacerazione destinata ad approfondirsi: [7] questo è esattamente quanto succede quando si va a fare uno shopping particolarmente selvaggio.

Alle tensioni opposte di riconoscimento e negazione (Verleugnung) Freud riconduce anche il feticismo: se nel caso più tipico un oggetto dotato di un particolare investimento libidico sostituisce la fantasia infantile del pene materno, anche in casi non patologici l’inconscio agisce salvaguardando dall’estinzione il fatto negato e garantendosi così la sopravvivenza; seguendo tale dinamica, i «feticci» offerti dalla pubblicità forniscono un significato che permette appunto di salvaguardare se stesso. [8] Infatti, un qualsiasi feticcio che in qualche modo siamo costretti ad acquistare determina non tanto l’immagine dell’oggetto, quanto quella del consumatore, la dinamica si ricollega al fenomeno del narcisismo, come osservato ancora una volta da Perniola. [9] Sostanzialmente, l’acquisto è capace di confermare il livello di autoaccettazione che siamo indotti a tollerare dal disprezzo di noi stessi alimentato dai contenuti della pubblicità.

Bernays riceve il primo incarico come spin doctor da parte del Consiglio per l’informazione al pubblico del governo degli USA per influenzare l’opinione pubblica e promuovere la Prima guerra mondiale con l’obiettivo, ancora piuttosto attuale, di “Fare il Mondo Sicuro per la Democrazia”. Acquista inoltre enorme influenza organizzando nel 1925 la Marcia Pasquale di New York per i diritti delle donne fumatrici. Nei decenni successivi elabora il concetto secondo cui le masse sono influenzabili dai messaggi ripetuti di continuo.

Tra i suoi clienti, colossi come Philip Morris, Goodyear, Ciba Geigy, DuPont, General Motors, Shell Oil, Standard Oil. Ai prodotti è conferita credibilità attraverso una profusione di comunicati stampa sfornati da agenzie apparentemente scientifiche e indipendenti, quali: Air Hygiene Foundation, Alliance for Better Foods, American Council on Science and Health, Cato Institute, Consumer Alert, Global Climate Coalition, Industrial Health Federation, International Food Information Council, Manhattan Institute, Temperature Research Foundation, The Advancement of Sound Science Coalition, Tobacco Institute Research. Tale procedura è ancora oggi ampiamente praticata con il dovuto zelo dalle agenzie di comunicazione e dagli uffici stampa di ogni settore e orientamento.

Mentre il ministro della propaganda nazista Goebbels legge con interesse gli studi di Barneys, nascono dozzine di società di Public Relations per soddisfare la crescente domanda. Fra queste: Burson-Marsteller, Edelman, Hill & Knowlton, Kamer & Singer, Ketchum, Mongovin, Biscoe & Duchin, Ruder & Finn. Figlie dell’industria e famose a livello mondiale, le migliori tra loro agiscono in incognito, influenzando per decenni la formazione delle opinioni prevalenti, esprimendosi su ogni questione con il più remoto valore commerciale: prodotti farmaceutici, vaccini, ricerca e trattamento del cancro, amalgama dentale, professione medica, medicina alternativa, introduzione del fluoro nell’acqua pubblica, aspartame, lavorazione e additivi dei cibi, cibi geneticamente modificati, cloro, prodotti per la pulizia, tabacco, diossina, additivi al piombo nella benzina, aumento della temperatura del globo terrestre, inquinamento degli oceani, taglio delle foreste, monitoraggio di disastri, crisi e guerre, immagini di personaggi celebri. [10]

La capacità di una società di risolvere i propri problemi è notevolmente ridotta laddove sussista l’interesse a manipolare questioni chiave quali guerra ed economia, coinvolgendo le masse a prescindere da orientamenti e logiche e agendo con decisione proprio laddove le questioni in ballo sono più difficili. Un caso particolarmente delicato è offerto dal profondo trauma provocato sulla psiche collettiva dall’11 settembre, dove peraltro, e indipendentemente dall’ipotesi su chi ne abbia responsabilità effettiva, date e stragi e simili sono estremamente conformi al criterio di fornire «un’immagine impressionante e precisa […] arricchita magari da un qualche fatto meraviglioso» di cui parla proprio Le Bon. [11]

In accordo con quanto asserito da Bernays, casi mediatici, lettere ai giornali, articoli d’informazione relativi alle guerre globali scatenatesi con il terribile attentato sono stati in larga parte letteralmente creati a tavolino da un centro di produzione di materiale propagandistico, l’OSI, Office of Strategic Influence, del quale il ministro della guerra Rumsfeld aveva altissima opinione. [12] Il problema è però che non se ne possono controllare integralmente gli effetti, e costituiscono casi altrettanto gravi di patologie indotte tanto chi crede a tutto quello che gli si dice, quanto chi si inventano le cose, e ambedue costituiscono una folla enorme.

A detta di Bernays, l’evenienza di un controllo sociale è assolutamente necessaria, e la piccola élite che domina le masse e ne comprende i processi mentali e gli schemi sociali è legittimata ad orientarne anche il voto, i cui esiti altrimenti sarebbero puramente confusionari. Il gregge ha sempre bisogno di una guida, e deve essere ben disposto verso la classe dirigente, che può raggiungere la massima efficacia quando il suo controllo agisce senza che il gregge lo sappia. Il caos sociale deve necessariamente essere organizzato, e il conflitto presente in una società democratica sempre più complessa può essere superato soltanto grazie ad una «intelligente manipolazione» dell’opinione pubblica. Bernays al riguardo offre ampi strumenti, nella persuasione che nel futuro la competizione non sarà tra prodotti singoli e grandi aziende, ma proprio fra pura e semplice propaganda. [13]

Di tutto ciò spesso l’individuo irresponsabilmente non se ne cura, mentre al gregge piace ampiamente, portando all’irrigidimento delle nevrosi sociali e individuali in psicosi. Se la nevrosi è un disturbo che rappresenta il compromesso tra desiderio e difesa, in cui però è mantenuta relazione con la realtà esterna, la psicosi si definisce per una deformazione della percezione e del rapporto cognitivo per la quale viene a mancare proprio tale relazione. Sono da considerarsi manifestazioni psicotiche la disgregazione della personalità e la regressione del comportamento, il vuoto affettivo quanto la sua ipertrofia, il disadattamento sociale, le allucinazioni e i deliri, le alterazioni logico-linguistiche che possono comprendere lo stesso assorbimento nelle forme stereotipate della comunicazione mediatica. La mancanza di consapevolezza della patologia da parte di chi ne soffre rende particolarmente complesso l’intervento terapeutico.

Le condizioni della società della comunicazione offrono sintomi di profondi mutamenti nel funzionamento della psiche, che chiamano in causa l’approfondimento terminologico, concettuale e operativo della psicoanalisi elaborato da Jacques Lacan, proprio dove salta l’opposizione duale tra conscio ed inconscio, e questo «non lascia fuori del suo campo nessuna delle nostre azioni.» [14] Come annota l’attento lacaniano Slavoj Žižek, l’inconscio non è una selva da addomesticare, ma «il luogo dove una verità traumatica rivela la propria voce», e Lacan conferisce alle formazioni patologiche la capacità di far comprendere come una «realtà» si costituisca. [15] Si apre quindi il confronto con la mediazione di un linguaggio intersoggettivo chiamato «ordine simbolico», per cui, con un occhio alla linguistica di De Sassure, rispetto ai «significati» assumono maggiore importanza i «significanti», privi di un significato univoco e fisso: in pratica, come si parla è maggiormente decisivo di ciò che si dice.

Anche il più mediocre pubblicitario può sottoscrivere entusiasticamente tale evenienza, senza però rendersi conto di dove può andare a parare, rimuovendone quanto possibile effetti e cause, e persino lo stesso ruolo dell’inconscio. Come segnala Massimo Recalcati, un lacaniano particolarmente abile nel districare argomentazioni complesse, l’inconscio viene praticamente «disabbonato» laddove ci si ingessa in identificazioni conformiste, in chiusure narcisistiche assolute, in «godimenti» autistici nelle quali la riproduzione dello Stesso prende il posto dell’incontro con l’Altro. [16]

Ed è proprio Freud a ricordarci che il rimosso si manifesta esattamente nella sua negazione, rendendoci superficialmente indipendenti dagli effetti di ciò che viene negato: seguendo tale dinamica, si può dire tutto e il contrario di tutto non considerando eventuali conseguenze, e questo è proprio quello che ordinariamente accade, ovunque. Un contagioso delirio di negazione contribuisce, secondo le parole di Freud, ad un’oscillazione tra la nevrosi, con la quale l’io si mette al servizio della realtà reprimendo l’inconscio, alla psicosi, con cui ci si lascia trascinare dall’inconscio distaccando l’io dalla realtà. [17]

In tale oscillazione, le cose sembrano familiari, ma non lo sono, producendo uno spaesamento (Unheimliche) che porta a ripetere un trauma secondo una temporalità ciclico-ripetitiva diversa da quella lineare regolata dai principi di causa ed effetto. [18] E quando la coazione a ripetere diventa collettiva accade che proprio dal fondo dell’ambito sociale agisce un tempo differente da quello stabilito dai rapporti causali, ordinariamente considerati alla base del modello democratico, producendo così ulteriore spaesamento.

Tale condizione diffusa è in grado di vanificare alla base non solo ogni azione rivoluzionaria reale e decisiva, ma anche ogni tentativo di ordinaria ragionevolezza, ponendo più di qualche problema alle pur generose idee di Habermas su agire comunicativo e comprensione reciproca, facendoci comprendere la puntualità e la potata delle osservazioni di Perniola sulla comunicazione, nonché l’attualità delle idee della psicoanalisi, disciplina troppo spesso considerata superata dai tanti che avrebbero quantomeno bisogno di conoscerla meglio.

Attuali sono anche le parole di Bernays: «quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla. Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare. Questo è il logico risultato del modo in cui la nostra società democratica è organizzata.» [19]

Circondati da un pensiero dominante che sembra democratico ma procede con un altro passo, l’immagine pubblica e pubblicitaria della democrazia permette di negare che propria la sua concreta esperienza ne stia minando i fondamenti e l’affidabilità.

Comunicare è vivere. Ma cos’è comunicare”, e cos’è vivere?

[1] Marco Tullio Cicerone, L’arte di comunicare (antologia dalle opere De Oratore, De Inventione, Orator, Brutus, I sec. A.C.), introduzione di Paolo Marsich, Mondadori, Milano 2007, pp. 9, 87.

[2] Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, (1962), Laterza, Roma-Bari 2002, passim.

[3] Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e Derrida, Laterza, Bari-Roma 2003, pp. 51-71.

[4] Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, pp. 28-36, passim.

[5] Gustav Le Bon, Psicologia delle folle (1895), TEA, Milano 2004, pp. 93 95 – 81, passim.

[6] Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), Tascabili Economici Newton, Roma 1995, pp. 19-27.

[7] Sigmund Freud, Il Feticismo (1927), in La negazione e altri scritti teorici, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 80.

[8] Ibid, pp. 72-76.

[9] Mario Perniola, La società dei simulacri (1980), Cappelli, Bologna 1983, pp. 137-41.

[10] Michael Johnson, Edward Bernays, the Father of the Public Relations, 22.11.2010.

[11] Gustav Le Bon, cit., p. 97.

[12] Martin Howard, Sappiamo cosa vuoi, Minimum Fax, Roma 2005, p. 96.

[13] Edward L. Bernays, Propaganda, Horace Liveright, New York 1928, pp. 9-12, 84.

[14] Jacques Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti (1966), Einaudi, Torino 1974, p. 509.

[15] Slavoj Žižek, Leggere Lacan (2006), Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 26-27.

[16] Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaelo Cortina Editore, Milano 2010, passim.

[17] Sigmund Freud, La negazione (1925), in La negazione e altri scritti teorici, cit., pp. 64-69.

[18] Sigmund Freud, Il perturbante (1919) in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 267-310.

[19] Edward L. Bernays, cit., p. 9.

Prima pubblicazione: «Controluce» a. XIV n. 2, Febbraio 2005. Riveduto, corretto e ampliato.
Fotografia: Claudio Comandini, “In/comunicazione” – Berlino, gennaio 2006.

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