Jeeg Robot contro i Kattivi

«Se dalla terra nascerà/ la forza che ci attaccherà/ noi restiamo tutti con te,/ perché tu, tu sei Jeeg»: al cinema tra supereroi e cattiverie umane. “Lo chiamavano Jeeg Robot”, “Tutti i santi giorni”, “Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)”, “Il ritorno del cavaliere oscuro”, “Reservoir Dogs”, e altri film visti dall’occhio della scrittrice e giornalista Serena Grizi (1967). Nell’intervallo, la tortura al critico da “Caro Diario” di Nanni Moretti.

1. Primo tempo: «Corri ragazzo laggiù»

Non è un caso se questo film prodotto, sembra, con un budget non così ricco, molto romano e a tratti sapientemente ‘giapponese’ sia rimasto nelle sale a più di tre mesi dall’uscita, come a tanti film italiani non succede più (e in molte sale dall’imbrunire in poi come i film cult per cine-maniaci): ha vinto 7 David di Donatello, i primi due a Gabriele Mainetti produttore e regista, a seguire per le due attrici, protagonista e non protagonista, Ilenia Pastorelli e Antonia Truppo; e poi all’attore protagonista Claudio Santamaria e al non protagonista (strepitoso) Luca Marinelli, premio al montaggio, di assoluto ritmo, ad Andrea Maguolo.

La bella faccia di Claudio Santamaria ci ha abituati già a tanti cambiamenti di ruolo: lo ricordiamo, uno per tutti, in Torneranno i prati di Ermanno Olmi, dallo stesso Santamaria ripresentato una sera al cinema Farnese, a Roma: la sua testimonianza d’attore ha reso alla platea, gremita, l’amore che si può provare verso il cinema d’autore, così, per come è stato pensato e costruito nel rispetto, anche, della storia minore.

In Lo chiamavano Jeeg Robot è per tutti Enzo/Hiroshi, come lo chiama la giovane amica Alessia/Ilenia Pastorelli e come lo chiama tutto il cinema alla fine del film, col sorriso fino alle orecchie perché un super eroe che finalmente reincarni la salvazione dell’umanità, anche quella che a tutta prima sembrerebbe meno meritevole, pare diventare sempre più il sogno dell’italiano medio, forse per l’eccesso dei ‘mostruosi’ pericoli avvertiti attorno.

Questo Jeeg/Enzo, ormai è storia, acquisisce i suoi poteri dopo un tuffo nel Tevere per sfuggire alla polizia, tuffo che lo costringe dentro un bidone di materiale radioattivo. Lui è un ladruncolo di Tor Bella Monaca che campa a budini, quelli vintage nella confezione gialla e film porno di sottofondo alla sua lurida stanza, a tutte le ore. Lui, scoperti i nuovi super poteri, come la straordinaria forza, non trova niente di meglio da fare che smurare bancomat. I suoi immediati antagonisti sono i tenutari d’una discreta piazza di spaccio capitanata dal crudele Zingaro/Luca Marinelli, una specie di canaro ripulito che, avendo fatto parte del corpo di ballo-cantante della trasmissione televisiva Buona Domenica, non disdegna, dopo e prima un efferato assassinio, d’indossare tacchetti e giacca coi lustrini per cantare cover di Anna Oxa o Loredana Bertè.

Chi ricorda Luca Marinelli nei panni di Guido, meraviglioso intellettuale-agiografo-portiere d’albergo in Tutti i santi giorni di Paolo Virzì, ragazzo votato all’amore per la cantante volitiva Antonia, uomo capace di fine modestia e profonda ragionevolezza, apprezzerà due volte il cambiamento in questa specie di Jocker italiano: luminosi occhi chiari spalancati alla più perfida cattiveria e nequizia, mai pago d’orrori, sempre un piede avanti per riprendersi, col crimine, un successo che la tv gli ha dato fino a un certo punto e poi tolto di scatto. Un personaggio così, che solo lasciando intuire quanto in fondo si disprezzi da solo, può far arrivare allo spettatore tutta la sua cattiveria fumettistico-orrorifica.

Il film omaggia più volte lo stile della serie televisiva anime trasmessa la prima volta in Italia nel 1979. L’atmosfera surreale d’un mondo per il quale non c’è più alcun rimedio, distrutti l’ambiente e una qualche coesione sociale, (rivivibile così solo nell’episodio Fuji in rosso del film Sogni di Akira Kurosawa, 1990); i momenti cult sottolineati dalla scritta celebrativa sullo sfondo, come quando la dolce e bravissima Alessia/ Ilenia Pastorelli trova finalmente al centro commerciale il suo costume da principessa.

Il film inserisce anche tutti gli elementi della cosificazione emozionale più conosciuti nell’immediato presente: le gesta di Enzo/Jeeg diventano virali grazie ai milioni di visualizzazioni internet e ai writers, anch’essi mascherati, anche più di Jeeg, che lo immortalano nei loro graffiti mentre porta via un bancomat di corsa in felpa e sciarpa sul viso (le vere e uniche opere d’arte metropolitana condivise davvero?); gli smartphone ‘grazie ‘ alla malvagità di Zingaro da qui in poi possono anche ammazzare; i sampietrini pesanti si trasportano col bustone blu Ikea simbolo di tanti traslochi e spese familiari… e via dicendo (con questo gioco si potrebbero passare giorni ad individuare oggetti rivelatori).

Gli attori non ridono se non di follia: Enzo/Hiroshi ripete più volte il tormentone «Io non c’ho amici» come avrebbe fatto l’Ettore Garofolo di Mamma Roma col suo di tormentone. Il pubblico ride ma rabbrividisce. Nel Tevere non sembrerà strano a nessun romano ci possano essere bidoni dal contenuto pericoloso. Le strade sono infestate di malaffare, i mega parcheggi periferici in mezzo alle sterpaglie e i centri commerciali sono tutti non luoghi nei quali ci si va solo per consumare qualcosa (dal sesso agli acquisti); una società regolata dai soldi, a corto della minima cultura; ormai vaccinata ad ogni bruttezza, dalle case che sembrano rifugi post atomici pieni d’immondizia da accumulo, ad una città intera, metropoli, che riesce più simpatica vista dall’alto, perciò da lontano… Così, l’ennesimo attentato all’umanità da parte dei cattivi, che qui si concretizza nell’esplosivo messo dallo Zingaro durante il derby all’Olimpico, col solo scopo di ottenere migliaia di visualizzazioni internet e diventare famoso, diventa il modo per vedere finalmente in azione l’eroe Jeeg Robot.

Quell’eroe, che dopo tante alzate di spalle, forse ha imparato cos’è l’affetto accanto alla ritardata, abusata e indifesa Alessia di cui è costretto ad occuparsi, stanco pure lui di essere un cane randagio senza nessuno al mondo. È così che il finale del film sembra inaugurare l’inizio di una nuova era: quella nella quale, per qualsiasi sopruso subito dai deboli (semplicemente quelli che non hanno ‘santi in paradiso’, gli anziani poveri, gli orfani, le mamme che temono per la vita dei loro figli piccoli), ci sarà un super eroe Enzo/ Hiroshi, adesso a tutti gli effetti Jeeg Robot d’acciaio, che veglierà su di loro. Utilizzerà come rampa di lancio dei suoi voli invincibili la potente sagoma del Colosseo di notte, che torna ad essere simbolo della città, ma stavolta sopra la malvagità; e indossa una maschera coi colori d’ordinanza confezionata con lana e ferri da chi ha già pagato con la vita la sua affezione incondizionata al genere umano. Violento, a tratti, come i film osannati dal ‘critico’ morettiano di Caro Diario, non meno spaventoso, pur nell’intento fumettistico, del recente Suburra di Stefano Sollima dal quale, però, forse il pubblico si aspettava il film di denuncia che non c’è stato…

 

2. Intervallo:  In Vespa (da Nanni Moretti, Caro Diario, 1993)

NANNI MORETTI: D’estate a Roma i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come “Sesso amore e pastorizia”, “Desideri bestiali”, “Biancaneve e i sette negri”, oppure qualche film dell’orrore come “Henry”, oppure qualche film italiano.

I ATTORE: Cos’è, tartaglio? Fuori 50 dollari e andate al diavolo!

HENRY: Eccoli i tuoi 50 dollari!

I ATTORE: Aaah! Aaah!

II ATTORE: Serve una mano, gente?

HENRY: Otis, ti serve una mano oppure pensi di farcela da solo?

OTIS: Eh, eh, eh! Ah, ah, ah, ah! Ih, ih, ih!

MORETTI: Per alcune ore vago per la città, cercando di ricordarmi chi aveva parlato bene di questo film. Io avevo letto una recensione su un giornale, avevo letto qualcosa di positivo su Henry. Improvvisamente mi viene in mente, trovo l’articolo e lo voglio proprio copiare sul mio diario. Eccolo qua: «Henry uccide la gente, ma è quasi un buono, di poche parole, contano i fatti. Invece il suo amico, Otis, è una carogna. Henry vive una pazzesca solidarietà con le sue vittime, è un principe sangue blu dell’annientamento, e promette una morte pietosa. Otis no. Il regista risveglia il suo pubblico in un incubo ancora peggiore con una doccia finale di splatter. Occhi infilzati, carne martoriata: l’abominio. Henry è forse il primo a violare e vilipendere con tale lucidità la filosofia criminale dei lombrosiani di Hollywood.» Ecco, penso, ma chi scrive queste cose, non è che la sera, magari prima di addormentarsi, ha un momento di rimorso? Ma quando è cominciato? Quando è cominciato tutto questo?

CRITICO: Non lo so.

MORETTI: Eh? Forse quando hai scritto: «Quel film coreano era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti, e Superfemminista, fiammeggiante e demoniaco? Girato come se fosse un trip alla Spielberg, entrato nei ritmi e negli spazi futuristi. E c’è poi il “Pasto nudo” di Cronenberg, puro pus underground ad alto costo…»

CRITICO: Basta! Basta!

MORETTI: «… un vero cult movie!»

CRITICO: Basta!

MORETTI: «Non è che le donne per Jonathan Demme siano migliori o equivalgano solo a quello che per Lin Piao erano i proletari e i sottoproletari dei tre mondi accerchianti, ma è certo che solo le sue donne hanno la stoffa per sostenere dalla parte giusta la guerra dell’immaginario reparto “operazioni chirurgiche”. E infatti, prima che Lula e Sailor si riabbraccino in happy end, sussurrando “Love me tender”, fioccheranno altri anni di galera per Sailor. Voleranno teste umane frantumate, cani randagi acchiapperanno mani mozzate, fumeranno in bella vista centinaia di sigarette Kool, Merit, e Marlboro.»

 

3. Secondo tempo: «Una nemica civiltà»

Il supereroe cinematografico ha subito un restyling come direbbero gli anglofili, pressoché totale, grazie a registi geniali come Sam Reimi con i suoi tre Spider-Man, protagonista il viso moderno e bambinesco di Tobey Maguire. È il romano Enzo/ Jeeg di Mainetti che rifà ciò che tentava di fare lo Spider-Man di Reimi: usare i nuovi superpoteri a proprio vantaggio, ignorando l’avvertimento che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, storia con la quale deve fare presto i conti ogni supereroe che si rispetti, soprattutto in società sempre più complesse, in grado di moltiplicare all’infinito i sensi di colpa, figuriamoci nei detentori di poteri speciali (speciale anche il superpotere di questi registi di riuscire a divertire un pubblico sempre più tempestato di input e difficile da sorprendere).

Una magnifica riflessione sull’uomo, la maschera, l’attore, la mette in scena Alejandro Iñárritu col suo Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza): Riggan, l’attore, tenta di ricusare il supereroe che tanto l’ha reso famoso al prezzo, però, di allontanarlo dal teatro impegnato, dalle tavole che sole sembrano poter soddisfare la sete di ogni interprete vero di mostrare il proprio talento. Riggan cercherà all’estremo di risolvere il viluppo di sentimenti che si porta dentro, riuscendo, forse, a possedere il personaggio senza esserne posseduto. I cattivi antagonisti dei supereroi sono in  parte, o del tutto, cartonati o cartoonati (o strampalati) se non in rare eccezioni fra le quali, a parte i camei strombazzati dalle major con mesi di anticipo, si salvano invece le prove d’attore vere: Heath Ledger, (Heath come Heathcliff ‘l’eroe nero’ della Brontë) ne Il cavaliere oscuro di Christofer Nolan, è un Joker dolentissimo, che viaggia verso l’incorporeo, interpretato così dall’attore che aveva negli occhi pezzi di vita che non poteva possedere per la sua età anagrafica, (ma di questi giudizi non tenetene conto che si sta passando dalla critica alla acriticità sentimentale)…

La cinematografia contemporanea è spesso cattiva. Se scrivessimo ‘violenta’ vorremmo dire che esercita o impone sullo spettatore un comportamento aggressivo e che la visione si manifesta in modo furioso e travolgente. Non è così. Lo spettatore resta seduto, il film si mostra, come sempre, su uno schermo più o meno grande più o meno sofisticato. Ciò che si impone, che si presenta a chi guarda, è una versione cattiva, una visione malvagia o criminale di qualche pezzetto di mondo, di famiglia, di vita che il regista decide di ricostruire davanti le proprie cineprese.

Il cinema contemporaneo più di qualche volta ha bisogno di questo punto di vista per poter innescare l’azione che sia la risposta alla cattiveria e la conseguente catarsi dello spettatore: l’azione sarà o una crudeltà di pari forza e contraria, annichilente, per rispondere alla prima (è qui che pare esprimersi meglio il cinema contemporaneo), oppure una presa d’atto e poi di coscienza, o un allontanamento definitivo da ciò che esisteva prima. La cattiveria è una molla sempre valida: ce lo mostra la qualità delle serie televisive d’oltreoceano, ormai zeppe di star e con script eccellenti, e di quelle nostrane, tra le quali Gomorra, ispirata dagli scritti di Roberto Saviano.

La seconda serie, in special modo, mostra tanti piccoli film compiuti che reiterano cattiverie allo stato puro: queste procedono da odi atavici, sono conseguenza di azioni precedenti e la sceneggiatura le snocciola giustificando se stessa senza smagliature di sorta. Eppure, considerando il successo di questo e altri prodotti, stupisce quanto per lo spettatore di oggi un film possa progredire di cattiveria in cattiveria, ripetendole all’infinito e senza cercare più di tanto quella parentesi lirica, sentimentale, che pure ‘spezzava’ la serialità di eventi nefasti in tante sceneggiature, ancora fino alla prima metà del ‘900.

Le terribili vendette di Heathcliff/Sir Laurence Olivier nel film Wuthering Heights di William Wiler (1939) e di Jean Valjean/Jean Gabin, ne I miserabili di Le Chanois (1958) (vendette e personaggi memorabili per la storia della letteratura e del cinema), sono più spesso mitigate da gentili figure femminili e da ‘sipari’ complementari che gettano uno sguardo, di volta in volta, sulle vicende nazionali, sull’ambiente circostante e che, come fondali, completano la storia portante potenziandone i significati simbolici e romantici.

Gli affetti, nelle serie, nella cinematografia contemporanea, appaiono flebili pause fra una azione cruenta già compiuta e quella che sta per arrivare. Di Gomorra, in particolare, sorprende la rappresentazione dei gruppuscoli che gestiscono le piazze di spaccio e quant’altro: pare non abbiano quasi più alcun contatto con la ‘società civile’ (polizia, carabinieri, ci si accontenterebbe anche solo di emissari deviati di partiti o servizi segreti); individui liberi dalla ‘costrizione’ di dover, anche solo per poche battute, derogare al proprio assurdo linguaggio di minacce e ambizioni senza costrutto, ai propri costumi, alle proprie deliranti pose. Inutile la necessità di parlare ‘più linguaggi’ per interagire con altre realtà (sono padroni ormai di alberghi cinque stelle-lusso, boutique, ristoranti in Italia e all’estero e tutto il ‘misero’ resto di mondo che può interessarli lo posseggono già).

L’ambiente circostante è ridotto a guaina del malaffare, della natura non sanno cosa farsene se non è asservibile (e non può esserlo all’infinito) a scopi mafiosi. Restano vive e vegete solo le ‘mamme’ col loro corredo di raccomandazioni e attenzioni per questi figli brutali: figli addomesticabili come cagnolini soltanto da chi li ha messi al mondo (e perché non dovrebbe essere così?), sembrano testimoniare a testa bassa e ambizioni ripiegate; generosi di elogi per la cena buona preparata con amore, mettono le proprie ricchezze e i privilegi conquistati col sangue a disposizione dell’unica di cui ormai si possano fidare. La scelta è registica si potrà senz’altro ben dire: lo è, poiché è il regista che ‘taglia’ tutto un contesto e decide che allo spettatore interessa ben poco.

Per Gomorra-la serie si muove un manipolo di registi da Claudio Cupellini a Cristina Comencini a Stefano Sollima e Claudio Giovannesi, forse è per questo che negli episodi s’avverte ogni volta il tocco da piccolo film compiuto, godibile anche fuori dal contesto seriale. Stefano Sollima (figlio di quel Sergio che ‘inventò’ Sandokan per la televisione) prestò la sua regia anche a Romanzo criminale-la serie, un quadro storico più articolato di quello di Gomorra: ma il regista, in particolare, è capace di azzerare ogni passaggio ‘umano’ nella soggettiva terribile che regala ad ogni personaggio: dialoghi secchi e senza sbavature, inesistenza di caratterizzazioni, solo brevemente descritte da costumi e acconciature. Improvvise e ricercate epifanie musicali (la colonna sonora è dei Mokadelic), denunciano un cambio umorale o morale del personaggio in questione o avvisano lo spettatore che il destino tragico sta per abbattersi su questi, in un’aura di tragedia difficile da raggiungere, per qualcun altro, sul piccolo schermo, e senza deus ex machina, o meglio, dichiarandone a volte l’intervento risolutivo in una fugace scena, magari in un episodio seguente.

Per dirla tutta: col cinema di Tarantino, da Reservoir Dogs, per capirci, all’approdo difficilmente oltrepassabile per violenza e disinibizione di The Hateful Eight, si è costretti a pensare di più e qualche volta, perfino, si ride. Qui le atmosfere plumbee sottolineano una totale assenza di speranza e orizzonte, il crimine è finalizzato a se stesso, una vita migliore non esiste né per sé né per la propria discendenza; la famiglia è un mezzo, i lividi passatempi dei protagonisti sono sesso senza amore con avide/i amanti, lotte di cani inferociti, faide per futili motivi vissute come se si andasse al tirassegno, in attesa che la morte arrivi. A salvarli da un calvario di vita.

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