Charlie Hebdo e la satira integrale

Morire dal ridere. Integralismo e satira. Testi sacri e informazione. Contestazione e industria culturale. Riviste islamiche e cultura francese durante la guerra in Algeria. Testate in conflitto e cultura assente nell’Italia odierna. Intolleranze parallele. Attualità del pensiero andaluso. Donne velate e bestie macellate. Impero Romano e Alessandro Magno nel Corano. Conflitti e accordi tra Islam ed Europa. Dissolvenze ottomane. Soumission e punk islam. Ebraismo e ironia dell’esistere. Cristo spiegato agli arabi di Gerusalemme. Scontri di civiltà e scambi di culture. Orientalismi e terzomondismi. La religione del capitale. Il Sessantotto tra rivoluzione e svendita. I cambiamenti della natura del potere. I limiti delle teorie del complotto e la necessaria riforma dell’intelligence. Nuovi terrorismi e nuova Europa. Islam di pace e ospitalità incondizionale. Risolvere la crisi contro i suoi stereotipi. Sovvertire se stessi e vivere ridendo.

 

1. Les opinions auxquelles nous ne pouvons pas échapper

Immaginatevi una banda di chierichetti pisani che irrompono nella sede de Il Vernacoliere colmi d’indignazione verso il fetentissimo Troio, mina vagante contro i valori della famiglia, l’oltraggioso Don Zeucher, pazzo criminale in abito talare, e altri personaggi dell’irriverente rivista, che per il divertimento d’autori e lettori raffigura spesso i vizi sociali in personaggi capaci di trombarsi schifosamente qualsiasi cosa non sia morta da più di mezza giornata. Ora immaginiamo pure che gli indiavolati fanatici religiosi pisani, probabilmente un po’ confusi rispetto alle diversità che corrono tra un testo religioso e un testo satirico, non soltanto propinino ramanzine contro la volgarità, ma sterminino pure la redazione del giornale, altri livornesi che si trovano lì magari soltanto per mangiare pastarelle e chiunque capiti a tiro, senza nemmeno chiedergli se per caso questi non sia magari un pisano credente suo malgrado coinvolto. Questa storiella scema può essere indicativa di una diffusa dimensione psicotica che erode i confini tra realtà e rappresentazione, rendendo possibile che si uccida per delle vignette, configurando così le condizioni di quanto è definito quale «scontro di civiltà» nel cortocircuito che ognuna di queste può scontare in se stessa. Osserviamo innanzitutto la dinamica di quanto è accaduto presso la redazione di Charlie Hebdo, e poi facciamoci un giro tra religioni e civiltà, in modo da poter afferrare il presente senza essere vittime della superstizione di un’attualità costretta a perdere di continuo se stessa.

A Parigi il 7 gennaio 2015 Said e Charif Kouechi, di famiglia algerina ma nati in Francia, sterminano a colpi di kalashnikov la redazione e alcuni amici del giornale satirico Charlie Hebdo; il giorno 9 gli assassini sono uccisi da polizia e antiterrorismo in una tipografia nel nord-est del paese, a Dammartin-en-Goele. Sempre il 9, Amédy Coulibaly, nato in Francia e originario del Mali, sequestra i locali dell’Hyper Cacher e prende in ostaggio la clientela, uccidendone parte e chiedendo la liberazione dei due fratelli; muore nella sparatoria con le forze dell’ordine. Presso la sede del giornale, Segoulène Vilson, che si occupa di cronache giudiziarie e aveva portato una torta per festeggiare l’anno nuovo, viene risparmiata «perché donna», incitata con occhi stranamente dolci a «leggere il Corano e pentirsi»; Elka Cayat, donna e pure ebrea, viene uccisa. [1] Ahmed Merabet, il poliziotto ammazzato mentre era già in terra, era però a sua volta di origine tunisina e musulmano. [2] A sua volta, gran parte della clientela ebraica del negozio kosher è stata salvata da Lassana Bathily, nativo del Mali e musulmano. Identificati altri complici degli attentati, le ricerche proseguono. 17 le vittime complessive, di ogni appartenenza; i musulmani compaiono tra attentatori, vittime e difensori, suggerendo che la definizione d’identità stabilita in base alla religione possa essere, contrariamente a quanto pensava Huntington, né univoca né determinante. [3]

Le difficoltà di rappresentarsi la realtà coinvolgono, da diverse prospettive, molte delle parole pronunciate su questa vicenda. La rivendicazione della strage al giornale satirico da parte del ramo yemenita di Al Qaeda compiuta da Nasr Ali Bin al-Ansi appare autentica, pur se contraddice le dichiarazioni secondo cui le implicazioni dell’attacco al negozio kosher coinvolgerebbero l’IS. Si distaccano dalla generica condanna della blasfemia di cui è accusato il giornale francese soprattutto due voci: dal Cairo, la massima istituzione dell’Islam sunnita Al Azhar invita ad ignorare le «frivolezze odiose» delle rappresentazioni satiriche del profeta; da Damasco, il presidente siriano Assad si dichiara solidale ai familiari delle vittime e accusa l’Occidente di «complicità con i terroristi». Gli esponenti della jihad dichiarano la legittimità degli attacchi. [4] Occorre sempre tenere conto che il mondo islamico comprende ogni cosa internamente ad una dimensione ad un tempo religiosa e politica, per la quale Maometto è agente della trasmissione del messaggio divino in maniera analoga allo Spirito Santo ma è puramente umano, e ad avere caratteri di consustanzialità rispetto a Dio è invece il Corano.

Il libro sacro dell’Islam ne La Sura di Muhammad, detta anche del Combattimento, così afferma: «E quando incontrate in battaglia quelli che rifiutan la Fede, colpite le cervici, finché li avrete ridotti a vostra mercé, poi stringete bene i ceppi: dopo, o fate loro grazia oppure chiedete il prezzo del riscatto, finché la guerra non abbia deposto il suo carico d’armi. Così dovete fare: ché se Dio avesse voluto si sarebbe vendicato anche da solo, ma non lo ha fatto per provare alcuni di voi per mezzo d’altri. E coloro che vengono uccisi sulla via di Dio, Iddio non vanifica le opere loro. – Egli li guiderà e l’intenzione loro farà buona – e li farà entrare nel Giardino che ha descritto.» [5] I toni cruenti sembrano fornire giustificazioni alla violenza, ma la Sura del Pellegrinaggio integra la visione specificando che «È dato permesso di combattere a coloro che combattono perché son stati oggetto di tirannia: Dio, certo, è ben possente a soccorrerli; – cioè coloro che son stati cacciati dalla loro patria ingiustamente, soltanto perché dicevano: ‘Il Signore è nostro Dio!’ E certo se Dio non respingesse alcuni uomini per mezzo d’altro, sarebbero ora distrutti monasteri e sinagoghe, e oratori e templi nei quali si menziona il nome di Dio di frequente.» [6]

L’esortazione alla lotta riguarda quindi la difesa della vita di tutti coloro che sono fisicamente perseguitati per difendere quello in cui credono, eventualità espressamente ricondotta nell’ambito di ogni forma religiosa, e si richiama alle condizioni di continuo scontro che nel VII sec. segnano l’apparire dell’Islam. Se il termine jihad, con il quale spesso si indica la guerra santa, nemmeno compare nel Corano, ricorre il termine mujàhada, che nel linguaggio dell’allegoria indica lo sforzo di perfezionamento di sé al quale appartiene anche il perdono, che non può legittimare alcun delitto. [7] Dove, pur se refrattari al culto delle immagini, si è pratici di figure retoriche quali le allegorie, si può pure comprendere che qualsiasi ipotesi su idolatria o blasfemia nei riguardi di una vignetta è del tutto fuori da ogni parametro.

Nel mondo occidentale i riferimenti più condivisi dei rapporti sociali sono perlopiù quelli di una società secolarizzata che si definisce internamente alle comunicazioni di massa, generalmente considerate come se non fossero strutture di mediazione ma comportassero la realizzazione di qualche verità assoluta, e quindi con una certa religiosità. E infatti, per un critico acuto come Debord la società dello spettacolo effettua esattamente la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, rendendo opaca e irrespirabile la stessa vita terrena e scindendo l’uomo in se stesso; [8] aggiorna questi rilievi il filosofo Perniola, che individua nella tendenza a nascondere le identità, tipica dello «spettacolo integrato» e della comunicazione, un’affinità con la «semiosi ermetica» propria alle forme aberranti di esoterismo, che pretendono di stabilire analogie tra tutte le cose sottraendo al linguaggio la possibilità di compiere affermazioni sensate. [9]

In questa società dai molti nomi e dalle tante chiacchiere, le voci prevalenti possono dividersi in quattro grandi gruppi, ognuno poco incline a considerare le ragioni degli altri e perciò larvatamente integralista e intrinsecamente meschino. Per alcuni (1), la libertà d’opinione è esclusivo patrimonio occidentale, forse nasce proprio in Francia, ma esternamente a certi confini non esiste neppure. Per altri (2), può pure essere esercitata, ma soltanto in maniera rigidamente conforme ad un’idea di rispetto piuttosto riverente e servile, e se qualcuno viene ammazzato è perché se l’è cercata. A detta poi di altri ancora (3), i musulmani sono tutti terroristi, tutti assassini, tutti da ammazzare, anche a distanza, meglio di come già possa essere in corso da tempo. E ci sono pure quelli (4) per i quali il totalitarismo islamista non esiste davvero e si riduce a pura emanazione di un Occidente potentissimo e crudele. E poi c’è anche chi (privo di particolari menzioni, e quindi da contrassegnare con un bello “zero”) non assume alcuna posizione e non veicola nessun contenuto, continuando però ad essere onnipresente in dibattiti che chissà perché vengono ancora chiamati culturali.

Una certa mancanza di concretezza c’è tuttavia anche nel riferimento ai “valori” per definire la libertà d’opinione che caratterizza l’umorismo caustico di Charlie Hebdo, nel quale possiamo trovare l’espressione piena di un non-conformismo che risponde a quanto Michail Bachtin ha chiamato «sentimento carnevalesco del mondo». La satira, che è rivoluzionaria nel suo aspetto popolare e critica in quello letterario, ha una storia di lungo periodo, e trova a Roma sistemazioni e contaminazioni peculiari e precise, al punto da far dire a Quintiliano, impegnato nella decodifica delle forme retoriche, che sia tota nostra cioè romana. [10] Per statuto, la satira non guarda in faccia nessuno e tanto meno può compiacersi d’astrazioni: pertanto, si diverte a prendere a randellate quelli che ordinariamente vengono chiamati valori ogni santo giorno, relativizzando la posizione di chi esige il panegirico.

Il grande maestro di tale impostazione, che va oltre la satira ma permette di comprenderla secondo i connotati propri alle feste dionisiache celebrate nelle tragedie greche, è Nietzsche: i satiri che costituiscono il coro hanno i caratteri intermedi tra uomo e capro ed esprimono l’allegoria del rapporto originario tra cosa in sé ed apparenze nel quale l’individualità giunge a spezzarsi portando ad una fondamentale oscillazione di identità ed esperienze. [11] Inoltre, l’affermazione «Non esistono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni…», [12] se riconoscere il carattere illusorio di quanto pretende elevatezza, non è per degradare ogni realtà a capriccio: piuttosto, suggerisce l’esigenza di collegarsi ad un processo di conoscenza né facile né comodo, che giunge addirittura a sopprimere se stesso, dissolvendo ogni ideologia per affermare un mondo ”liberato”.

Per rispettare la propria integrità, la satira esige la demistificazione d’ogni integralismo palese o presunto: la satira o è integrale, o non è. La satira non può piacere a chi pretende assolutezza, e del resto non vuole affatto piacere né compiacere alcun potere istituito, e inoltre il suo intento non è soltanto quello di provocare: esige cambiamenti. L’antecedente storico delle impertinenti prese di posizione dei vignettisti francesi, solo superficialmente trucide e che oltre alle dissacrazioni offrono anche discussioni e programmi, è rappresentato dalla libellistica illuminista pre-rivoluzionaria di seconda generazione, caratterizzata da una produzione dichiaratamente teppista e dissacrante, che in giornali quali Le gazatier cuirassé regalava delizie quali «il confessore del re flitra con i paggi, e il re è così sottomesso ai consiglieri da essere libero soltanto di andare con l’amante, carezzare i cani e firmare matrimoni». [13]

Tuttavia, se oggi il mondo si è liberato di tutto tranne che di se stesso e la nostra realtà è andata aldilà anche del relativismo, è pure accaduto che il nichilismo più truce ormai lo si sconta proprio nella dimensione piatta e soffocante che accomuna integralisti islamici e liberisti occidentali. Va inoltre considerato che attitudini quali secolarismo e laicismo, che prescindono completamente dalla considerazione del sacro e della religione, non colgono le implicazioni tra religiosità e laicità oggi particolarmente pressanti. Se il tentativo di ripristinare l’assolutezza dei valori costringe all’astrattezza esponendo le idee a conflitti e dissoluzioni e quindi all’inconcludenza, l’indagine sui processi attraverso i quali vengono attribuiti valori e interpretazioni ai nostri gesti restituisce di continuo significati possibili al reale. Se questo non viene inteso, meglio riconoscere la propria inabilità ad esistere.

Occorre ironia. La quale, laddove non si confonda con la conciliante faciloneria postmodernista che pretende di livellare ogni asserzione, [14] mantiene capacità cognitiva laddove permette di elaborare discorsi a livelli molteplici e di proporre insolite commistioni di codici. Tale attitudine può somigliare alla satira ma si differenzia nel mantenere aperto ogni discorso, e può proporsi quale strumento di formulazione e decodifica: il punto decisivo è che, anche laddove la dissimulazione rimane non riconosciuta, si afferma l’importanza di inoltrarla nei confronti di abitudini e vizi mentali più diffusi, e così scombinarli senza troppi riguardi nei confronti della loro presunta autorità. Se, come ricorda ancora Nietzsche, «Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde provano perfino odio per l’immagine e il simbolo», [15] ogni simbolo è anche un immancabile invito a guardare più in là, e quanto appare come mascherato mantiene sempre una dimensione di profondità nella quale cercare.

Dieci morti nella redazione del giornale, quattro nel negozio kosher, tre poliziotti. Ad ogni modo, riuscire ad arrivare a 80 anni a cazzo dritto, come il grande fumettista Georges Wolinski, ebreo e comunista nato in Algeria quando era colonia francese, e morire solo perché ti hanno sparato, rappresenta un traguardo ammirevole. Ai funerali di domenica 11 gennaio erano presenti due milioni di persone, alle quali si aggiungono 50 autorità politiche, 1300 militari e 5000 poliziotti. La solidarietà è stata virale e condivisa, come si dice per i fenomeni mediatici che funzionano e il cui contagio resta del tutto epidermico. «Siamo tutti Charlie, con le matite degli altri», recita una vignetta di Gabriele Della Rovere sulla testata satirica italiana Il Male che, mentre segnala le ipocrisie del facile cordoglio degli pseudo-satiri impotenti, elogia la rivista francese per «il rifiuto sprezzante di qualsiasi compromesso con i potenti, i loro partiti e le loro chiese». [16]

L’11 gennaio a Parigi, oltre ai politici europei, molti esponenti internazioni, tra i quali quelli di Egitto, Turchia, Russia, Emirati Arabi Uniti, tutti insieme democraticamente; il premier ungherese Viktor Orbán, che punisce per legge «l’informazione non equilibrata», cioè quella che non fa comodo a lui, ha preso l’occasione per rilanciare politiche xenofobe, particolarmente pericolose in un paese di confluenze. Le parole di Luz, superstite della strage perché il giorno della strage era il suo compleanno ed è arrivato tardi alla riunione, focalizzano la paradossale vignetta del reale: «Abbiamo visto sfilare tutti i nostri personaggi. Pure l’assurdità contro la quale ci battiamo, era alla marcia». [17] Poco dietro, una moltitudine di persone, unite dalla protesta contro l’assurdità di guerre e stragi apparentemente senza scampo; tra loro, anche quelli che hanno cavalcato i tragici fatti per farsi pubblicità.

Nel gloriosamente “irresponsabile” numero di Charlie Hebdo successivo alla strage, possiamo vedere tutti costoro nell’imbarazzo dimostrato da Luz verso l’assimilazione tra il corale tributo di popolo e le politiche di unità nazionale, nelle autoparodistiche contromanifestazioni del Fronte Nazionale dileggiate da Schwarte, nei cittadini medi avvezzi ad indignarsi per riflesso pavloviano e tanto per fare mucchio, ritratti da Coco del ciccione che si gratta e dice: «E vabbé, alla fine so’ Charlie». [18] La rivista è stata distribuita anche sui voli dell’Air France, la tiratura ha superato le 7 milioni di copie, le quotazioni su Ebay per le prime edizioni hanno oltrepassato i 4000 euro una settimana dopo.

Noi tutti, anche se abbiamo soltanto un cuore traditore e mezzo neurone fulminato, non possiamo fare altro che piangere Wolinski e le sue fulminanti donnine tuttofare, Cabu e le sue mitragliate di blasfemia ecumenica contro rabbini, preti e mullha, Tignous e i suoi sin troppo concilianti terroristi pieni di pulci, il direttore Charb e la sua profezia su un prossimo attentato in Francia pronunciata da un fondamentalista: «Aspettate! C’è tempo sino alla fine di gennaio per farsi gli auguri!», [19] Philippe Honoré, a cui si deve l’ultimo tweet lanciato prima della strage, dove in un denso bianco e nero ritrae Al Baghdadi che augura: «E prima di tutto, la salute!». E possiamo ancora ridere, se sappiamo come si fa.

Se sappiamo davvero vedere, possiamo anche stupirci di una copertina con Maometto piangente su sfondo verde, che provvisto del trendissimo cartello “Je suis Charlie” incita al perdono. [20] Come Luz ci ha abituato a vederlo, ha la faccia simpatica e un po’ da fattone e il turbante simile ad un bel paio di coglioni: eppure, questa incitazione che sovverte ogni schema previsto sembra davvero emergere da un mistero. [21] Possiamo anche rallegraci che Il Vernacoliere, i cui rari riferimenti ai musulmani sono stati fatti perlopiù per evidenziare contraddizioni piuttosto locali, perché un analogo della rivista francese in Italia non esiste, intenda fare giustizia dedicando maggiori attenzioni all’Islam, con tutta la pensosa consapevolezza dei rischi dell’integralismo e delle esigenze della politica e della satira. [22] E anche dove non si è d’accordo, anche dove c’è altro da dire, rideremo di tutto, come recitava una splendida vignetta di Cabu affollata di fanatici infuriati: [23] rideremo di tutto, sempre, anche dal fondo delle lacrime.

La rivista, nella quale si raccolgono parte delle esperienze della precedente testata Hara-Kiri, esiste dal 1970, una settimana dopo che le pubblicazioni del supplemento settimale L’Hebdo Hara-Kiri erano state sospeso per una copertina dove la morte di De Gaulle veniva assimilata ad un coevo incendio in discoteca che aveva causato 146 morti: “Ballo tragico a Colombey: un morto”. La denuncia dell’ipocrisia di media e istituzioni non risparmia neanche se stessi: «Leggete Charlie Hebdo, il giornale che approfitta delle disgrazie altrui». L’attuale incarnazione prende vita nel 1992, e non è dedicata soltanto alla satira disegnata ma presenta anche inchieste, servizi e pagine culturali.

Caratterizzata da una vivace pluralità di posizioni, è espressione di una stampa e di una sinistra radicale né priva di slanci creativi né di rischi di capitolazione; tali contraddizioni sono parte integrante del suo patrimonio genetico, per il quale, come nota con acutezza lo scrittore Michel Houllebecq, il trionfalismo giovanilista formula le sue contestazioni al capitalismo internamente all’industria del divertimento e in quindi in fondamentale solidarietà con le sue tensioni. [24] L’attacco alle religioni è uno degli ingredienti preferiti e non soltanto per una particolare vocazione all’irriverenza praticata dagli autori, i cui antecedenti sono nell’anticristianesimo culturale che percorre la Francia almeno dai tempi di Voltaire: è il clima globale e quotidiano di guerra santa e nevrosi religiosa a rappresentare un argomento inevitabile per chi fa critica del presente. [25]

Non aiuta però a ritrovare le capacità critiche capaci di disinnescare odio e integralismo il limitarsi ad una suggestiva promenade parigina, oppure lanciare qualche tweet e poi dimenticare tutto il giorno dopo –  tanta ci sarà qualcun’altro pronto a farsi ammazzare, altri cordogli da esprimere più o meno sciattamente. C’è molto altro da fare e, senza stare ad aspettare le fesserie dei vecchi e nuovi media, tante battaglie sono già state fatte anche grazie a qualcosa che si chiama autonomia del sapere: può aiutare a comprendere questo come, in altri periodi, il lavoro intellettuale del mondo islamico prendeva a modello proprio la Francia pur se ne rifiutava il dominio coloniale, mentre da parte loro gli scrittori francesi che criticavano il colonialismo non si sentivano certamente obbligati a rappresentare la politica estera e l’unità nazionale del loro paese. E l’incontro tra loro non è episodico, ma programmatico.

Infatti, negli anni Cinquanta la rivista libanese Al Abad, fondata nel 1953 a Beirut da Suhayl Idris, si ispira espressamente a Temps Moderns di Jean-Paul Sartre e associa la lotta di liberazione algerina al movimento di unità del movimento arabo: alla denuncia della violenta politica francese nel paese si unisce la partecipazione degli scrittori francesi favorevoli all’autodeterminazione algerina. Sono ospitati scritti di Sartre, Claude Bourdieu e Jean Sonnac, traduzioni di Simone de Beauvoir e Albert Camus, particolare attenzione viene fornita al marxismo, all’esistenzialismo e alle loro contaminazioni. Sartre nel 1960 redige il Manifeste des 121, che proclama il diritto all’insubordinazione per i militari francesi e aderisce apertamente al Réasau Jeanson, organizzazione clandestina sostenitrice del Fronte di Liberazione Algerino. La rivista fornisce spazio a scrittori e intellettuali algerini, quali Kateb Yacine (che scrive in francese, autore del romanzo Nejima e di opere di teatro) e Aboulaid Doudouo (che scrive in arabo, e insegna anche nelle università di Vienna e Colonia), incoraggia forme di impegno (al iltizam) che non si limitano alla politica, ma riguardano la stessa espressione letteraria.

Tali propositi sono raccolti dall’egiziano Ahamad Kamal Zaki, deciso assertore di una responsabilità sociale dello scrittore basata sul rapporto essenziale con i meccanismi dell’esistenza, e capace di muovere il loro carattere rivoluzionario. Il suo compatriota Taha Hussein, al contrario, si dichiara scettico rispetto all’impegno e, affermando la priorità della scrittura rispetto ad ogni possibile interpretazione, dichiara: «Voglio sentirmi libero, libero come i tragici greci, non influenzati dalla religione o dai regimi politici». Nel vivace dibattito che si sviluppa su Al Abad, il libanese Raif Huri risponde che occorre considerare come atto politico qualsiasi espressione artistica, la cui materia sociale di base proviene dal perpetuo rinnovamento della realtà, e si propone di provocare prese di coscienza del vissuto comune. In tutta questa varietà di posizioni, il proposito intellettuale di ricostruire una patria autenticamente araba si associa al confronto aperto con la cultura occidentale. [26] Sono queste posizioni, da distinguere con forza tanto dal terzomondismo giustificatorio e piagnone quanto dall’islamismo aggressivo e autoindulgente, delle quali un’autentica cultura, laddove esista, deve rivendicare piena eredità.

Tuttavia, se la storia offre diversi esempi di rapporto tra Islam e Occidente, il presente sfugge di continuo a se stesso; appena aspiri ad afferrarlo, trovi qualcuno pronto a spararti: così, dichiarare la propria “irresponsabilità” è un modo per mantenersi responsabili per la parola e chiamarsi fuori dal gioco al massacro in cui la vita sociale è involuta. Al riguardo, si può osservare come in Italia la diffusione della copia Charlie Hebdo del dopo strage da parte de Il Fatto Quotidiano sia stata ampiamente boicottata da altre testate. L’accaduto testimonia una concorrenza talmente spietata da avallare censure sui vivi e sui morti e appropriazioni indebite di campagne e materiali, in rigida osservanza del culto del mercato. [27]

Il volume Je suis Charlie pubblicato da Il Corriere della Sera è stato invece sommerso da una montagna di critiche per aver diffuso materiale di cui non deteneva diritto. [28] Tuttavia, il pur sempre ambiguo quotidiano milanese, che si è subito messo al riparo proponendosi di beneficiare la redazione del giornale francese e riconoscere il copyright a tutti gli autori coinvolti, ha realizzato un’operazione semplicemente indispensabile, rispettosa del dovere di cronaca e documentazione, e se il giornale ha ricevuto incrementi di vendite, i materiali reperiti in rete hanno ricevuto ulteriore valorizzazione, nonché benefici, dall’organizzazione editoriale e dalla promozione su circuito librario.

I problemi sono complessi e urgenti: proprio per questo, coloro che parlano di diritto d’autore in astratto meriterebbero una causa per plagio. Il pirataggio fa parte dell’arrembaggio del presente, le cui condizioni sfuggono ampiamente di mano ai grandi gruppi, che comunque si mantengono egemoni. Le esigenze del pubblicare richiedono forme crescenti di interazione tra cartaceo e digitale, e se si vuole rispondere alla situazione non è più possibile “condividere” senza prendersi la decenza di citare fonti e rispettare condizioni d’uso. La questione è che il diritto d’autore, messo in crisi dall’infinità possibilità di duplicazione del digitale, deve ritrovare l’originario equilibrio di stampo illuministico integrando copyright e copyleft, ristabilendo piena tutela del lavoro degli autori; attualmente non è così, e il problema vero è che aumentano le difficoltà di accesso alla cultura, penalizzando ricerca e didattica a vantaggio delle concentrazioni di mercato. [29]

Tra le vignette pubblicate sul volume, don Alfonso ritrae a portare una delle bare parigine Gesù e Maometto: il primo chiede cosa hanno sbagliato, l’altro risponde: «Specie, fratello, abbiamo sbagliato specie.» [30] In questa troppo umana specie, aldilà del cordoglio di circostanza, la satira di Charlie Hebdo era già stata autorevolmente definita come «masochista» e «stupida» da New York Times, Osservatore Romano, Onu, musulmani dell’Udif e della moschea di Parigi, l’ex presidente Chirac e molti altri. [31] Il coro dello sdegno perbenista mondiale si mantiene anche nei confronti della copertina con il Maometto piangente, ne è impedita la diffusione in Inghilterra e in Egitto, tutele e controlli sono esercitati in Turchia e negli USA. [32] Se c’è qualcosa di veramente democratico, è proprio la censura, e la più grave è quella inconscia, la cui costrittività agisce silenziosa e indiscutibile impedendo spesso ogni minima comprensione.

Papa Francesco, da par suo, ha condannato la strage, ma anche gli insulti alla fede. Se la citatissima boutade su «mamme e cazzotti» non è particolarmente memorabile, In altri interventi ha ricondotto in maniera piuttosto articolata la libertà d’espressione al rapporto religioso con la verità e quindi al rispetto del limite, suggerendo di non creare violenza invisibile e odio sociale. [33] Il presidente iraniano Rohani ha condannato le vignette ma, con un certo equilibrio, pure l’attacco alla rivista, colpevole di aizzare l’odio verso i musulmani; per Pour-Mohammadi, ministro della Giustizia, uomo di fiducia dell’ayatollah Khamanei, l’evento segna il fallimento delle politiche francesi e occidentali. [34] Le visioni teocratiche hanno una propria chiarezza, e tuttavia possono dimenticare che l’odio non vede perché è accecato da se stesso.

La posizione politica più accorta sembra formulata da François Heisbourg, presidente dell’International Institute For Strategic Studies: se libertà di spirito può servirsi anche dell’insolenza, per contrastare il terrorismo occorre evitare errori quali generalizzazioni razziste e leggi precipitose. [35] Sul giornale anarchico Umanità Nova si chiarisce che l’antimilitarista Cabu e i suoi pestiferi compagni da vivi non sarebbero mai diventati eroi di qualche crociata, assolutamente irriducibili agli schieramenti imposti dalla logica dello scontro delle civiltà così come alla destra razzista di Le Pen e al socialismo guerrafondaio di Hollande, e questo anche dove diversi settori della tradizione laicista repubblicana francese sono prossimi allo schieramento razzista e islamofobo. [36]

In tempi di anarco-capitalismo e guerre asimmetriche, per essere degni del diritto alla controversia e non ridursi in nessun modo a comparse nel «teatrino delle emozioni mediatiche», occorre chiedersi se davvero sia sempre possibile riportare ogni posizione espressa alla libertà di espressione e al libertarismo. [37] Dobbiamo farci più di qualche domanda, perché se l’illuminismo ha una sua dialettica e la Francia ha conosciuto non solo la rivoluzione ma anche assolutismi e restaurazioni, dall’altra parte una cultura come quella islamica, profondamente contraria alle rappresentazioni antropomorfe del divino e ad ogni culto delle immagini, ignara della stessa possibilità linguistica della bestemmia, in vari luoghi e modi è ancora impegnata a protestare contro le vignette. [38]

A quale testimonianza ci stanno chiamando gli eventi? «Conosco fin troppo bene il motivo del disagio provato in vicinanza dell’Islam: ritrovo in esso l’universo da cui provengo; l’Islam è l’Occidente dell’Oriente. […] Come l’Islam è rimasto cristallizzato nella contemplazione di una società che era reale sette secoli fa, i cui problemi aveva allora risolto con soluzioni efficaci, noi non riusciamo più a pensare fuori dagli schemi di un’epoca già chiusa da un secolo e mezzo.» [39] Alla luce di queste parole, pronunciate dal grande antropologo Lévi-Strauss, ha senso l’alternativa falsamente tollerante tra un presunto diritto alla blasfemia (che in definitiva ritroviamo più facilmente negli assassini, piuttosto che nelle persone spiritose) e la pretesa assolutista del fanatismo idolatrico (tipica dei bacchettoni d’ogni contrada, incapaci di pietà pure verso i morti ammazzati)?

E dove sembrano particolarmente esasperate e odiose alcune manifestazioni dell’intolleranza islamica, non potrebbe l’intolleranza occidentale essersi diffusa al punto da far saltare il confine tra politica e satira, impedendo così con lo scherno denunce più approfondite? Non potrebbe la satira, laddove non è costretta all’estinzione da una politica ormai ridicola per conto suo, ritrovarsi dalla parte degli sciovinisti e degli intolleranti e quindi del potere nella sua forma più subdola, quella che ha contribuito all’origine dello stesso terrorismo islamico? Occorre quindi fare delle distinzioni, laddove le vignette della rivista danese Jyllands-Posten (2005) e soprattutto il film di produzione statunitense Innocence of Muslim (2012), ambedue contestatissimi, rientrano in una casistica di intolleranza, sciovinismo, e ridicolo: tuttavia, in Charlie Hebdo, nonostante la totale irriverenza e l’aperto dileggio, è riscontrabile un progetto politico e culturale la cui portata, piaccia o meno, non può essere sottovalutata da nessuno.

La crisi della libertà d’opinione è palpabile: c’è persino chi ci muore. Le questioni però si sono fatte particolarmente controverse. È legittimo prendere come esempio di censura un dissenso rispetto alle politiche omosessualiste, [40] laddove nel coretto mediatico rispetto a quella che ormai è diventata l’ideologia dominante a favore dei matrimoni gay sembrerebbe consentito dire soltanto sì, e qualsiasi dibattito effettivo è costretto ad incontrare lamentose isterie? Non potrebbe invece essere che indurre a mostrare l’ano favorisca la diffusione di uno spirito di sottomissione più efficace e diffuso di quanto abbia mai permesso nessuna religione e civiltà, sulle quali poi si presume di sapere ogni cosa anche quando s’ignora quasi tutto? Il problema autentico non è quindi la libertà d’opinione, perché chiunque può dire qualsiasi scemenza senza preoccuparsi di ragioni e conseguenze: il problema, sempre più complesso, è esprimere un’opinione provvista di consistenza, dato che per farsi un’idea onesta occorre confrontarsi con l’alterità, anche con la propria. Così, ritrovare i disconosciuti rapporti di reciproca implicazione che intrattengono Islam e Occidente rappresenta un campo privilegiato per questa ricerca: può aprire la strada Angels (2002) dove Norah Jones canta con i Wax Poetic di Ilhan Erşahin, sassofonista turco residente a New York, un brano di hip-hop raffinato e cosmopolita.

 

2. Come ciechi nella terra dei ciechi 

La parte asiatica di Istanbul, dove oggi è Kadikoy e un tempo Caldedonia, fu chiamata dall’oracolo di Delphi «terra dei ciechi» perché gli abitanti avevano trascurato le potenzialità di porto commerciale della terra a cui guardavano, destinata a diventare capitale di imperi grandi come mondi. Agli albori della cristianità, quella stessa terra diede il nome al concilio che decise il dogma dell’incarnazione; i turchi ottomani vi si stabilirono già durante il declino bizantino. Sull’altra sponda, oggi i minareti si elevano non distanti dai grattacieli.

Nel medioevo andaluso, dalla parte opposta del Mediterraneo, il filosofo arabo e aristotelico Averroè era persuaso che al volgo bastasse fare riferimento al Corano e che non capisse davvero nulla di filosofia, la quale va attentamente tutelata dalle volgarizzazioni; tuttavia, afferma pure che nel cammino per la conoscenza è lecito fare errori e a nessuno può essere proibito lo studio. [41] Originario di Cordova, dove secoli prima nacque Seneca, morì nell’altra sponda del Maghreb (Occidente) per l’esilio decretatogli dagli Almohadi, gli integralisti dell’epoca. Il suo pensiero si diffonde grazie ai copisti ebrei e alle influenze esercitate nel mondo latino, non senza diversi fraintendimenti, e può aiutare a comprendere quanto Islam ed Europa siano in realtà, contro l’uso linguistico dominante, due Occidenti paralleli.

Il filosofo arabo Al Jabri assume Averroè quale esempio della possibilità metodologica di un razionalismo capace di comprendere insieme fede e scienza, mantenendo la legittimità dei loro diversi livelli; contro ogni fumoso misticismo, invoca la ragione, una lanterna che può essere portata anche in pieno giorno. [42] Il filosofo ebreo Leo Strauss prende Averroè a modello per ripensare i rapporti tra sapere e potere; la filosofica Atene e la religiosa Gerusalemme sono emblemi di due mondi inconciliabili; sovvertendo le basi della modernità occidentale, conclude che la verità concettuale è distruttiva per gli interessi politici della città: al sapiente occorre pertanto un prudente adeguamento alla vita comune. [43] Al Jabri muore prima della primavera araba, e il suo pensiero permette di comprendere le tensioni implicite delle rivolte, che ancora non hanno manifestato i loro pieni potenziali; Leo Strauss, pur se reputato maestro da parte dei neo-con americani, risulta infinitamente superiore alle follie delle guerre globali e alla immensa imbecillità di chi le ha ordinate.

Averroè, per quanto modello di razionalità e tolleranza, certamente si sarebbe risentito del modo con cui generalmente si parla di pratiche islamiche quali donne velate o macellazione animale. Eppure, tra le verità che sfuggono ai nostri sensi, ci sono anche quelle “carnali”. Sotto il velo le donne accrescono sensualità, evitando però di introdurre nel mondo sociale un disordine (fitna) che rischia di corromperlo: se questa è l’idea di base, la copertura del volto non è prescrizione coranica, appartiene ai costumi e presenta innumerevoli differenziazioni. [44] Le carni pure (halal) sottoposte a macellazione rituale e dissanguamento evitano le sofferenze per l’animale e sono più sane di quelle intossicate dal sangue e dai sonniferi; il taglio della testa (zibah) ha poi trovato un’efficace applicazione all’economia occidentale nella macellazione intrapresa da Bin Laden, nella cui trappola la politica occidentale è caduta tutta intera in pieno.

Il burqa integrale è proprio all’integralismo e si scontra con le normative securitarie occidentali, ma in Francia è stato proibito il semplice velo nelle scuole e negli uffici pubblici in nome della laicità dello stato. La stessa prescrizione è stata a lungo praticata in Turchia, dove è diventato emblema d’indipendenza da parte delle giovani donne; la polizia, particolarmente laica e occidentalizzata, sembra non dire nulla alle ultraortodosse che tutto celano allo sguardo. In diversi contesti musulmani, le donne vanno in giro “sfacciate” come piace agli occidentali, pur se riservate come Maometto suggerisce. [45] Tra queste, la sociologa femminista marocchina Fatima Mernissi, critica anche contro il dogma della taglia 44 che imprigiona le donne occidentali, [46] permette di comprendere le paure dei musulmani, che coinvolgono tanto l’Occidente in cui si trovano coinvolti eppure stranieri, quanto il passato al quale restano legati pur ignorandolo, impedendo loro di aprirsi al presente: presente che, per altri motivi, sfugge anche agli occidentali.

Il discorso sulle donne rientra nella negazione della differenza quale valore e ricchezza: «Gli arabi hanno osato fare due cose che nessun altra grande civiltà ha mai tentato: negare il passato, un passato oscuro, e nascondere il femminile. E il passato e il femminile sono due poli nei quali si riflette la fonte di ogni terrore: la differenza. […] Ditemi per piacere come si può distinguere il maschio se è proibito vedere il femminile, se la femminilità è un buco nero, un vuoto silenzioso, una faccia assente? […] Le donne furono velate non solo perché la loro invisibilità permetteva di dimenticare la differenza e creare l’illusione che la umma [comunità dei fedeli musulmani] fosse unita perché era omogenea, ma soprattutto allo scopo di far dimenticare alla gente quello che gli arabi della jahiliyya [l’epoca che precede l’Islam, definita come ‘ignoranza’] sapevano fin troppo bene: il corpo con la sua sensualità indomabile è l’irriducibile fortezza dell’individualità sovrana.»

Prosegue Fatima Mernissi: «Ciò cui assistiamo oggi è la rivendicazione da parte delle donne del loro diritto a Dio e alla tradizione storica. Ciò assume varie forme. Ci sono donne attive all’interno di movimenti fondamentalisti e altre che studiano una reinterpretazione del retaggio musulmano come ingrediente necessario della nostra modernità.» Conclude Massimo Campanini: «Non si tratta quindi di una liberazione contro il Corano e l’Islam. Si tratta piuttosto di un recupero della storicità, coerente con il bisogno che di essa hanno mostrato un po’ tutti i pensatori islamici contemporanei.» [47]

Il recupero di questa storicità può far scoprire nel Corano tanto richiami a Roma e a Bisanzio, quanto alla Grecia e all’ellenismo. La filosofia di Aristotele è stata trasmessa all’Europa soprattutto per opera di Averroè, e l’idea di legge islamica (djn) è affine a quella romana (jus), in quanto assimila “cose umane e divine” in un medesimo ordine giuridico. Nella Sura I Romani l’Impero (d’Oriente, all’epoca l’unico rimasto) è definito «promessa dell’Islam», la sua rivincita contro i Persiani porta «rallegramento» ai credenti; storicamente, è proprio in quella circostanza che prende luogo la predicazione di Maometto. [48] Nella Sura della Caverna si afferma che «il potere in terra e la via per giungere ad ogni cosa» di Alessandro Magno (dhù alQarnaìn, “quello delle corna”) fu deciso da Allah; le corna da cui è caratterizzato sono un simbolo di potenza e divinità, soltanto successivamente retrocesso. [49] Il piano espansionistico dell’Islam, dopo aver strappato numerosi territori alla Roma d’Oriente, si dirige con l’orda delle tribù saracene verso l’Europa e sogna la Roma dei Cesari e l’Italia, la “lunga terra”;[50] nel 652 inizia la conquista della Sicilia, e conosce un arresto nel 732 a Poitier da parte del re dei Franchi Carlo Martello.

Pirenne ricorda che è l’azione di Maometto a spezzare l’unità del Mediterraneo e a chiudere Bisanzio ad Oriente, permettendo così a Carlo Magno di recuperare il progetto imperiale e riportare il baricentro economico nel continente. [51] Gli Ommayyadi, scacciati da Baghdad dagli Abbasidi, nel 756 approdano nella penisola iberica e fondano a Cordova l’emirato andaluso: momento di fioritura della cultura araba ed esempio di piena convivenza tra i tre monoteismi, conosce al proprio interno frazionamenti e ribellioni. Durante l’interregno tra impero carolingio e sassone, mentre a Roma il papa è pressappoco un principe, in terra europea si registrano accordi tra re cristiani e componente islamica, così come proseguono i conflitti interni ad ogni civiltà.

Nel 942 Ugo di Provenza stabilisce rapporti commerciali con il califfo Abd ar Ramân III, e cerca di utilizzare i Saraceni di Frassineto, provenienti dall’Andalusia e attivi nei traffici anche con i Berberi del Magreb, come milizia di confine contro Berengario del Friuli, rivale del sovrano provenzale nelle cariche di re d’Italia e imperatore. Questi accordi non sono affatto isolati: i più notevoli riguardano quello tra il patrizio bizantino della Sicilia e l’ultimo governatore abbasside dell’Ifriqiya (fine VIII sec.); quello tra Napoli, Gaeta, Amalfi, Salerno, il vescovo di Capua e il principe di Benevento con i Saraceni di Palermo e di Kairouan (875); c’è poi la missione di Giovanni di Gorze a Cordova che per incarico dell’imperatore Ottone I chiede la cessazione degli attacchi pirateschi a pellegrini e viaggiatori cristiani (953-956). [52] La storia europea passa anche per l’Islam.

La storia islamica non prescinde da quella occidentale. Le Crociate sono emanate al termine del concilio di Clermont nel 1095 dal papa francese Urbano II, mentre a Roma, che ne rimane estranea, è retta dall’antipapa Clemente III; i cavalieri cristiani cominciano la spedizione sterminando gli ebrei di Lorena. Tra gli obiettivi delle varie spedizioni c’è anche la lotta all’impero bizantino (1204); tra le crociate interne, quella contro gli eretici albigesi (1209-1229). La conquista della Terrasanta rimane effimera, ma la potenza degli Arabi cosi come quella di Bisanzio risulta definitivamente compromessa; tra i musulmani, spicca la nobile figura del Saladino, e tra i rivali Franchi e Turchi si registrano attestati di stima e si diffonde la leggenda della loro comune discendenza troiana. [53]

I Turchi Ottomani danno forma ad un impero romano islamico che per cinque secoli contende il Mediterraneo all’Europa e mantiene sedi diplomatiche nei paesi del continente. Nel 1532 il re francese Francesco I di Valois muove guerra a Carlo V alleandosi con l’imperatore turco Solimano il Magnifico e con i principi protestanti ostili all’imperatore cristiano, che infrangono l’unità religiosa dell’Europa disconoscendo l’autorità del pontefice. Da parte loro, i cristiani greci ortodossi si erano separati da Roma già nel 1045, mentre nel 1453 alcuni di loro, soprattutto quelli di osservanza monofisita, si convertono all’Islam con la conquista turca di Costantinopoli, mentre altri contribuiscono al rinascimento diffondendo la cultura bizantina tra Europa e Asia.

Nonostante la magnificenza del potere e la vastità del dominio, l’impero turco non ebbe piena egemonia e conobbe diversi contrasti: oltre che dai paesi europei a cui contende i territori di mezzo, anche da parte degli sciiti, alloggiati nella zona della Persia che già era stata rivale dei Greci, e anche dai sunniti, sudditi e fratelli di fede. Al tempo della decadenza, il più grande impero musulmano mai esistito era chiamato “il malato d’Europa” (occhio: non dell’Asia); i paesi europei lo tenevano in vita per avvantaggiarsi dei suoi residui, dai quali per interesse di Inghilterra e Francia nascono i moderni paesi del Medio Oriente. La storia contemporanea che ancora ferisce l’Islam e l’Occidente parte proprio da qui.

Suomission di Michel Houllebecq immagina un futuro piuttosto prossimo in cui la Francia cade sotto un governo islamico regolarmente eletto. Il romanzo entra nel vivo della vicenda soltanto dopo aver fatto compiere ad un insegnante universitario esperto di Huysman, scrittore noto soprattutto per la claustrale raffinatezza di A rebours (1884), un quadro generale della decadenza degli studi umanistici. Nei corridoi dell’università appaiono dei barbuti musulmani di scorta a vergini in burqa, intente a seguire diligentemente lezioni di letteratura francese di un professore gay e «infilantropo». Subito dopo, si parla della partecipazione elettorale contro il Fronte Nazionale di Marina Le Pen della Fratellanza musulmana, prevedendo l’alleanza di questi con il Partito socialista.

Il libro di Houllebecq dispiega l’ascesa nelle fatiscenti istituzioni illuministe di un Islam ispirato, con moderazione e sobrietà, all’impero romano e alla figura di Augusto, segue alcuni dei blandi contrasti opposti dagli ambigui Identitari, descrive lo smarrimento sociale derivato da riforme e cambiamenti e dalla perdita definitiva delle coordinate politiche di destra e sinistra. Infine, senza nessun rimpianto per il passato, porta sulla soglia di una nuova prosperità, che avviene grazie al rilancio del ruolo dell’istruzione e della famiglia e all’allargamento dell’Unione Europea ai paesi musulmani del Mediteranneo. [54] Houllebecq, che ha una scrittura capace di accarezzare il sublime pur sprofondando nella merda, [55] costruisce tensioni sottili per poi risolverle proprio come non ti aspetti, e non ha per nulla posizioni ostili rispetto all’Islam, come piacerebbe ai liberal noiosi che si affannano a cercare fobie ovunque. [56] Anzi, Soumission può permettere di disinnescare diffuse paure: del resto, come afferma nel testo un personaggio che lavora ai servizi segreti, ormai «bisogna convivere».

Il romanzo esce il giorno della strage, al tavolo della redazione di Charlie Hebdo stanno confrontandosi sui suoi contenuti: Houllebecq in persona troneggia sulla copertina della rivista in quel momento in edicola, ritratto da Luz con il cappello a punta da indovino, così da coglionarlo come si deve, mentre predice di perdere i denti nel 2015 (ha pure lui i suoi problemi) e fare il Ramadam nel 2022 (l’anno in cui ambientato il libro). Nel retro, tra “le copertine a cui si è scampati”, lo scrittore appare in braccio a Marina Le Pen innamorata: la firma è di Cabu, uno dei trucidati; tra le altre perle, quella in cui si pippa una strada di cocaina fino ad arrivare ad Allah, realizzata da Coco, la donna che ha aperto la porta agli assassini. Insomma, satira, ironia e provocazioni letterarie non fanno sconti a nessuno e non servono a fomentare campagne xenofobe. [57]

Satira deriva dalla parola latina satura lanuxi, che indica il vassoio “colmo” di offerte da donare agli dei. La pratica della satira è strettamente collegata all’aspetto pubblico dell’esercizio del potere; nel suo esercizio si propone di mostrare contraddizioni e indurre al cambiamento. Nel porsi al “confine” di quanto è politicamente consentito e nel suo dichiarato intendo di infastidire, può essere oggetto di persecuzione quanto di tutele; una sentenza della Cassazione l’ha giuridicamente definita quale «manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.» [58]

«Chiuso nell’ambito dell’Islam», Averroè mai conobbe il significato di tragedia e di commedia: dopo aver espresso tale pensiero, Borges smette di credere in lui, e il filosofo sparisce. [59] Ora che, oltre ad Averroè e Borges, sono spariti pure Wolinski, Cabu e tanti altri, eppure continuiamo a credere in loro, la parte di Islam convinta della propria peculiare ma ancora incerta modernità e quanto resta dell’Occidente arrogante ma dimentico del proprio splendore devono definitivamente riuscire a convivere: non per sopportarsi, ma per imparare qualcosa l’uno dall’altro. Ora che, parafrasando il grande scrittore argentino, non ci resta che continuare a narrare il «processo di una sconfitta», uno sforzo per comprendere cosa è satira, in cosa corrisponde la sua irresponsabilità, dobbiamo cominciare a farlo tutti.

Da parte sua, Houllebecq rivendica d’essere «irresponsabile» in modo da poter continuare a scrivere senza essere strumentalizzato. Riconosce che la libertà si è fatta ormai «troppo faticosa»: la sottomissione che l’Islam racchiude quale suo significato sembra così particolarmente desiderabile. François, il protagonista del romanzo, che risponde alla sua tipica tipologia del «farabutto cinico capace talvolta da farsi attraversare da un pizzico di sincerità», non riesce a trovare nessuna fede di fronte alla Vergine Nera di Rocamodour, e si converte all’Islam perlopiù per opportunismo.

Da parte sua lo scrittore francese, assertore di una religione dell’umanità di stampo positivista e comtiano e ateo e in un modo ormai avvertito come «insopportabile», auspica un’«ibridazione» tra Cristianesimo e Islam, il quale se privo di carattere violento non ha purtroppo un papa «capace di indicare la retta via una volta per tutte.» [60] C’è una nostalgia al fondo di queste parole che prescinde un po’ dalla storia: se l’Islam è effettivamente privo di un centro e di una “chiesa” ed è caratterizzato dal rapporto personale con la divinità, la figura del papa dal rinascimento in poi ha in teoria la funzione di guida soltanto per i cattolici; inoltre, tanto il carattere di universalità proprio al termine cattolico, quanto l’ibridazione dalla quale ogni forma culturale proviene, sono caratteri ampiamente rimossi.

Quando i cupi propositi dei terroristi islamici erano lontani, i CCCP cantavano Punk Islam (1984), che riusciva a cavar dai bigotti non si sa quanti diavoli. Oggi, nel continuare a perderci ad Istanbul come suggerisce la canzone, possiamo trovare un profeta più plausibile del povero pur se elegantissimo Gheddafi invocato nella canzone nel buon vecchio Gesù Cristo. Incline alla provocazione, imperturbabile alle minacce, la sua nascita ebrea non lo scampa da rapporti controversi con le autorità israelite, e rimane particolarmente gradito ai musulmani per quanto non nei termini incarnazionisti.

Ci si creda oppure no, attraverso il suo messaggio la Chiesa, con tutti gli avversari interni ed esterni che ha saputo o dovuto meritarsi, e con i vari anticristi che “cateconticamente” genera e trattiene, [61] è nei secoli riuscita a rinnovare la possibilità operativa di integrare immanenza e trascendenza, consegnando l’universalità del diritto romano e della filosofia greca ad un futuro sempre assetato di verità e giustizia. Tuttavia, le complessità concettuali del Cristianesimo, se sfuggono ampiamente ai credenti per inerzia e agli atei per pigrizia, [62] possono tuttora risultare più estreme di trasgressioni ormai ordinarie [63], mentre continuano a strutturare la forma culturale di un «officium» caratterizzato da impersonalità ed efficacia. [64] Per tutti, potrebbe essere più interessante recuperare una memoria di lungo periodo piuttosto che continuare a farsi irretire dall’appiattimento dominante.

C’è più idolatria e bestemmia in una vignetta, dove la satira si esprime in forme caricaturali e quindi volutamente deformate, funzionali ad un discorso altro, o nel nascondersi dietro Dio per fare guerra e uccidere? «Chiunque bestemmi il santo nome, morrà»: [65] questa condanna compiuta dall’Ebraismo conferma la fondamentale proibizioni del decalogo di non nominare invano il nome di Dio, alla quale è associato anche il divieto di idolatria: l’assoluto non rappresentabile è principio di realizzazione ma non è riducibile a contenuti parziali. Dopo la distruzione del Tempio, il Talmud stabilisce somma felicità nel non tener conto di un’ingiuria e promette perdono a chi dimentica la vendetta. [66]

Il giudaismo chassidico, che si sviluppa in territorio ucraino nella seconda metà del settecento, pone particolare attenzione alla gioia e alla letizia, rifiutando l’emancipazione sociale per santificare tutto ciò che è terreno, perché ogni strada può portare a Dio. Per i chassidi, la Palestina assume valore quale patria dei riscattati, capace di accoglie tutti coloro che meritano la redenzione grazie alle proprie forze; al posto dei falsi messia che pretendono di essere salvatori della patria, trova così spazio l’uomo giusto (tzaddìk), le cui capacità sono riconosciute da un popolo in grado di conquistare la propria libertà. [67] Presso gli ebrei askenaziti si sviluppa la cultura yiddish, la cui visione ironica dell’esistenza è espressa dal witz, che comporta un uso sistematico dell’autoironia, compresa da Freud quale elaborazione dei processi primari dell’inconscio espressa nei processi secondari del linguaggio; le sue formulazioni attengono un insegnamento che non vuole rivelare nulla e piuttosto tende a evocare e suggerire. [68] Chissà che fine ha fatto presso gli Ebrei tutta questa bella ironia.

I tempi sono difficili, si sente spesso dire: lo erano sicuramente pure nella Gerusalemme del VIII sec., dove un teologo cristiano palestinese di osservanza melchita, pratico del Corano e della Torah, predicava in arabo e con toni cordiali ad una platea di musulmani, a loro volta non lontani da eresie cristiane quali docetismo e nestorianesimo e dalla narrazioni ebraiche dei midrashim. Nel difendere la Trinità nei termini di Parola e Spirito di Dio, invita a credere nell’intermediazione del Messia, insistendo sulla necessità di salvaguardarsi dagli inganni di Îblis, il satana, l’avversario della natura umana. [69]

Da circa un secolo, si era imposta nei territori devastati da troppe guerre una nuova fede che grazie alla predicazione del passionale e pratico Maometto ricombinava elementi già diffusi in una sintesi originale e autonoma. Per lungo tempo, i musulmani furono assimilati a cristiani scismatici: questo è il motivo per cui il profeta dell’Islam può essere rappresentato all’inferno, come ancora accade nel XV sec. nell’affresco di Giovanni da Modena della basilica di San Petronio di Bologna: questo non comporta nessuna offesa, e piuttosto rivela una logica di inclusione. L’anonimo palestinese da parte sua abbozzava una teologia universale delle genti, sapendo di parlare a dei fratelli forniti di tutti gli strumenti necessari per comprendere le sue parole: Islam, come suggeriscono le parole arabe salâm e greche soterìa a cui rimanda, vuol dire anche salvezza.

 

3. Corti circuiti e nuove fulgurazioni

La reviviscenza delle religioni è una risposta alla globalizzazione, ma la tensione ad una civiltà esiste anche dove le diversità stimolano i processi di acculturazione: lo scontro di cui parla Huntington trascura quanto le faglie e i confini possano essere anche fertili condizioni di scambi. [70] Allo stesso tempo, la nozione di orientalismo nella quale Said vede la proiezione delle pretese di dominio dell’Occidente risulta ampiamente incompresa anche dove perdurano rivendicazioni terzomondiste irrimediabilmente datate, tipo quelle applicate all’Islam delle petromonarchie. [71] Eppure, alla faccia di tutto il sapere del mondo, una ridondante e inconcludente “cultura del commento” si diffonde prescindendo da ogni ragione e opportunità, propagando ovunque pregiudizi incapaci di accendere idee e muovere cose.

In questo neo-oscurantismo, il capitalismo continua a raccogliere proseliti. Rispetto alla sua religione, ha lasciato scarni ma indicativi appunti Walter Benjamin: un culto privo di teologia, dalla durata permanente e senza né sogni né pietà, incapace di espiazione ma perennemente colpevolizzante e indebitante, nascosto al punto da essere del tutto irraggiungibile. [72] Forma della religione del capitale è così il culto del mercato, che trova la sua liturgia nelle strategie di omologazione culturale del potere che coinvolgono anche gli pseudo-antagonismi.

Charlie Hebdo, implicato nel potere dal suo podio di giullare e figlio ribelle delle contraddizioni dell’industria culturale, fino a che punto poteva essere tentato dall’adesione alle ragioni del potere? Analizziamo alcuni dei casi più controversi nei quali il giornale è rimasto coinvolto. Nel 2002 il virulento attacco antiislamico di Oriana Fallaci, [73] che scambia le responsabilità degli attentati con un’intera civiltà, viene reputato dal commentatore filosofico Robert Mishrari come manifestazione di «coraggio intellettuale», in quanto riconosce che la “crociata” non è partita dall’Occidente. Le discrepanze nella linea del giornale fanno pensare a cedimenti alla politica atlantica impegnata nelle guerre globali; [74] tuttavia, la vignetta di Cabu con gli operatori di borsa che ordinano «Vendete!» all’apparire degli aerei sulle Torri Gemelle è chiara, implacabile, definitiva. [75]

Nel febbraio 2006 il giornale ristampa le vignette satiriche del Jyllands-Posten, la cui vicenda soffre di numerose ambiguità e avevano causato enormi sollevazioni nel mondo islamico e anche richieste di distensione e chiarimento da parte di Imam. [76] A marzo è pubblicato l’appello di dodici intellettuali (tra cui anche Salman Rushdie, Irshad Manji e altri esuli dai paesi musulmani) Ensamble contre le nouveau totalitarisme. In nome dell’universalità della libertà d’espressione è rifiutato il relativismo culturale che impedirebbe ai musulmani uguaglianza, libertà e laicità, e pur mantenendo il proposito di non stigmatizzare i credenti sono condanne la paura e la frustrazione che alimentano l’islamismo. [77] Alle quotidiane minacce di morte ricevute dagli estremisti di destra e di sinistra aggiungono quelle degli islamisti: il giornale subisce attentati e incendi, assalti ai chioschi e anche invettive di rapper. La reazione di Luz all’attacco incendiario del 2 novembre 2011 è Maometto che recita: «Cento colpi di frusta se non morite dal ridere!» [78]

Nel 2008 Siné Mensuel è cacciato dalla redazione con l’accusa di antisemitismo per una battuta sul figlio di Sarkozy che allude al legame tra ebraismo e riuscita sociale. Il giornalista Claude Askolovitch, per compiacere il presidente, la denuncia come antisemita; Philippe Val, direttore di Charlie Hebdo, condanna il testo di Siné, che però rifiuta di scusarsi. Nel contenzioso con la redazione, il giudice riconosce le ragioni del disegnatore, che quindi fonda un proprio giornale, dal quale ora giunge un omaggio agli ex colleghi massacrati dalla strage. [79] Sempre nel 2008 e poi nel 2012-2013, il modo con cui è trattata la vicenda di Gaza, pur evitando scontatezze antisemite, suscita il risentimento di Israele; nel frattempo Val, accusato di censura interna, nel 2009 è sostituito nella direzione da Charb, che orienta verso un maggiore radicalismo.

La linea critica e antidogmatica del giornale non può presupporre accordi unanimi e sembra quindi conoscere, più che incrinature, pieghe tra loro irriducibili. Si possono però vedere in alcune posizioni i riflessi di questioni alle quali spesso non si è in grado di dare risposta alcuna. Un problema da affrontare con strumenti adeguati riguarda le difficoltà ideali e progettuali della cosiddetta sinistra, che generalmente nasconde dietro l’ostentazione di stereotipi l’incapacità di rispondere ai propri compiti. Un altro argomento controverso è relativo ai limiti di un’impronta laicista e anticlericale, costretta a rimanere chiusa in autocompiacimenti a propria volta assolutisti, erroneamente identificati con lo spazio delle imprescindibili libertà laiche. Tuttavia, i fallimenti del ribellismo sessantottardo, i cui slogan sono diventati così vuoti da andare ormai bene per qualsiasi marketing e vendere un po’ di tutto, hanno una portata drammaticamente molto più vasta rispetto all’esempio offerto da una rivista felicemente atipica.

Ad aver esposto Charlie Hebdo al rischio estremo è pertanto proprio la provocazione sistematica e programmatica che dipende dal particolare potere della satira, il cui continuo esercizio di critica è corrosivo al punto di svincolarla dalle stesse opinioni che produce, confondendo irrimediabilmente con la propria libertà quanti restano prigionieri di esclusive rivendicazioni identitarie e di logiche di branding: particolarmente schiaccianti e suscettibili laddove il ruolo decisivo non è tanto del potere politico-parlamentare quanto di quello economico-finanziario, molto più suscettibile, pervadente e pericoloso.

L’esercizio di una critica radicale sembra impossibile in un’informazione dominata dal pensiero unico e che pretende assolutezza anche dove crede di fare il contrario, come quando si balocca con i vizi epistemologici delle teorie del complotto, che sostituiscono alle “narrazioni ufficiali” i racconti dell’improbabile per offrire rifugio estremo delle difficoltà di venire a capo del mondo alle anime troppo belle o a quelli che ambiscono sentirsi tali. Sempre sulle pagine di Charlie Hebdo, Jean-Yves Camus stronca i complottismi per la loro capacità di trovare in ogni contraddizione una prova supplementare delle proprie ragioni, riuscendo così soltanto a propagare sospetto e impotenza. Cita alcuni riferimenti: Thierry Meyssan, che riannoda tutto agli USA, Alana Benayam, che riporta ogni cosa alla CIA e al Mossad, il sito americano McClatchy, per il quale gli assassini sono strumentalizzati dai servizi segreti francesi. [80] Pur se è opportuno considerare, laddove siano presenti, argomenti d’impianto [81] e dettagli decisivi, [82] le posizioni problematiche vanno valutate, consapevoli della natura illusionista della comunicazione, in modo diverso rispetto alle paranoie totalizzanti, cercando piuttosto l’incrocio tra emergenze geopolitiche e assetti culturali, ricostruendo contesti ma senza generalizzare induzioni, tentando congetture che non si riducano all’applicazione di teoremi zoppi.

Ad ogni modo, è evidente che rappresenta un’omissione grave lasciare senza protezione un obiettivo sensibile che già aveva subito gravi attentati e i cui rischi erano stati prontamente segnalati da soffiate provenienti dall’Algeria. Laurent Lèger ricostruisce i buchi della riforma completata del primo ministro Valls, che proprio in gennaio ha fuso l’ente del controspionaggio (DST) con quello d’informazioni sul terreno (RG) nella Direzione centrale della Sicurezza Interne (DGSI), che si è così trovata a manovrare gingilli elettronici e sul punto di assumere 436 ingegneri ma senza nessuno a lavorare sul campo: una particolare associazione di autoritarismo e incapacità pronta soltanto a subire attacchi. [83] Gli autori dell’attentato erano peraltro anche soggetti noti: uno dei fratelli Kouachi, apparentemente impegnati in una «vita irreprensibile», era stato nei campi di Yemen e Siria, Coluabaly era stato fermato e rilasciato pochi giorni prima, e se sembrava un rapper era però devoto all’IS. Centinaia di altri «agenti dormienti» sono pronti, e non è la satira a creare problemi: sono i servizi segreti a prendersi per il culo da soli. [84]

Dopo la strage a Charlie Hebdo, le minacce hanno coinvolto anche Le Canard Enchainé, il principale giornale satirico francese. Rob Wainwrightm, capo di Europol, denuncia la presenza di un numero tra 3.000 e 5.000 europei che hanno raggiunto gli jihadisti in Medio Oriente e in Africa, che potenzialmente potrebbero tornare per compiere attacchi. [85] Se è vero quanto dichiara il direttore della CIA John Brennam sulla necessità di intensificare la collaborazione internazionale, «non certo per sterminare gli avversari, ma per individuare quei fattori che consentano loro di crescere», [86] si conferma che per i futuri dispositivi di difesa occorrano, piuttosto che l’uso della forza, capacità previsionali e preventive di eventuali minacce e la piena attivazione di una rinnovata diplomazia.

Per disporre accordi di promozione culturale e sviluppo di risorse, è necessario preparare il terreno a «guerrieri filosofi» di elevata professionalità. [87] I sordidi mestieri di agente segreto e di assistente sociale potrebbero così riscattarsi a vicenda, riassorbendo l’intellighenzia costretta alla fame dal perdurante gioco al ribasso di università, aziende e amministrazioni. Occorre inoltre anche disinnescare il disagio delle banlieues che alimenta violenza e connivenze logistiche con i terroristi, [88] e tentare quantomeno di affrontare la diffusa disperazione sociale nella quale trovano alimento supposte apologie e che soltanto nel caso in questione hanno già coinvolto più di cinquanta persone e il comico Dieudonnè. [89]

È poi puerile continuare a credere che colpa o soluzione di tutto dipendano sempre negli USA: successivamente ai disastri delle guerre di Bush II, che dovrebbe comunque essere portato di fronte ad un tribunale per crimini contro l’umanità, ha vinto la stanchezza. Il paese, nel bene o nel male davvero convinto d’essere missionario della libertà, preferisce perlopiù coordinare le operazioni a distanza. Né Obama, né il vice Biden, né il segretario di stato Kerry hanno partecipato al corteo di Parigi: probabilmente, gli americani non hanno nessuna intenzione di impegnarsi troppo in un’altra guerra al terrorismo. [90] Potrebbe quindi ritrovare senso un’Europa in grado di riprendere gli investimenti e di una politica estera e difesa comune, differenziando le proposte all’interno tanto dell’Occidente quanto dell’Eurasia, comprendendo gli equilibri regionali in cui si va definendo la globalizzazione. [91]

L’Euro è stato finora un fallimento: tuttavia, sarebbe ancora peggio recedere e andare incontro all’inflazione determinata dal varo di nuove monete nazionali che comunque non potrebbero prescindere dal quadro della globalizzazione. Piuttosto è opportuno promuovere una crescita economica qualitativa rilanciando spesa pubblica su innovazione, servizi e cultura: beni immateriali, ma legati ai territori. [92] Queste misure dovrebbero supportare il rilancio operativo di razionalità, giustizia, democrazia, libertà individuale, laicità, tolleranza; l’istituzione di una difesa autonoma dalla NATO è da concepire seguendo la vocazione del continente alla cultura. [93] Agire in controtendenza con gli stereotipi della crisi può permettere di lasciare alle spalle i vecchi stanchi ritornelli del mercato e del profitto, per ritrovare quella costante capacità di mettersi in discussione e diventare altro: quanto rende l’Europa tale.

Con buona pace dello strano etnocentrismo di chi crede che l’Occidente sia, per quanto in negativo, onnipotente e assoluto, il terrorismo di matrice islamica esiste davvero, e da tempo è avviato verso l’esercizio di modelli asimmetrici e reticolari nella pratica bellica quanto nelle strategie comunicative. Nella gestione della risorse finanziare non è da meno degli aderenti ad altre religioni, [94] ed è intenzionato ad imitare a beneficio dei sunniti le forme statali con cui gli ebrei hanno ridefinito il moderno Israele. [95] I rischi che derivano all’Occidente dall’aver permesso tali aberrazioni e dal non riuscire a contenerle sono enormi, dato che ogni mezzo è lecito per indebolire l’avversario e, come ricorda il gen. Fabio Mini «le vittime civili, in spregio di tutte le norme del diritto internazionale, militare e costumi di codici di guerra, sono tornate il vero obiettivo delle guerre». [96]

Se ogni cultura è plurale, anche il terrorismo non è soltanto uno. Al Qaeda e IS si contendono gli aspiranti jihadisti a colpi di stragi e di media. La joint venture che si determinerebbe con le azioni dei fratelli Kouachi e Coluabaly trova un contraddittorio nel fatto che le formule dei due “marchi”, basate rispettivamente sul rigorismo fondamentalista e sull’uso spregiudicato della comunicazione, sembrano inconciliabili. [97] Ad ogni modo, la vicenda di Ahmed Berabet, uno dei poliziotti uccisi a Parigi, fa comprendere che i danni degli attentati ricadono soprattutto ai musulmani integrati, spesso anche i più credenti. Le moschee sono controllate dalla pubblica sicurezza e in costante dialogo con le parrocchie, l’Islam è la seconda religione in Europa e non è niente affatto un insieme monolitico e unitario: una coesistenza serena può portare soltanto ad arricchimenti vicendevoli, anche perché tutti, indipendentemente da sesso, razza e religione, siamo subordinati e sfruttati da poteri banalmente terrestri. [98] Le possibilità di un equilibrio non mancano e non sono le vignette ad impedirlo.

Bisogna anche farla finita di parlare di un “Islam moderato”, espressione particolarmente simile a quella di “buon negro”. Gli stereotipi culturali allontanano dal presente e aggravano i problemi: i cinque milioni di francesi originari dell’Africa del nord e dell’ovest sono partecipi effettivi alla vita pubblica. [99] Musulmano e francese è Lassana Bathily, diventato simbolo di un Islam di pace e tolleranza per aver salvato numerosi ostaggi ebrei nel negozio kosher chiudendoli in una cella frigorifera; originario del Mali, la sua domanda di cittadinanza era in attesa da nove mesi; sono state depositate 300.000 firme a suo favore e l’ha ricevuta come premio: intrappolato a sua volta, è addirittura riuscito a salvare delle vite da morte certa. [100] Forse, già siamo tutti come rinchiusi, costretti tra orrori quali migrazioni obbligate, diritti negati, terrore quotidiano, follia di massa: eppure, ottenere una cittadinanza non può nemmeno ridursi soltanto ad una specie di gioco a premi: l’ospitalità incondizionale di cui parla Derrida, l’«esporsi senza limiti alla venuta dell’altro», deve essere definitivamente posta al centro d’ogni pratica. [101]

La Francia è parte di quell’Europa capace di procedere sovvertendo di continuo se stessa, forza tranquilla e largo sguardo da ritrovare in ognuno di noi. Se ai danni del giornale satirico è stato compiuto il più grande attentato sul territorio francese da cinquant’anni, il paese ha sempre destabilizzato e rinnovato se stesso grazie alle proprie menti migliori. Serge Gainsborg con Aux armes et cætera (1979) rielaborò La Marsigliese in stile reggae, ottenendo minacce di morte dai reduci della guerra in Algeria: oggi è storia. La storia ancora procede e nonostante le guerre religiose nelle quali vogliono incastrarci esige tutto «l’irrispetto democratico» possa servire. [102] Che moriremo è certo: viviamo ridendo.

[1] Soren Seelow, “C’est Charlie, venez vite, ils sont tous morts”, «Le Monde» 13.01.2015.

[2] Anais Ginori, Strage Charlie Hebdo: il poliziotto Christophe Crepin: “Il mio amico Ahmed, musulmano praticante”, «Repubblica» 9.01.2015.

[3] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), Garzanti, Milano, 2000 p. 65, passim.

[4] Charlie Hebdo, Al Qaeda in Yemen rivendica: “Vendetta per il Profeta”, «Il Fatto Quotidiano» 14.01.2015.

[5] Corano XLVII, La Sura di Muhammad, 4-6.

[6] Corano XXII, La Sura del Pellegrinaggio, 39-40.

[7] Gabriele Mendel, Il Corano senza segreti (1994), Bompiani, Milano 2002, pp. 182-187.

[8] Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini&Castoldi, Milano 2002, pp. 58-59.

[9] Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, pp. 10-11.

[10] Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano 1987, p. 275.

[11] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia (1876), Adelphi, Milano 1977, pp. 50-63.

[12] Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male § 108 (1886) Newton Compton, Roma 1984 , p. 99.

[13] Robert Darnton, L’intellettuale clandestino (1982), Garzanti, Milano 1990, pp. 38-39, passim

[14] Pascal Engel – Richard Rorty, A cosa serve la verità (2005), il Mulino, Bologna 2007, pp. 54-55

[15] Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, § 40, cit., p. 72.

[16] Tersite, Ma chi è Charlie? «Il nuovo Male» n. 21, 02.2015, p. 1.

[17] Charlie Hebdo e la sfilata dell’ipocrisia, «Linkiesta» 13/01/2015.

[18] «Charlie Hebdo» n. 1178, 14.01.2015.

[19] «Charlie Hebdo» n. 1177, 7.01.2015; n. 1178, cit.; AAVV, Je suis Charlie. Matite in difesa della libertà di stampa, Corriere della Sera/ Rizzoli Lizard, 2015, p. 17.

[20] «Charlie Hebdo» n. 1178, cit.

[21] Renato Farina, Tutti avete visto la famosa copertina di Charlie Hebdo. Ma l’avete guardata bene?, «Tempi», 26.01.2015.

[22] Nadia Francalacci, Charlie Hebdo: parla il direttore del Vernacoliere, «Panorama» 8.01.2015.

[23] Cabu, Peut-o (encore) rire de tout?, «Marianne» n. 925, 9/15 gennaio 2015, p. 4.

[24] Michel Houllebecq, Le particelle elementari (1998), Bompiani, Milano 2003, pp. 56-57.

[25] Eric Mettout, Les religions et Charlie Hebdo: je te déteste, moi aussi, «L’Express» 31/12/2012.

[26] Monia Rocco, L’intellettuale arabo tra impegno e dissenso, Jouvence, Roma 1999, pp. 55-60, 70-84.

[27] Marco Lillo, Il boicottaggio dei furbetti della “libera” informazione, «Il Fatto Quotidiano» 15.01.2015.

[28] Alessio Cimarelli, Matite spuntate al Corriere della Sera,  «DataMediaHub»16/01/2015.

[29] Davide Pittoni – Stefano Tieri, Se le gabelle del diritto d’autore affossano i nostri studi, «pagina99we» n. 75/76, 3.01/16.01.2015.

[30] AAVV, Je suis Charlie, Matite in difesa della libertà di stampa, cit., p. 31; Don Alemanno, Jenus di Nazareth – pillola 132, 7.01.2015.

[31] Emiliano Fittipaldi, Quei coglioni di Charlie Hebdo, «BlogAutoreEspresso», 12.01.2015.

[32] Laura Crinò, Le reazioni dei media mondiali al nuovo Maometto in copertina, «L’Espresso» 14.01.2015.

[33] Benedetto Ippolito, Charlie Hebdo, la libertà religiosa e il senso del limite, «Formiche» 16.01.2015.

[34] Iran: Teheran, attacco a Charlie Hebdo risultato politiche della Francia, «Adnkronos»  24.01.2015.

[35] Francois Heisbourg, Ne pas Légiferer dans la Precipitation, «Marianne» n. 925, 9/15.01.2015, p. 15.

[36] Dario Antonelli, L’unione sacra del terrore, «Umanità Nova» 1/1985, 18.01.2015, pp. 1-4.

[37] Karim Metref, Mi dispiace ma io non sono Charlie, «Divag-azioni» 8.01.2015.

[38] Le proteste contro Charlie Hebdo nel mondo musulmano, «Internazionale» 17.01.2015: Irene Buscemi, Moschea di Roma, musulmani: “Charlie Hebdo continua a provocare. Stop a pubblicazione, «Il Fatto Quotidiano» 17.01.2015; Niger: proteste anti-Charlie, rogo chiese, Ansa, 17.01.2015.

[39] Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (1955), Mondadori, Milano 1988, p. 444.

[40] Lorenzo Fazio, Sulla libertà a rischio di noi editori e dei nostri silenzi, «Il Libraio» 16.01.2015.

[41] Averroè, Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia (1180), Rizzoli, Milano 2008,  p. 105, 57, passim.

[42] Al Jabri, La ragione araba (1982), Feltrinelli, Milano 1996, p. 120, 29; Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, il Mulino Bologna 2009, p. 48-58.

[43] Leo Strauss, Atene e Gerusalemme (1983-1989); Roberto Esposito, Introduzione, Torino, Einaudi 1988, pp. 24-27; p XXXI.

[44] Adel Theodor Khoury, Ebraismo Cristianesimo Islam (1991), PIEMME, Casale Monferrato (AL) 2003, pp. 250-251.

[45] Gian Enrico Rusconi, Cosa resta dell’Occidente, Laterza, Bari 2012, pp. 122-123.

[46] Fatima Mernissi, L’Harem e l’Occidente, Giunti, Firenze 2000; Lidia Verdoliva, La Donna nel Mediterraneo: Il Velo – Lo hijàb dell’Occidente: la taglia 42, Università degli studi di Napoli “Federico II” / Dipartimento di Filologia Classica, 2007.

[47] Fatima Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernità (1992), Giunti, Firenze 2002, pp. 140-153-188; Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, il Mulino Bologna 2009, p. 194.

[48] Corano, XXX, 1-6; Piero Calò, L’Islam e l’eredità bizantina, Edizioni all’Insegna del Velcro, pp. 13-15, 60-61.

[49] Corano, Sura XVIII, 83-98; Gabriele Mendel, Il Corano senza segreti (1994), Bompiani, Milano 2002, p. 164.

[50] Rinaldo Panetta, I Saraceni in Italia (1973), Mursia, Firenze 1998,

[51] Henri Pirenne, Maometto e Carlo Magno (1937), Laterza, Bari-Roma 2007, passim

[52] Catia Renzi Rizzo, I rapporti diplomatici fra il re Ugo di Provenza e il califfo ‘Abd ar-Ramân III: fonti cristiane e fonti arabe a confronto, «Reti Medievali Rivista» III/2 –7/12.2002.

[53] Franco Cardini, Il movimento crociato, Sansoni, Firenze, 1972, passim.

[54] Michel Houllebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano 2015, pp. 30-31.

[55] Giuseppe Rizzo, Michel Houllebecq è una carogna, «Internazionale», 17.01.2015.

[56] Henri Samuel- Andrei Marszal, ‘Islamophobic’ Michel Houellebecq book featured by Charlie Hebdo published today, «The Telegraph» 7.01.2015.

[57] «Charlie Hebdo» n. 1177, cit., p. 16.; Joe Marelli, Charlie e Cialtroni, «Umanità Nova», a.1 n.95, 18.01.2105, p. 4.

[58] Prima sezione penale della Corte di Cassazione, Sentenza n. 9246/2006.

[59] Jorge L. Borges, La ricerca di Averroè, in L’Aleph (1949), Tutte le Opere vol. 1, Mondadori, Milano 1986, p. 846.

[60] Stefano Montefiori, Michel Houellebecq: “Niente in Francia sarà più come prima. Sì, ho paura anch’io…” «Il Corriere della Sera», 15.01.2015.

[61] San Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi, 6, 1-12.

[62] Maurizio Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto, Bompiani, Milano 2006, passim.

[63] Slavoj Žižek, Il cuore perverso del cristianesimo (2003), Meltemi, Roma 2007 p. 27, passim

[64] Mario Perniola, Del sentire cattolico, 2001, il Mulino, Bologna, p. 16, passim.

[65] Levitico, 24, 25.

[66] Abraham Cohen, Il Talmud (1935), Laterza, Bari-Roma 2003, p. 251, 278.

[67] Erich Fromm, La Legge degli Ebrei (1922), Rusconi, Milano 1983, p. 163-166.

[68] Sigmund Freud, Il motto di spirito (1905), Bollati Boringhieri, Einaudi, Torino 2013, passim.

[69] Palestinese anonimo, Omelia arabo-cristiana dell’VIII secolo (750 ca), Città Nuova, Roma 1994, p. 53, 97, passim.

[70] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), cit., pp. 25, 88, passim.

[71] Edward W. Said, Orientalismo (1978-1995) Feltrinelli, Milano 1999, p. 100, passim.

[72] Walter Benjamin, Capitalismo come religione (1921), il melangolo, Genova 2013, pp. 41-45.

[73] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, «Il Corriere della Sera», 29.09.2001.

[74] Henri Maler, Quand Charlie Hebdo et Le Monde rivalisent d’esprit libertaire, «Acrimed»  3.11. 2002.

[75] AAVV, Je suis Charlie. Matite in difesa della libertà di stampa, cit., p. 11.

[76] Wikipedia: Caricature di Maometto sullo Jylland-Posten, 19.01.2015.

[77] Ensemble contre le nouveau totalitarisme, 3.2006.

[78] Thibaut Pezérat – Soasig Quémenér, Dix Ans de menaces, «Marianne» n. 925, 9/15.01.2015, p. 12.

[79] Alessandro D’Amato, Siné, il vignettista cacciato da Charlie Hebdo per antisemitismo, «Nextquotidiano» 13.012015.

[80] Jean-Yves Camus, Les charognards du complot, «Charlie Hebdo» n. 1178, p. 4. 14.01.2015.

[81] Piotr, Charlie Hebdo e gli spudorati, «Megachip Globalist», 9.01.2015.

[82] Tierry Meyssan, Qui a commandité l’attentat contre Charlie Hebdo? «Voltaire.net», 7.01.2015.

[83] Laurent Lèger, Antiterrorisme: dens trous dans le filet, «Charlie Hebdo» n. 1178, cit, p. 4.

[84] Tommaso Canetta, La pessima figura dei servizi segreti, «Linkiesta», 11.01.2015.

[85] Marco Moussanet – Ivan Cimmarusti, Terrorismo, Eurogol: “Ci sono 5mila giovani europei nella Jihad pronti a colpire”, «Il Sole 24 Ore», 13.01.2015.

[86] John Brennam, Sempre più imprescindibili, «Formiche» a.X n.97, 11.2014, pp. 8-9.

[87] Luca Di Bartolomei, Fate largo al guerriero filosofo, «Limes» 7/2013, pp. 181-188.

[88] Charlie Hebdo, perquisizioni e una decina di fermi nelle banlieue a Parigi, «Huffington Post», 16.01.2015.

[89] Gianni Rossi, Il comico Dieudonnè arrestato per “apologia di terrorismo”, «Huffington Post» 14/01/2015.

[90] Alberto Negri, L’assenza di Obama alla marcia di Parigi non è casuale, «Il Sole 24 ore», 12.01.2015.

[91] Una Nuova Europa contro il Nuovo Terrorismo, «Il Sole 24 ore», 15.01.2015.

[92] Mauro Callegati, Vie di fuga, Ogniuomoètuttigliuomini, Bologna 2014, pp. 17-20.

[93] Tzvetan Todorov, Il nuovo disordine mondiale, Garzanti, Milano 2003, pp. 53-72.

[94] Loretta Napoleoni, Con il nuovo modello finanziario è cambiato anche il sistema di terrore, «Il Fatto Quotidiano», 7.01.2015.

[95] Loretta Napoleoni, Isis. Lo stato del terrore (2014) Feltrinelli Milano 2015, p. 17.

[96] Le vittime civili sono tornate il vero scopo della guerra”. Mary Kaldor della London School of Economics, «L’antidiplomatico» 28.07.2014.

[97] Giuliano Battiston, La guerra mediatica tra Al Qaeda e Isis, «pagina99we» 28.11.2014.

[98] Livia Baratta-Stefano Allievi, Islam: istruzione per l’uso, «Linkiesta» 9.01.2015.

[99] Ahmed Benchemsi, Le musulman modere: una version actualisee du bon negre, «Le Monde», 16.01.2015.

[100] Lassana Bathily riceverà la nazionalità francese, «Internazionale», 15.01.2015.

[101] Jacques Derrida, Stati canaglia, Raffaelo Cortina Milano 2003, pp. 210-211.

[102] Joseph Mecé-Scacron, L’Épreuve, «Marianne» n. 925, 9/15.01.2015, p. 4.

Fotografia: Claudio Comandini, “Maometto all’inferno” – Bologna, gennaio 2015.

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