Philip K. Dick, il filosofo mascherato

Pubblicazione italiane recenti quali la sterminata teologia dell’”Esegesi” (edizione americana 2011) e il libro critico di John Carré “Io sono vivo voi siete morti” (edizione francese 1993) mantengono vive le attenzioni nei confronti di Philip Dick. Autore di opere decisive per la fantascienza contemporanea come “The man in the Caste” (1962, tradotto come “La svastica sul sole”), “Do the android dream electric sheeps” (1968, conosciuto anche come “Il cacciatore di androidi”, ne è stato tratto il cult-movie di Ridley Scott “Blade Runner”, 1982), non alieno da escursioni nella letteratura mainstream quali “Confession of a Crap Artist” (pubblicato nel 1975 molto dopo la sua stesura e tradotto come “Confessioni di un artista di merda”) e da singolari contaminazioni di generi (“A Scanner Darkly”, 1975 – tradotto come “Un oscuro scrutare”, da cui l’omonimo film con animazioni digitali diretto da Richrd Linklater, 2006) e “Divine Invasion”, 1981, “Divina Invasione”, uno degli ultimi pubblicati in vita. Dick, ormai riconosciuto tra i grandi autori del Novecento, amava definirsi quale «filosofo narrativo»: infatti, le sue narrazioni, decisamente singolari e ricercate al punto di  forzare meccanismi troppo sicuri, non si esauriscono mai nell’intrattenimento e sono sempre funzionali ad avventure intellettuali intenzionate a scandagliare gli incerti fondamenti di un mondo incerto. Le tematiche affrontate riguardano le questioni del potere, i rapporti tra uomo, animale e macchina, quelli tra mistica e droga, tempo e conoscenza. Ne analizza motivi e fortuna uno scritto del grande studioso Antonio Caronia.

 

1. Narrazioni improbabili e paesaggi concettuali

Il 2 marzo 1982, in un ospedale dell’Orange County, California, moriva Philip K. Dick. In quel momento Dick non era ancora diventato un autore di culto (tranne, forse, per certi aspetti, in Francia): era dunque conosciuto solo fra i lettori di fantascienza, genere a cui si era dedicato (volente o nolente – all’inizio della sua carriera più nolente che volente) per tutta la sua vita. Ma in questo frattempo la sua fama è cresciuta, anche fuori dagli angusti confini del genere, e Dick è oggi considerato come uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento.

Con la pubblicazione del sesto e ultimo volume delle Selected Letters, uscito negli Usa nel 2010 (tutto l’epistolario è ancora inedito in Italia), e con l’uscita nel novembre 2011 di una seconda e più corposa antologia (quasi 1000 pagine) dalla Exegesis, il fluviale diario notturno tenuto da Dick negli ultimi otto anni della sua vita a partire dai misteriosi eventi del febbraio-marzo 1974, tutta la sua opera è sostanzialmente pubblicata. Anche in Italia, con la pubblicazione per Fanucci dell’unico romanzo mainstream ancora inedito, Humpty Dumpty in Oakland (Lo stravagante mondo di Mr Fergesson, traduzione di Maurizio Nati, a cura di Carlo Pagetti), l’intera opera narrativa (salvo errore) risulta edita, e in gran parte disponibile.

Anche la bibliografia critica è molto cresciuta. L’ultimo volume di questa bibliografia, da poco uscito negli Usa, è di un autore italiano (speriamo di vederlo presto pubblicato anche nel nostro paese), ed è proprio da questo libro che vogliamo prendere le mosse per ricordare in questo anniversario l’autore californiano. Umberto Rossi è il miglior studioso di Dick nel nostro paese, e sta rapidamente diventando uno dei più autorevoli a livello internazionale. In The Twisted Worlds of Philip K. Dick. A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels (McFarland and Company; dovreste trovarlo agevolmente su qualunque bookshop online), Rossi propone una lettura di venti romanzi dickiani all’insegna di una categoria che merita di essere sviluppata, forse anche al di là delle intenzioni di chi la propone: quella della «incertezza ontologica».

Dico questo perché mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura di Dick. E di riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già “classico”, la qualifica che gli spetta: quella di un narratore-filosofo, capace di innervare i suoi dispositivi narrativi (sia quando sono smaglianti sia quando zoppicano – e gli capitò non di rado) in un vero paesaggio concettuale, in una ricerca sulle vicende teoriche del reale e dell’immaginario, del mondo e del soggetto, che meritano a pieno titolo il nome di “filosofia”. Una filosofia sui generis, questo va da sé, non certo un sistema filosofico originale bello ordinato con le sue categorie e sottocategorie bene intrecciate tra loro, e le deduzioni logicamente corrette e controllate. Questo non è mai stato, né poteva essere, Phil Dick.

 

2. Una smisurata curiosità

Ma Dick è stato capace di una ricerca filosofica, di una vera e bruciante interrogazione sull’avventura umana, di una critica corrosiva e radicale delle categorie con le quali l’uomo definisce la realtà del mondo, la sua propria realtà come “soggetto”, e la verità dell’uno e dell’altro. E questo senza alcuno studio sistematico della filosofia, di nessuna filosofia (né di quella occidentale né di quelle orientali), ma semmai con una pletora di letture affastellate, spesso disordinate, a volte superficiali. Ma gli bastarono quelle, congiunte all’intensità della sua interrogazione su se stesso, alla sua smisurata curiosità sul mondo, alla sua incredibile (spesso ingenua) apertura all’altro, per produrre uno dei corpus più originali di “narrativa filosofica”, un corpus che (a suo modo) non sfigura accanto a quello di.

Voglio precisare che di quanto scritto sopra nulla va in alcun modo attribuito a Umberto Rossi, il quale anzi, consapevole del terreno minato che ha aperto, mette le mani avanti sin dalle prime pagine, e precisa, da buon studioso di letteratura comparata, di volersi «limitare agli strumenti dell’analisi letteraria, con un approccio eclettico che attinge a fonti diverse, senza però mai dimenticare che anche una forma di narrazione ibrida come il romanzo, nato dalla fusione tra il dialogo teatrale e la narrazione in prosa nell’Inghilterra del XVIII secolo (…), dopo tutto non mira ad altro che a raccontare una storia – e non è certo questo lo scopo principale della filosofia».

Quest’ultima affermazione è forse discutibile, ma ciò non impedisce al lavoro di Rossi di presentare una grande quantità di spunti filosofici, per quanto l’autore stia sempre bene attento a non infrangere mai il patto che ha stipulato col lettore, e cioè la sua autolimitazione al terreno della letteratura comparata. Tuttavia mi conforta il fatto che, nella stessa pagina sopra citata, Rossi dichiari: «L’autore non vuole suggerire che un’analisi filosofica delle opere di Dick sia impossibile o inaccettabile; a patto che sia portata avanti da filosofi (accademici o no, poco importa), essa rappresenta un lavoro degno di essere tentato, e potrebbe anche produrre risultati teorici non di poco conto». Concordo. E quindi, da filosofo non accademico (più sinceramente, devo precisare, dilettante), mi auguro che questa ricerca venga tentata. Quello che si può fare in questa sede, mi pare, è solo accennare ad alcune delle direzioni che essa può prendere.

La prima precauzione da osservare, a livello di metodo, è ovviamente quella di non prendere per oro colato tutto quanto Dick scrive sulla propria “filosofia”. Proprio perché anch’egli era solo un filosofo dilettante, spesso entusiasta – e non poche volte ingenuo – per le scoperte che andava facendo nel corso delle sue riflessioni, ci sono nella sua opera strafalcioni ed equivoci madornali. Un solo esempio, fra i tanti, è la superficiale identificazione di una «essenza» del reale («le nude ossa del mondo», come dice nell’Exegesis) con la sospensione del tempo cronologico (che si sarebbe fermato nel 70 e avrebbe ripreso a scorrere solo nel 1974), e la riproposizione di un dualismo sincronia/diacronia identificati rispettivamente con il Logos e il Parakletos (lo Spirito santo).

Spesso non è nelle formulazioni esplicite che va cercata la «filosofia» di Philip Dick, ma nei presupposti impliciti, o in qualche osservazione laterale dei suoi personaggi, come questa pertinente definizione di “realtà” data dal Dio bambino Emmanuel in Divina invasione: «Bisogna sospettare di ogni realtà troppo compiacente. Quando le cose diventano ciò che noi vorremmo, lì c’è frode. È quello che vedo qui. Il tuo mondo ti accontenta, e in questo si svela per ciò che è. Il mio mondo invece è testardo. Non cederà. Ma un mondo recalcitrante e implacabile è un mondo reale». Un lavoro che sarebbe molto utile, quindi, è quello di passare in rassegna tutti i momenti in cui Dick affronta esplicitamente temi filosofici, confrontarli se possibile con i passi analoghi dell’Exegesis (opera ben più densa al riguardo delle opere narrative), e operare una prima classificazione e confronto fra i temi “espliciti” e quelli impliciti.

Il secondo passo sarebbe quello di identificare gli assi portanti (se si possono individuare) della “filosofia” dickiana. E qui, per esempio, leggere – o rileggere – le intenzioni espresse da Dick confrontate con le realizzazioni. Ora, non voglio contraddirmi subito sconfessando quanto ho appena detto. Non voglio, cioè, anticipare alcuna conclusione di una ricerca che (ripeto) è ancora largamente da fare. Ma mi sarà consentito di dichiarare almeno un’impressione, e che cioè, a volte, ciò che Dick dichiara esplicitamente vada preso più sul serio di quanto sinora tutti noi non abbiamo fatto. Mi riferisco alla sua dichiarazione sulle due domande fondamentali che stanno alla base di tutta la sua narrativa, di tutta la sua ricerca: «Che cosa è reale?» e «Che cosa è umano?» (Come costruire un universo che non cada a pezzi, 1978).

 

3. Interrogativi sull’umano

Questa dichiarazione, con l’accostamento dei due temi, è stata citata e ripetuta talmente tante volte da diventare (credo) quasi un luogo comune, un patrimonio condiviso di ogni lettore “forte” di Dick. Essa comporterebbe, a rigore, l’idea che nella narrativa di Dick coesistano due dominanti, una ontologica e una epistemologica, una sul mondo e una sull’uomo (o meglio sul soggetto). E tuttavia (posso sbagliare, certo), mi pare che gran parte della ricerca letteraria, concettuale, interpretativa, sulla narrativa di Dick, si sia concentrata prevalentemente sull’aspetto ontologico. Montagne di pagine sono state scritte sulla concezione dickiana della realtà, sul tempo percettivo e il tempo ortogonale, sugli universi paralleli, sulla concezione della tecnica, sulla visione della storia. Forse questo deriva dall’ipotesi (che forse è un pregiudizio, e forse andrebbe più attentamente verificata) che, mentre la dominante della narrativa modernista era la questione del soggetto, nella narrativa postmodernista (in cui Dick viene di solito arruolato) la preoccupazione dominante sia la realtà, cioè l’ontologia.

Ora, non voglio affermare che la seconda domanda di Dick («Che cosa è umano?») non abbia ottenuto un’attenzione ampia: forse la mole di pagine scritte su questo argomento è equivalente (se non addirittura superiore) a quella scritta sulla questione della realtà. Ma mi pare che la domanda sull’uomo sia stata letta spesso (forse prioritariamente) come un interrogativo sui criteri di distinzione fra uomo e androide, sul confine tra naturale e artificiale, e sia stata quasi sempre scollegata dall’altra, quella sulla realtà. O, se devo esprimermi ancora più sinceramente, che l’aspetto filosofico della domanda sull’uomo non abbia ricevuto la stessa attenzione dell’aspetto filosofico dell’altra domanda, quella sulla realtà.

L’osservazione vale anche come autocritica, perché mi pare di essere caduto anch’io in un equivoco del genere (se scorro La macchina della paranoia, non mi pare di trovare più di una timida affermazione, fatta una sola volta, che per capire meglio l’ontologia di Dick si debba esplorare più a fondo l’epistemologia dei suoi personaggi).

 

4. La verità di Foucault

Se devo essere sincero sino in fondo, rimpiango di non avere inserito nel Lessico dickiano della nostra enciclopedia due voci che invece adesso inserirei senza esitazione: “soggetto” e “verità”. Anche questa riflessione mi è stata ispirata da una osservazione, folgorante, letta nel libro di Rossi: «Nella narrativa di Dick, la verità non è uno stato di cose, non è qualcosa di stabile e fissato una volta per tutte: la verità è un evento». Quando l’ho letta, sono sobbalzato sulla sedia. Non so se Rossi sia consapevole di avere usato, alla lettera, la definizione della verità che Foucault ha dato più volte nei suoi ultimi corsi al Collège de France, quelli sul governo di sé e sul coraggio della verità.

Non credo ci sia alcuna possibilità che Dick abbia mai letto Foucault, molte delle cui opere erano pure disponibili, in Usa e in versione inglese, negli ultimi anni di vita dei due (Foucault morì due anni dopo Dick, essendo nato due anni prima). Ma adesso, d’un colpo, mi pare che molti dei personaggi dickiani siano immersi in quei processi di soggettivazione, in quei mutevoli rapporti di dominazione e di resistenza (insomma, di potere) che il filosofo francese descrisse e analizzò in tutti i suoi lavori. Adesso mi pare, per chi volesse affrontare il tema in questi termini, che si apra un terreno di ricerca molto promettente sui rapporti fra ontologia ed epistemologia in Dick.

Antonio Caronia, “P. K. Dick, un filosofo mascherato” , «Tysm» vol. 31, no. 34, ISSN 2037-0857, 26.06.2016.

Illustrazione: Rubén Cárdenas, “Reencarnación de Síntesis (tratto dal video “Habla Philip.K.Dick”, 2015).

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