I colori del noir

Noir e letteratura. Daschiel Hammett e “The Maltese Falcon”. I racconti di “Tutto il nero dell’Italia” e la provincia italiana. Paranoia e trastullo. Mistero ed eccellenze.

 

1. Il giallo e il nero

Crimine e corruzione per le buie strade della città, avvolte da tristezza e cinismo. Tra le diverse epoche che favoriscono tali ambientazioni, forse il riferimento più pieno può trovarsi negli anni trenta che, tra crisi economica e populismi politici, sembrano molto somigliare ai tempi nostri, dove tale dimensione si estende dalle metropoli ad ogni provincia. Tuttavia, ormai tutte le lotte sembrano già sbagliate prima ancora di essere intraprese e manca un pessimismo capace di sistematicità: il nostro caos ama i paradossi, esige procedure rigorose ma trascura ampiamente ogni logica, soffre di una necessità implacabile che però sembra non chiedere più soluzioni.

Prende così forma un’assenza estrema, dalla presenza a volte ingombrante. Possiamo anche chiamarla male. Suo simbolo ricorrente è il nero. Mentre il rapporto tra globale e locale incrementa le problematiche, pure nella narrativa italiana in Italia si impone il termine noir, inizialmente conferito dai francesi in ambito cinematografico. Una dimensione oscura e contraddittoria, densa di assurdo realismo, che prospera sul malaffare, di carattere poliziesco ma senza giustizia. Il noir è questo, ma può conoscere anche altre trame, le sua maglie ampie e sfumate confinano spesso con quelle di un altro colore, il giallo, caratterizzato a sua volta da fitti intrecci, conseguenzialità rigida e finale a sorpresa, il cui nome deriva da una vetusta convenzione editoriale tutta italiana

La pessima letteratura prende molti colori, più spesso nessuno; quella che vale qualcosa, può anche assumere toni gialli o neri, ma non basta mica un crimine o la sua condanna. Deve saper parlare oltre generi e stili e anche indipendentemente dalla storia, nella quale sussiste sempre una relazione tra schema narrativo e senso del mondo: proprio il romanzo consiste nella propria forma più pura nell’applicazione letteraria di un modello scientifico. Il punto è però che nell’intreccio di complessità di questo nostro strano reale saltano cause ed effetti, casi e soluzioni, e pur se domina l’assurdo c’è sempre una ragione ostinata ad investigare.

The Maltese Falcon (1930) di Daschiel Hammett, dal quale sono stati tratti tre diversi film, tra cui quello celebre con Humphrey Bogart diretto da John Huston nel 1941, formula alcune caratteristiche dell’hardboiled americano: scrittura asciutta, personaggi cinici, intrecci complessi, colpi di scena e dialoghi serrati; il detective Sam Spade, bevitore e fumatore convinto, duro, scaltro e moralmente ambiguo, protagonista del romanzo e di tre racconti, ne rappresenta l’emblema. Il ritmo della narrazione è scandito tra eleganza e volgarità, le descrizioni si soffermano su dettagli caratteristici e bizzarri. Lettura materialista della società, suggestioni gotiche e competenze investigative si fondono in un’urbanistica del crimine agitata da esistenze insensate che trovano scampo nell’esercizio di una grottesca ironia e nel portare a termine il proprio lavoro.

Quasi un secolo dopo le nebbie californiane di Hammett, la metropoli ha ormai espansione globale e il malaffare fiorisce con tutta evidenza anche nei luoghi più poveri della provincia italiana che, nera, fluida e puzzolente com’è, si offre a più di una metafora, trovando spesso esiti in storie lineari e frammentarie. Ad ogni modo, complicata o semplice che sia, una storia bisogna sempre saperla raccontare. Possono però ispirare diffidenza giallisti indaffarati a far credere di essere in grado di risolvere i misteri d’Italia e le sorti dello scrivere che però rispetto alle questioni più specifiche non sembrano mai molto svegli: forse, le capacità deduttive gliene hanno fregate tutte i loro personaggi, ed è inutile che i critici cerchino di restituirgliele. Le scoreggianti facilonerie da salotto di cui fanno a gara professorini e scrittorelli in cerca di visibilità e legittimazioni possono essere asfissianti, ma passano in fretta. La pluralità di codici nella quale si muove lo scrivere contemporaneo può venir tematizzata senza forzare patenti di letterarietà sulla base di modesti postmodernismi fuori tempo massimo.

In ogni forma in cui può essere proposta, la scrittura esige un interrogarsi e non può compiacersi di finzioni fini a se stesse. Se Hammett aveva una vocazione sperimentale e perseguiva il preciso intento di elevare la detective fiction a forma d’arte, da un po’ di tempo va di moda abbassare gli standard culturali per farci entrare tutto e compiacere un pubblico che forse neanche esiste; alla base di tali aberrazioni, uno scrivere concepito quale puro rispecchiamento personale. Un po’ come farsi una pippa e chiamarla sesso. Codificare il noir per costituire un’accademia, pur se trucida, e formulare una morale, per quanto contorta, è una preoccupazione propria a queste masturbazioni. Gli esempi possono anche incappare in qualche successo, ma questo non vuol dir nulla. Pretendere meriti per una commercialità spinta che vuol piacere esibendo l’assenza d’ambizioni stilistiche è un po’ come tagliarsi il cazzo per evitare di offendere chi non lo ha, credendo che questo possa soddisfare qualcuno. Cosa diversa può però formularsi cercando particolari cifre stilistiche in una letteratura chiamata all’appello da un presente che come ombra ci accompagna e sfugge di continuo.

 

2. Cartografia dell’Italia in nero

Gialle e nere sono anche le Pagine Gialle. Nell’ormai sterminata produzione di noir italiani, consultiamo assumendo come loro parzialissima forma l’antologia Tutto il nero dell’Italia (Edizioni Noubs, 2007). Venti racconti di autori diversi, uno per regione, ambientati in venti differenti città, per un ritratto della penisola in nero che può evidenziare portate e limiti della narrativa di genere. La prefazione di Valerio Varesi evidenzia che le narrazioni capaci di rappresentare con efficacia il mondo odierno si avvalgono perlopiù degli schemi dell’investigazione poliziesca; si può aggiungere che tali narrazioni prediligono spesso, e non a caso, argomenti di cronaca nera o comunque legati al mondo del crimine, mentre spesso a livello stilistico sfuggono alle canonizzazioni narrative per aderire in maniera più diretta a vissuti e situazioni reali.

Tali narrazioni forniscono voce immediata a questioni urgenti che riguardano gli squilibri del paese e il senso di vuoto personale, quali le morti bianche provocate dalla speculazione e quelle determinate dalla quotidiana follia domestica. Il confine tra routine ed esplosione omicida è molto labile: il male, più che banale, è addirittura normale, legato ad un «autoaffermazione» che o «presuppone l’annullamento dell’altro», o procede «verso una cupa dissolvenza di sé».

Queste piccole pagine gialle del disagio descrivono così un paese definibile come post-federalista. Le amministrazioni locali esasperano i drammi nazionali, gli scorci paesaggistici s’impongono con molta più nettezza che nei vecchi intervalli delle bianco e nere televisioni di una volta, i dialetti sono riconosciuti come lingue proprio mentre si contaminano con slang di altre provenienze oppure si perdono definitivamente. La sfida effettiva, del tutto opposta alla retorica del localismo, e non sempre raccolta, è che la promozione di ogni ambito a territorio letterario possa permettere alle diverse regioni e città di recuperare un proprio cosmopolitismo, che peraltro apparteneva loro ancor prima dell’essere parte di una nazione più ampia: questo permetterebbe una vasta eterogeneità di posizioni, nessuna di identificabile con una retorica nazionale, nessuna schiacciata su quella povera cosa a cui è ridotta la politica del nostro paese.

Chiara Bertazzoni, curatrice dell’antologia, afferma che questi racconti costituiscono un’Italia «variegata ma solida, poco nota ma proprio per questo tutta da scoprire, che muove i suoi passi attraverso le innumerevoli e cangianti sfumature del nero.» Cerchiamo di orientarci in questa sorta di atlante aiutandoci con il Dizionario dei Simboli di Chevalier e Gheerbrant, per il quale il nero, colore-non colore e controcolore di ogni colore, è associato alla tenebre primordiali ed è espressione della passività assoluta e della perdita definitiva; è però anche simbolo di fecondità, rigenerazione e vita latente. Sono poi neri anche i confini geografici che separano e uniscono regioni e nazioni, e nere sono le parole sulle pagine bianche.

Osserviamo ricorrenze e gradazioni di nero, bianco, grigio e altre tinte, soprattutto del rosso: i colori che prevalgono e alcuni dei più singolari, legati tra loro da differenti ordini di relazioni. «Bianchi e neri» sono i sogni di un matematico innamorato a Bologna (Marinella Lombardi), ma anche la storia di una ragazza pugliese stuprata e uccisa dal proprio cugino (Aleks Kuntz). Bianchi sono i «silenzi di abeti» che ad Aosta ovattano tentazioni maligne di tradimento, furto e omicidio (Fabio Mazzoli). Bianchi sono i soffitti: sotto questi, a Milano sorprende la vista del cadavere di una donna amata uccisa da chi più si stima (Matteo Fraccaro), in un ospedale di Isernia agonizza per nostra responsabilità qualche congiunto (Mirco Cantoro), a La Spezia si macchiano del «lampeggiare di un’ambulanza» per soccorrere inutilmente chi va incontro all’’ennesima morte bianca (M.Merisi). Bianchi soffitti di un casale della Toscana sono «circondati di travi annerite», a Trento appena al disotto vi aleggia una «densa oscurità». Sempre a Trento bianca è la neve, che poi assume l’indefinito colore «sporco e slavato» di una veste nuziale corrotta, di un matrimonio guastato (Renzo Saffi), bianca e «frammista a ghiaccio» torna la neve a Napoli, mentre un amore e altre speranze muoiono (Valerio Lucarelli).

Nera è la laguna di Venezia mentre minaccia pioggia e un alcolizzato è in crisi di violenza (Matteo Scandolin), nero è il «lungo cappotto» di un commissario che a Teramo si scopre solidale con chi ha fatto fuori una strozzina (Igor De Amicis), neri sono il dente cariato e la cravatta di un giovane che a Sassari conquista la maturità uccidendo con una poeticissima scopa in culo il padre padrone stupratore incestuoso (Gianni Tetti). Bui, «incapaci di illuminarsi e offrire calore» sono certi vicoli di Napoli, assimilati alle anime di chi, senza che nessuno se ne preoccupi, ha perduto lavoro e tutto, e sceglie di vendicarsi facendosi uccidere da una persona vicina all’ex-principale (Valerio Lucarelli).

Inesorabilmente grigia è la città, tanto Palermo, «inferno grigio e irrespirabile» (Davide Cammarone), quanto Milano, dove anche nelle descrizioni dei pittori «tutto emana grigio» (Matteo Fraccaro). Grigio è il mare di Trieste, che lascia il suo profumo alla città assieme al «Carso freddo» (Elena Vesnaver). Grigio è il Molise devastato da affari stupidi e criminali i cui gestori effettivi sono i potenti sempre pronti a farla franca (Mirco Cantoro). Le case, presso la collina di Grumento in Basilicata, sono «color pastello», il fiume Agri è sovrastato da pinnaccoli di «roccia brunodorata» (Stefano Santarsiere).

I corpi, finché sono vivi, anche se chi li vede è invisibile, sono circonfusi di colori, ad Ancona come altrove: «aloni grigiastri si tingono di giallo» nel tossico che ruba uno stereo, c’è il «rosso vivo» della «crudeltà spontanea dei ragazzi» e il «rosso marcio cattivo» di quella «rancorosa» degli adulti (Paolo Agaraff). I corpi, come in ogni storia di morti ammazzati, a Torino in Abruzzo e sulla Linea Gotica, si producono in sangue: una rossa chiazza «si allarga sul pavimento» (J. P. Rossano), è poi «sulle mattonelle bianche» (Igor De Amicis), e infine sporca «divise lacere» di nemici assimilati dal morire (Simone Togneri). I corpi morendo si riempiono di «chiazze rossastre» per aver troppo disinvoltamente accettato di lavorare con scorie tossiche (M.Merisi). In questi chiaroscuri pronti a colorarsi di tinte e sfumature, nulla è definito «torbido»: il nero può conoscere persino una propria spietata chiarezza, assumendo in sé alcune delle caratteristiche del bianco a cui solitamente è contrapposto, eppure resta sempre e comunque quel che è.

 

3. Il male e le città

Riccardo Strada nella postfazione al libro La sosta dell’uomo in fuga individua quale tema dominante dei racconti un’esasperata volontà di individuazione che infine si arrende alla fuga, perlopiù dettata da un qualche «oscuro passato»; in tale movimento, la «terra» offrirebbe riparo e consistenza, grazie all’appartenenza ad un territorio e ad una storia, cioè ad una ben definita identità. L’analisi sembra piuttosto di comodo e soffre di un ottimismo insostenibile nelle condizioni effettivamente descritte, indulgendo in un’idea di “bel finale” vecchio stile del tutto inadeguato per storie che possono anche rappresentare il punto di vista di chi sta subendo morte violenta. Piuttosto, una città e una terra non hanno poi nulla di pacifico e sono non soltanto scenario, ma addirittura matrici del male, del disagio e delle innumerevoli identità parziali e mancate con cui abbiamo a che fare. Le cosiddette “radici” rappresentano i presupposti perché un malessere si costituisca e manifesti. Inevitabilmente, e non è neppure una novità, i paesaggi considerati “paradisiaci” nascondono serpenti, che non sempre sono velenosi come usualmente li si dipinge: a volte lo sono di meno, a volte di più.

Percorriamo il repertorio d’orrori quotidiani di paesi e racconti attraverso questa prospettiva, segnalando i nomi degli autori non ancora riportati. La «pace sociale» della Val d’Aosta prepara ignara l’omicidio di un bancario avido verso il suo principale. Trento dalle «strade lastricate di niente» è ancora fermo al Medioevo, come i sentimenti di alcuni suoi abitanti. Il Golfo dei Poeti di La Spezia nasconde veleni chimici mortali. Ancona che, come suggerisce l’etimo del capoluogo marchigiano, «entra in mare come una gomitata», ospita loschi traffici di bambini, non-luoghi degradati da vivaci centri sociali ad antipatiche e costosissime vetrine istituzionali. La volgarità di un’estetista e di un concessionario di Spoleto che praticano il cannibalismo durante i festini e si vantano di «frequentare solo gente per bene» e politicamente influente (Lorella Natalizi). Un numero civico del quartiere romano del Quadraro che diventa teatro di un cambiamento esistenziale per una tossica ingenua, paradossalmente sostenuta nel suo intento da un onesto protettore-spacciatore (Silvia Pantaleo). Una bambina, testimone dell’omicidio di una sua coetanea, evoca il paesaggio calabrese di Nicastro, soltanto dopo averlo lasciato (Fernando Fazzari). Una ragazza sta per essere uccisa dopo aver subito stupro da parte di chi più si fidava: perde la vita, ma non riesce ad abbandonare Giovinazzo e Bitonto, dintorni di Bari. A Trento, Teramo e Sassari, troviamo caffè e bar simili a prigioni, eppure indispensabili alla vita, dei poliziotti come dei delinquenti.

In tutta la penisola, dalle Alpi allo Jonio, dal mare etrusco ad oltre le dorsali appenniniche, terre e città non sono soltanto dentro i racconti: spazi urbani e territori abitano i pensieri dei personaggi molto più di quanto questi possano dirsi protagonisti dei propri contesti civili ed effettivamente dotati di diritto di cittadinanza. I confini geografici e linguistici vanno quindi a costituire dei limiti, sia d’azione (storie e situazioni), che d’espressione (lingue e dialetti): così come nel buffo pensiero del poliziotto corrotto Balena che morendo considera di non essere mai salito sulla Mole Antonelliana di Torino, oppure nelle bombe che oltre il Serchio ricordano la guerra e lo stravolgimento degli abituali riferimenti, oppure nell’incrocio tra via San Petronio vecchio e via Guerrazzi, scenario solenne per quanto inconcludente di un surreale e geometrico flirt.

Il quadro generale non appare confortante, e del resto non sono nemmeno questi gli intenti. All’ombra dello stivale non c’è una statua d’oro che raffigura un falco, donata all’imperatore Carlo V dai Cavalieri di Malta, sottratta dai pirata Barbarossa e poi finita chissà dove: la provincia italiana è nera dentro, tutto qui. Se dal vero è spesso angosciante, come intrattenimento è a volte uggiosa, e non si sa in quale formato riesce ad essere peggiore. Tra le constatazioni possibili, non sembrano però così rilevanti quelle per cui il noir dilaghi «rinnovando nostre inquietudini» e anche se stesso, e che con «sventagliate di mitra» possa svelare la metà oscura dell’Italia, come però scrivono nella quarta di copertina di questo libro rispettivamente Giancarlo De Cataldo e Carlo Lucarelli. Per dire, dilagano molto di più squallore e corruzione, mentre immagini scontate possono rivelare al massimo la metà del niente nel quale siamo immersi.

Uno studioso particolarmente impegnato nello sforzo critico di individuare le modalità narrative del presente quale Raffaele Donnarumma (Ipermodernità, 2014) docente di letteratura a Pisa, evidenzia che le formule noir si esauriscono spesso in paranoia e trastullo, fornendo ricompense piuttosto scarse al degrado esibito.  Infatti, Giancarlo De Cataldo vorrebbe svelare i meccanismi occulti dei crimine organizzato, ma li risolve in semplici formule commerciali; Carlo Lucarelli, pur cercando di variare le atmosfere di riferimento, propaga schemi rigidi sin troppo collaudati e convenzionali; Marcello Fois tenta di estendere codici e stili, eppure si perde in pretese identitarie affollate di soluzioni stereotipate; Cesare Battisti arriva al punto di svuotare in complottismo irrisolto anche i drammi della proprio vissuto. Autori di questo tipo arrivano a neutralizzare le pretese d’impegno in intrattenimento, laddove invece è soltanto una scrittura capace di sostenersi su stessa che può rispondere alla dignità della letteratura e così testimoniare il presente .

La ricerca di un noir quale stile rende così opportuno superare schemi, ideologie e ristrette preoccupazioni di genere, che lasciano nei ghetti paraletterari oppure li estendono indefinitamente. Al riguardo Serena Grizi, giornalista e scrittrice, segnala che laddove presenta zone oscure anche il mistero irrisolvibile dell’individuo, costituiscono esempi noir letterariamente compiuti racconti di Piero Chiara quali I giovedì della signora Giulia (1970) e il romanzo Il re del mondo (2007) di Ivan Cotroneo. Lo scrittore di “genere” Oscar Montani, cercando quanto caratterizza il noir rispetto al giallo, nomina tra le opere letterarie più indicative Il cappello del prete (1888) di Emilio De Marchi, I misteri di Alleghe (1953) di Sergio Saviane, A ciascuno il suo (1966) di Leonardo Sciascia. Il discorso richiede approfondimenti che procedono oltre queste righe.

«La mia maniera di scoprire le cose è incasinarle in maniera violenta e incomprensibile»: il metodo di Sam Spade non si basava sulla soluzione di indovinelli e si faceva strada in un mondo dove gli uomini muoiono per caso e vivono per fortuna, segnato dall’indistinzione tra menzogna e verità. Nel nostro tempo, ogni angolo di mondo arranca verso un globale che sembra impoverirlo e, nel tentare la fuga da noi stessi, scopriamo di non avere scampo di fronte alle nostre nere parole, nelle quali può però offrirsi una testimonianza più vera del reale. Possiamo così fornire alla scrittura una bellezza capace di splendere anche dove tutto è buio e, come già sapeva Hammett, narrare, per non morire.

Fotografia: Claudio Comandini, “Città noir” – Bologna, maggio 2007.

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