Il Premio Frascati: la poesia e la provincia del secolo passato

La fondazione di un premio letterario nell’Italia della ricostruzione. La poesia di Giorgio Caproni. Testimonianza di Antonio Seccareccia. Il secondo novecento da Alfonso Gatto ad Andrea Zanzotto. La poesia e la comunicazione. Guardare la pioggia.

 

1. Poeti amici

Un gruppo di poeti amici di diverse origini e tendenze, riunitisi «per puro e disinteressato amore della poesia» (Giorgio Caproni), mentre passeggiano dopo cena per le vie di Frascati decidono di fondare un premio letterario. Si trovano all’altezza del Bar degli Specchi, nella strada che collega le due piazze principali della cittadina. Siamo nel 1959. L’allentarsi del colonialismo verso il terzo mondo si accompagna ai primi tentativi di colonizzazione dello spazio e ad una momentanea flessione della guerra fredda. In Italia c’è il governo Segni di centro-destra, Moro apre ai socialisti, iniziano le grandi migrazioni dal sud al nord e l’economia del paese segna la sua ripresa.

Sono gli anni in cui vedono le stampe Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio, Una vita violenta di Pierpaolo Pasolini, I racconti e Il mare dell’oggettività di Italo Calvino, La bufera ed altro di Eugenio Montale, i Canti dell’infermità di Clemente Rebora, Il passaggio di Enea di Giorgio Caproni. Si sta formulando quel progetto editoriale della letteratura italiana ormai concluso e decaduto, collaborazioni e competizioni tra case editrici e scrittori permettono la realizzazione di opere che accompagnano la piena ricostruzione del paese. Il Premio Frascati, tuttora attivo, permette di osservare alcuni dei momenti della stagione poetica di un’Italia e di una letteratura che dal suo rifiorire procede verso un nuovo declino.

Questi due momenti diversi sono uniti da una costante: quella per la quale, nell’opposto feticismo di classici e novità, lettori e pubblico restano spesso lontani da quanto è contemporaneo, lasciando irrisolte le tensioni culturali della propria epoca. La poesia italiana del secondo novecento rappresenta così uno dei campi, tanto prossimi quanto quasi inesplorati, che rimangono relegati ad un ambito in qualche modo provinciale.

Infatti, se nelle scuole le riforme hanno mantenuto un approccio monumentale pur impoverendo le offerte dei programmi, l’organizzazione della cultura è definitivamente sottomessa alla logica dell’intrattenimento: tali opposte condizioni sono ambedue distanti tanto dalla compresenza di apertura e rigore che caratterizza il lavoro intellettuale, quanto dall’attenzione e dalla duttilità richiesto dalla poesia. Tuttavia, se non si sfugge al proprio tempo, ogni tempo conosce i suoi poeti e anche circostanze parziali come quelle dei premi offrono un archivio utile per individuare tendenze e movimenti di una letteratura.

Nell’estate del 1958, in occasione del Premio Chianciano Opera Prima si incontrano tre poeti romani. Sono Elio Filippo Accrocca, Ugo Reale e Antonio Seccareccia. Accrocca, nativo di Cori, sta pubblicato il suo secondo libro Ritorno a Portonaccio, dai toni realisti e civili. Anche Reale sta per ultimare una seconda raccolta di poesia, Una piccola storia, intessuta di intimismo e visività. Seccareccia, nato a Galluccio (Caserta) e residente a Frascati, maresciallo dei Carabinieri e poi responsabile dell’apertura della prima libreria del paese, è in concorso con Viaggio nel Sud, elogiato nell’introduzione da Caproni per «l’estrema semplicità e pulizia»; dopo essere stato finalista anche a Viareggio, è insignito da Giacomo De Benedetti del Premio Lerici.

Proprio alle conversazioni intrattenute ad inizi anni novanta con Seccareccia devo i dettagli di queste ricostruzioni, compreso quello per cui il premio Chianciano l’avrebbe vinto Tommaso Landolfi: tuttavia, la cronologia di questo ricercato autore permette un riscontro soltanto parziale in Mezzacoda, testo fuori commercio, peraltro piuttosto lontano dal suo debutto avvenuto nel 1937. Nonostante questa vistosa imprecisione, per quanto riguarda il premio che ha avuto in Seccareccia il proprio motore pulsante e ora a lui dedicato, sono ancor oggi le sue parole a costituire la fonte più attendibile.

Dopo l’estate passata a Chianciano, città delle terme, arriva il tempo della vendemmia. A Frascati, città del vino, s’incontrano presso quella che è chiamata Piazza dei Merli per una pizza da Cocchi, in uno stabile ancora semidistrutto dalla guerra, Seccareccia, Accrocca e lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che pubblica in quegli anni Le parrocchie di Regalpietra e Gli zii di Sicilia. Di fronte a tale movimento, rilevante seppur modesto, il direttore del mensile locale Il Tuscolo Guido Toffanello va meditando un «poetico incontro» in cantina, tra botti, bigonci e boccali di terracotta, che riesce quindi ad essere realizzato pressappoco nei giorni che serrano insieme l’autunno e l’inverno, quand’è pronto il vino novello.

Nel refettorio delle scuole comunali Marco Tullio Cicerone, oltre a Toffanello, Seccareccia e Reale ci sono altri personaggi. Tra questi, Lamberto Santilli: l’epigrafe sulla casa natale nella piazza Casini di Frascati recita «che nei suoi versi cantò la vittoria dell’uomo sul tempo, lo spazio e la forma»; meno pomposamente, le poesie della coeva silloge Spazio cercano nella natura una risposta alla quella che ierincome oggi in molti chiamano come crisi dei valori. Massimo Grillandi è un poeta lirico e dialettale, che in seguito diventa autore di biografie di personaggi storici. Franco Simongini è critico d’arte, a lungo curatore di rubriche televisive. Ci sono poi l’amministratore della Fiera Letteraria Vincenzo Preparata e suo cognato Evaristo Dandini, storico dilettante dell’area tuscolana, Alberto Bevilacqua, che avrebbe dato alle stampe il suo primo romanzo Una città in amore nel 1962, e Aldo Accattatis, poeta di cui poi si perdono le tracce. Sono presenti inoltre il capitano dei Carabinieri Ruggero Santini, per il tributo a Bacco si mobilitano Memmo Tonelli, Mario Barucca e Franco Vittore, mentre a dirigere le cucine c’è Pio Filipponi, bidello della scuola media statale Nazario Sauro, spiritosissimo poeta in dialetto frascatano.

Caproni, livornese di origine e genovese di formazione, che vive in una Roma da lui definita come «estranea immensità priva di centro», lascia viva testimonianza della serata sulla Fiera letteraria del gennaio 1959. Mentre ufficializza l’ideazione del premio, elogia l’ospitalità del paese, dove si trasferirebbe volentieri anche per sfuggire alla ruffianeria degli ambienti letterar-mondani ufficiali, da lui denominata come «cacamaraderie»; ad ogni modo, nel 1975 costituirà con Maria Luisa Spaziani e Danilo Dolci il Centro Poesia, nucleo del futuro Premio Montale. Nel 1998 il Centro Montale gli dedica una giornata di studi, dai quali emerge che la scelta di far prevalere l’amicizia sulle considerazioni di convenienza non rappresenta affatto un dato a sfavore: anzi, proprio la marginalità in cui Caproni, maestro elementare e suonatore di violino, è collocato sino agli anni settanta permette, secondo Bianca Maria Frabotta, la «formulazione di una poetica eterogenea agli stilemi ufficiali».

Strutturano il suo stile i suoni e le visioni del paesaggio e, sulla base di quella che Giulio Ferroni chiama «partitura delle rovine» viene a comporsi un mesto e dignitoso «concerto di poesie», nel quale la libertà è nel rifiuto di punti fissi di riferimento. La dispersione del reale si correla con quella del linguaggio, e dove la parola è per Franco Croce in «apparente divorzio con se stessa» cade la sua pretesa di essere specchio della cosa. Piuttosto, il linguaggio poetico forma il suo mondo, più vero del nostro, per intersezioni e infinite risonanze con se stesso, riconoscendo costitutiva incertezza tanto al reale, quanto al rapporto che l’uomo vi intrattiene. Da Il congedo del viaggiatore cerimonioso (1966):

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi
lascio davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.

Arriva quindi un’altra estate. In forma ancora semiconviviale (il premio è costituito da una botte di vino), si svolge la prima edizione del Premio Botte nel parco comunale di Villa Torlonia, presso l’impianto Suono-Luce-Acqua della fontana del Maderno (in seguito danneggiato dall’incuria). La giuria è formata da Accrocca, Grillandi, Reale, Santilli, Simongini, Caproni, che ha appena pubblicato Il seme del piangere, Bevilacqua, che ottiene la vittoria con Omaggio in versi al vino italiano, e Seccareccia, che coordinerà il premio fino alla sua morte nel 1997. Lo stesso anno, quasi trent’anni dopo il primo libro, esce l’edizione definitiva di La memoria ferita, testimonianza di una «lacerazione mai sanata con se stessi e la storia» (Introduzione) espressa dal lirismo nostalgico di una poesia colloquiale che a tratti incalza in immagini e ritmi, come in Cielo perduto di ragazzo:

non c’era nulla dietro le colline
dove passavano i treni notturni: la ragazza
straniera dagli occhi verdi, l’amore
eterno, e il grande fiume d’acqua
sognato per la nostra terra riarsa.
C’erano solo altre strade e colline, e valli,
fino al mare ancora ignoto ai miei occhi,
sotto un cielo più vasto.

 

2. La stagione della lirica

L’anima della sera di Alfonso Gatto riceve il premio nel 1962: dopo una fase interlocutoria, il premio permette un primo significativo riconoscimento e questo poeta inquieto dal verso asincrono, caratterizzato da analogismo surreale e colorita contabilità, entra anche nella giuria. Fondatore con Vasco Pratolini della rivista Campo di Marte, Gatto è autore di un canto evocativo che decanta la realtà quotidiana in immagini fantastiche, snodandosi, come ricorda Gianfranco Contini, attraverso «arcobaleni gettati sugli iati della logica»:

C’è un urlo raggiante d’occidui boschi
infitti nell’improvviso veloce tacere
di tutte le vite in ascolto.
Il cielo che sembra finire n’è tolto
più alto, sempre più alto, dell’ostro.
È l’alba di tutto ciò che si perde 

Un altro esponente del terzo ermetismo, che ha fatto parte della giuria pur non avendo mai vinto il premio, è Libero de Libero, la cui immaginazione epigrafica scandisce un lirico naturalismo dove il paesaggio tenta di risolversi in un sentimento di assoluto, come in Postscrittum nella bottiglia (da Banchetto, 1949):

Qui forse è il confine del mondo
se gli alberi crollano nascendo.
E ne resta un discorso di foglie
nel vento che chiede qualcosa.

La voce di un paesaggio è assimilata a quella della sua gente, con attenzione verso gli aspetti popolari, nella poesia del già ricordato Elio Filippo Accrocca, storico dell’arte ed europeista convinto, anche lui a lungo nella giuria pur non ricevendo menzioni. Cadenze precise e sin troppo squadrate muovono un discorso di rinnovamento civile, pieno interprete delle speranze della Resistenza. Da Ghirlande per il Primo di Maggio, tuttora celebrata nelle commemorazioni di rito:

La speranza è una luce tramandata per generazioni:
noi conosciamo l’arte di coltivare spighe e speranze
e non lasceremo crescere la gramigna nei campi.

Presto questi toni ottimistici e convenzionali non saranno più tanto rappresentativi. Di questo passaggio è testimone Libero Bigiaretti, membro della giuria, che in quegli anni pubblica il romanzo Le indulgenze (1966), approdato dalla poesia ad una narrativa critica sul ruolo dell’intellettuale nella società neo-capitalista. Intanto, il premio procede discontinuo, soffermandosi troppe volte in celebrazioni enologiche. Versi significativi emergono nel 1967, quando Guglielmo Petroni riceve il premio per la poesia Narrativa. Un sentimento di incomunicabilità è riscattato da un consapevole e accanito criticismo, sullo scenario di un paese devastato:

O libertà
assurdo luogo di perdizione
unica salvezza, lume,
fonte di mormorazione
onesta meta;
strumento di falsari
oggetto, ornamento.
Più inganni catene
contiene, ambigua voci,
di quante passioni numerino
le notti piene d’amore.

I confini del mondo stanno cambiando, qualcuno lo sconta più di altri. Raphael Alberti, amico di Garcia Lorca, dopo la guerra civile spagnola è costretto all’esilio e vive a lungo tra Roma e provincia. Cantore di un sentimento di cosmopolitismo ed estraniazione, è premiato nel 1970 per Certo il mio canto:

Certo, il mio canto
può essere di qualsiasi luogo.
Ma queste radici spezzate,
a volte non me lo lasciano
essere del mondo

Ridefinire i confini del mondo comporta anche interrogarsi sui luoghi della socialità. Nel 1971 l’allucinato paesaggismo urbano di Siro Angeli denuncia la condizione alienata di città che tra inquinamento e lottizzazioni sembrano già non offrire più molto spazio per una vita degna. Da Radiografie della città:

Territorio già invaso,
rammentalo, o da invadere,
è questo dove tu
sopravvivi per caso
o sbaglio.

Il mondo chiede la rimessa in discussione dei suoi principi. Nel 1973 Vittorio Fiore esprime con i toni di intima e nobile ingenuità il senso di abiezione per la nostra storia. Fiore è l’ultimo a vincere una botte di vino: sembra quasi di vederlo sorridere e brindare. L’anno successivo, il premio sarà costituito da un assegno al portatore. Il male è dentro di noi:

Non abbellimmo di virtù
il passato, ma affondammo
il bisturi nella nostra terra dolente

Nel 1976 è il turno di Poesie di Giorgio Vigolo, la cui alchimia verbale fissa in immagini musicali intuizioni dell’essere che oscillano tra mistero ed apparenza. Portico dei dormienti:

Una donna ama in sogno
abbracciata all’invisibile

La tensione religiosa di Margherita Guidacci e Il vuoto e le forme segna l’edizione del 1977. Primo autunno di Elisa scopre il nesso tra tempo e vita:

Le parole hanno un senso
soltanto se le nutre la memoria.

Il paese continua ad essere coinvolto da una spirale di agitazioni e repressioni che lascia pochi spiragli di comprensione. Si realizza che anche la memoria e i miti possono tradire, e comincia ad essere cercato lo spazio del possibile. Nel 1981 riceve il premio Adriano Guerrini, che in Ventotto poesie assiste al passaggio inesorabile e imperturbabile del tempo. Crono:

anche i poeti, tutti sono il tempo:
vanno verso il crepuscolo e scompaiono,
come le nostre cose, come noi.

1984. Tra tradizione stilistica ed esigenza comunicativa, vince Versi d’occasione di Giacinto Spagnoletti. In Partenze, anche nell’andare verso un nuovo orizzonte, lo sguardo si rivolge all’indietro:

i marinai raccontano
che nel partire sempre
guardano la terra ansiosi.

Mario Socrate nel 1985 è premiato a Frascati e anche a Viareggio per Punto di vista. Le sue immagini scandiscono la frantumazione cognitiva dell’uomo contemporaneo:

non va né avanti né indietro
persa fra gli uni e gli zeri
i falsi sono così veri
che un metro è misura di un metro

Attilio Bertolucci vince nel 1988 con Camera da letto n. 2. In una riflessione attenta ai movimenti della realtà si incontrano tradizione e innovazione, e Il capanno concentra l’attenzione sul contrasto tra un idillio sentimentale e il clima esagitato degli anni del fascismo:

Un altro tempo comincia per me per te usciti d’improvviso
al chiaro di luna, all’ultimo affaticarsi amaramente gioioso
di una generazione destinata a immolarsi per una causa ingiusta.

Nel 1990, anno del trentennale del premio, muore Caproni. La giuria, che ha già visto il succedersi di diversi elementi, comprende ancora membri originari o affini come Accrocca, Bigiaretti, Petroni, Reale e Seccareccia, ai quali si aggiungono l’italianista e docente universitario Emerico Giachery, lo scrittore e giornalista Renato Minore e lo scrittore e germanista Italo Alighiero Chiusano, residente a Frascati. Riceve il premio Climax di Alessandro Parronchi. Sintassi squadrata e sentimentalismo di maniera esprimono un senso di stasi strutturale, privo di slanci o aperture: un sentire non privo di rapporti con le vicende del paese. Da Devo arrendermi, rendermi convinto:

Devo arrendermi, rendermi convinto
che i giorni se ne vanno senza che io mi ritrovi
diverso, né migliore né peggiore.

Nel 1991 Enzo Fabiani è premiato per La sposa vivente, poema in tre cantiche dedicato alla moglie, portatrice nel ricordo in cui continua a vivere di un sublimato sentimento d’unione e mistico enigma:

era un ricercarsi ricordi,
nel torbido mistero del tuo corpo,
per un ordine arcano.

Nel 1992 è il turno di Giorgio Barberi Squarotti con la raccolta Un altro regno. Visioni ontologiche e alterità della scrittura lampeggiano rivelando vita ed esperienza, liberando l’io poetico dall’inganno del mondo che dicono reale:

non c’è peggiore inganno
del mondo qual è.

Sono passati trent’anni dalla poesia di Gatto. Il premio si è collocato nella tradizione lirica, lontano dall’esperienza delle avanguardie (Edoardo Sanguineti), da sensibilità politiche (Pierpaolo Pasolini) e suggestioni patafisiche (Vito Riviello, tra l’altro per lungo periodo residente a Frascati). Tuttavia, nonostante le resistenze a fermenti pienamente operanti in altri ambienti e un tono convenzionale e attardato, il tenore di molte delle opere premiate (e anche nel periodo che arriva al 1973, nel quale la botte di vino in palio non permette grosse impennate di prestigio) lascia trasparire una consapevolezza non limitata all’espressione di una determinata linea stilistica.

I testi evidenziati esprimono un rapporto con le ragioni della poesia che non è meramente funzionale alla celebrazione di una società letteraria chiusa in se stessa, e oltrepassano anche le eventuali cadute nella convenzionalità lirica. Il prevalente tono nostalgico ripiega verso una natura lontana ma assimilata nel vissuto, la quale può assumere anche le forme di un immaginario erotico-mistico, spogliato tanto dal maschilismo italiota quanto dalla sessuofobia bigotta. L’aspetto interessante è che questi atteggiamenti non sono meramente soggettivistici e fini a se stessi come è comune presso i poetastri: piuttosto, scavalcando stili e correnti, affrontano temi derivanti da una memoria letteraria d’ascendenza tardo-romantica tesa a mettere in discussione della razionalità occidentale, la stessa che ancora impone guerre al mondo.

Al tempo in cui l’editoria viveva di letteratura di qualità e diffondeva cultura, l’università trasmetteva competenze e decodificava il lavoro degli scrittori, e gli autori si leggevano per contribuire ad un lavoro nel quale la società si riconosceva, gli spazi di riconoscimento per il silenzioso impegno della poesia si mantenevano circoscritti ma effettivi. Le circostanze sociali erano scarne e potevano prendere forma in premi come questo, un po’ grigi ma non troppo e dotati di prestigio pur se leggermente fuorimano. La cultura era considerata cosa noiosa, ma anche se isolata dal consesso sociale era rispettata. Così, molte figure dignitose sono state trascurate nello scintillìo soltanto apparente che in seguito viene ad imporsi, mandando disperse testimonianze che occorre recuperare per evitare che il nostro presente perseveri nella stolta ripetizione di forme ormai inadeguate, in poesia come in tutto.

Nel frattempo la cultura, proprio mentre comincia ad essere diffusa a tutti i livelli e quindi ad esigere per mantenere spazi adeguati il riconoscimento della propria peculiare professionalità, viene rivendicata a destra e manca in modi spesso scriteriati, ideologici od ornamentali, perdendo senso e consistenza. Diventa difficile raccogliere la continuità dell’esperienza letteraria, che nel momento istituzionale in cui riconosce se stessa assimila la pratica del voto di scambio e altre finezze politiche, portando come ogni corruzione danni enormi per tutti. L’ultima lezione capace di imporsi su più generazioni è quella del «savio disincanto» di Montale. E nonostante epigoni e detrattori, è ancora decisiva una poetica nella quale la percezione coincide con un linguaggio contingente rispetto al mondo delle cose: è questo a permettere la ricerca della parola esatta e della metrica implicita, esprimendo tanto l’impossibilità di definizioni quanto l’importanza dell’esperienza personale. Tale processo è evidente nella «storta sillaba e secca come un ramo» e nel «ciò che non siamo» di Non chiederci la parola (1923).

Dopo Montale, un esempio poetico di compiuta portata esistenziale e speculativa è proprio nella «disperazione calma» di Caproni, dove i temi di ricerca e perdita dell’identità si intrecciano con una religiosità senza Dio, elaborando uno stile pre-novecentesco evidente nell’uso della rima e dell’assonanza. L’autore però risulta spesso ostico per il contrasto tra apparente facilità linguistica e intimo sentimento di disillusione intellettuale, che «senza maschere» nasconde «l’arte di esistere» (Il mare brucia le maschere, 1943). Un cambiamento decisivo avviene quindi nel 1989, dove la caduta dei governi dell’est comunista porta a termine il secolo breve, profilando diverse condizioni sociali e culturali; sensibilità e contesti sono destinati a mutare, facendo sembrare possibile la ricezione di una poesia ad un tempo fine e popolare, musicale e prosaica. La piccola editoria e l’associazionismo si apprestano a raccogliere i fermenti di una società dove la moltitudine è animata di singolarità. Tutte le migliori previsioni andranno smentite.

 

3. Verso la comunicazione

Il periodo considerato attraversa anni del boom (anni sessanta – espansione industriale e benessere, ma anche paura nucleare), anni di piombo (anni settanta – terrorismo e strategia della tensione, ma anche contestazione ed emancipazione), anni di plastica (anni ottanta – liberismo e consumismo sfrenato, ma anche persistenza di forti antagonismi), anni accellerati (anni novanta – imporsi del mercato e delle teletecnologie, e anche culture dell’estremo). Senza soffermarsi su cosa accade nel tempo che intercorre tra i due termini del periodo, è indicativo ricordare gli accadimenti significativi che ne segnano inizio e fine.

Nel 1962 è concessa l’indipendenza a numerose ex-colonie britanniche, Kennedy denuncia Cuba per aver ospitato basi missilistiche sovietiche, in Italia viene nazionalizzata l’energia elettrica, inizia il Concilio Vaticano II e la Chiesa si apre alla modernità. Nel 1992 il trattato di Maastricht fissa le condizioni del processo di unificazione politica e monetaria europea, inizia il conflitto in Bosnia-Erzegovina e la dissoluzione della Jugoslavia, in Italia viene assassinato il giudice Giovanni Falcone e scoppia lo scandalo di Tangentopoli.

Pur se il tempo definito come storia non è esattamente quello della poesia e anche laddove questa vuole prescindere dalla considerazione degli eventi definiti come storici, ogni poesia ha una relazione specifica con il proprio tempo, fatta di colori linguistici e intelaiature teoriche con cui le attitudini e le mentalità si modellano nei confronti di un mondo in mutamento. E per quanto l’organizzazione linguistica d’ogni poesia è sempre peculiare e quasi indecifrabile, i risultati che la poesia generalmente viene a conseguire non sono troppo distanti dal fondo dei vissuti comuni tipici di un’era o di un periodo.

Nel discorso emerso dalle opere premiate, la poesia sembra spostare il nucleo di significati dall’evocazione dell’inesprimibile come materia della poesia (Gatto e de Libero) all’impossibilità di misurare e definire il mondo (Socrate e Barberi-Squarotti). Tale spostamento sembra però mantenere gli stessi parametri di realtà derivati da una visione il cui destino si delinea negli equivoci della modernità, che da Cartesio alla celebrazione delle “magnifiche sorti e progressive” comportano sostanzialmente il mondo pensato come macchina.

Dove la macchina del mondo sembra disgregarsi, spesso la poesia arriva a mettere in gioco non tanto l’esperienza, quanto la sua stessa impossibilità, e dove rivendica la capacità di conoscere in maniera più decisiva di ogni scienza è per proclamare la caduta di tutti i principi cognitivi. Nel suo trionfo trova la propria rovina e quella di un’intera civiltà: ciò a cui ha dato nome è pur sempre parola, ogni sintesi sembra tanto parziale quanto vuota. Il mondo è una macchina morta, pura rappresentazione, immagine vuota, inganno sottile e onnipresente. Con le parole di Caproni, Senza esclamativi (da Il muro della terra, 1975):

Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto.

Questo vuoto si scopre reversibile con il pieno e la poesia svela un’altra volta il suo rapporto obliquo con il tempo, facendo saltare la legittimità di malinconie ormai sin troppo facili. E dove si mantiene una poesia rivolta al passato, per la quale il rimpianto è quasi una necessità, ce n’è anche qualcuna che parla in qualche modo dal futuro o da mondi possibili, consapevole di altri modelli di universo, che hanno un ascendente decisivo in Leibniz. Inoltre, si diffonde il pensiero di Heidegger, che ha evidenziato tanto la continuità tra metafisica e razionalità quanto la possibilità di un «dire originario» custodito dalla poesia.

Il mondo ora sembra avere un volto che a guardarlo non è quello di un soggetto depositario di un qualcosa, ma sembra piuttosto un arabesco di segni dal passo instabile. Nel 1994, nella cornice vanvitelliana della villa Tuscolana di Frascati, una giuria che comprende Accrocca, Chiusano, Giachery, Minore, Petrucciani, Seccareccia, Reale, ai quali si aggiungono il poeta e giornalista Luciano Luisi, il francesista e docente universitario Luigi De Nardis, l’italianista e docente universitario Mario Petrucciani e il presidente della proloco Paolo Pasquini, testimonia una decisa apertura a climi poetici diversi dal lirismo e attribuisce il premio ad Andrea Zanzotto per la raccolta Poesie (1938 -1986), accostata al testo critico di letture poetiche Auree e disincanti.

Quella di Zanzotto è una poesia, come ricorda Pier Vincenzo Mengaldo, in continuo «sabotaggio delle gerarchie linguistiche» e ideologiche, che promuove sulla grande storia ufficiale i vissuti marginali e minimi, e sviluppa una «catabasi del sottosuolo»: un macerare profondo e denso di sedimenti linguistici. Mutazioni verbali scompongono la linguisticità del mondo e ne dimostrano l’insignificanza, rivelando, come suggerisce Stefano Agosti, che il senso sia custodito dal suono, prodotto per fluttuazione inconscia. Montale così annota: «una poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come droga sull’intelletto giudicante del lettore.» Da La Pasqua a Pieve di Soligo (1973):

Sei tu che vuoi spararmi, son io che sparo a te?
Siamo appostati dietro a tutto di tutto, e alla mercè

di tutto; in lingua in verbo ci sostatiamo, incarnati
inchiostrati incastrati squartati dai quattro lati,

persi in collages e in agnizioni reciproche: mite/ truce
proprio/ esproprio fisima/ cresima fuisse/ in-nuce.

Nel 1994 si svolge inoltre il Festival dei Poeti al Teatro di Ostia Antica dove, sotto la regia di Franco Cordelli e Simone Carella, sfilano nuove generazioni di autori: tra questi, Dario Bellezza, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Iolanda Insana, Elio Pagliarani, Renzo Paris, Elio Pecora, Giovanni Raboni, Amalia Rosselli, Valentino Zeichen. Mentre un secolo si esaurisce aprendosi al successivo, la poesia sembra indicare una possibilità d’azione diversa da quella del banale pragmatismo: le promesse sono però disattese, anche perché le ragioni della poesia sembrano troppo confuse, laddove frammentazione del verso e afasia linguistica arrivano al punto di rendere impossibile addirittura l’individuazione di una parola, di un suono e di un senso, e risulta perduto la dimensione della strofa.

Il 1994 è inoltre anche l’anno della prima vittoria politica del proprietario del monopolio televisivo commerciale Berlusconi, i cui vasti interessi coinvolgono anche l’editoria, avendo preso controllo di Mondadori già tra 1989 e 1990, gli anni del crollo della Cortina di ferro. Per una coincidenza cronologica quantomeno indicativa, Berlusconi riesce ad associare in modi inediti potere politico e dominio sulla comunicazione nel momento in cui il capitale finanziario prende le forme del Nuovo ordine mondiale.

Letture pubbliche e premi si affastellano senza permettere più distinzioni tra voci e l’espressione “ambiente letterario qualificato” comincia a sembrare un controsenso. Gli editori grandi e piccoli diventano sempre più condizionati dal mercato e i lettori sempre più lontani dalla poesia. Il fare poesia si contamina con le arti (poesie musicate e illustrate, poesie sonore o visuali), mentre altre arti rivendicano una propria poeticità autonoma e significativa (arte concettuale e anche canzoni e fumetti). Se la critica avvicina le sue funzioni a quelle della pubblicità perdendo la capacità di contribuire ad un onesto discernimento, la poesia comincia ad essere assimilata, secondo una discutibile opinione di Bianca Maria Frabotta, alla “comunicazione” (Il Filo n.1 a.3, 2004): il problema è però che con l’incalzare della comunicazione in troppi si sentono costretti a poetare senza troppi riguardi, contribuendo così al dissiparsi delle idee in flussi di insensatezze.

«Poeticamente abita l’uomo su questa terra», dice Hölderlin: ma forse lo sfratto è esecutivo, se l’impoeticità del mondo prevale e la parola non sa rendere possibile l’uomo, sempre più spezzato e diviso. «Chi scrive poesie dopo i diciotto anni o è un poeta, o è un cretino», ricorda Benedetto Croce, e anche se la sua idea di poesia come unità di pensiero ed espressione può sembrare datata, quella che chiamava «poesia popolare», limitata a «semplici parole» e «semplici forme», resta ancora a prevalere, con tutta la sua incapacità di smuovere ricordi, passioni, esperienze.

In quella che generalmente in Italia è ancora definita poesia, dettano legge il ristagno del versificare in piccoli sfoghi personali e la latitanza di una critica capace di distinguere; cooperano nell’alimentare tale situazione gli usi aberranti dei media vecchi e nuovi che spacciano per democrazia il livellamento e il populismo culturale di editor e organizzatori interessati esclusivamente a fare numero. L’inflazione di cretinate più o meno sgangheratamente in versi è in grado di allontanare tanto una letteratura il cui statuto è in via di ridefinizione, quanto i lettori già distratti per conto loro. E nonostante gli stilemi ufficiali e più diffusi risultino piuttosto omogenei, la scrittura mantiene possibilità immense. Le eterogeneità sono ricche, pur se forse è ormai impossibile articolare un canone: e non è detto che questo sia necessariamente un male.

Il 30 novembre 1997 a Lussemburgo, Jacques Santer, presidente della Commissione Europea della CEE, aveva ricordato ai poeti d’Europa l’importanza di un’azione comune e differenziata per contribuire a definire «la sensibilità e l’identità del Continente». Era in corso il terzo convegno de l’Académie Européenne de Poésie, fondata a Lussemburgo nel 1996 e presieduta da Alain Bosquet, vice presidenti Maria Luisa Spaziani e Anise Koltz, segretario generale Jean Portante; costituita da sessanta membri in rappresentanza di nove paesi, l’associazione è organismo di coordinamento intenzionata a ottenere un maggiore impegno e coinvolgimento nell’educazione alla poesia delle scuole, anche di ordine inferiore, una programmazione radiofonica più attenta e mirata, la concessione di aiuti sostanziali agli editori di poesia e alle riviste di settore. Mentre continuano a trascinarsi un’Europa diventata provincia dell’Euro, una politica capace soltanto di salvaguardare i propri interessi e una comunicazione che avvilisce la parola, anche tali disposizioni sembrano assumere toni diversi dall’ottimismo con cui potevano essere accolte.

Ad ogni modo, i tempi sono sempre impervi. Antonio Seccareccia mi raccontò cosa accadde quando nel 1974 il premio decise di fare il primo decisivo salto di qualità e assumere la denominazione Città di Frascati, attribuendo riconoscimenti non più a singole poesie ma a libri e conferendo invece di botti di vino assegni al portatore. Prime ed ultimissime di Cesare Betocchi è così festeggiata in una brutta serata d’inverno. Nelle poesie di Betocchi un’ansia d’illuminazione religiosa s’incontra con un concreto naturalismo; le dieci persone che in tutto formano pubblico, giuria e premiato sono costrette ad aspettare sotto la pioggia che la donna delle pulizie apra la porta del palazzo comunale, lasciata sconsideratamente chiusa. Forse, nonostante la parola poesia ormai sembri dilagare anche negli ambiti amministrativi, quella porta non si è mai aperta. Tuttavia, si può anche restare a guardare la pioggia.

 

Questi studi sono stati oggetto di differenti circostanze di pubblicazione. Tra queste, l’articolo “Trent’anni del Premio di Poesia Città di Frascati”, pubblicato su «Castelli Romani» a. XXXIII (I nuova serie) n. 2 marzo 1993, e una conferenza tenuta con Sergio Zavoli presso lo stesso refettorio dove si svolse nel 1958 la cena dei «poeti amici» nell’aprile 1998, primo anniversario della scomparsa di Antonio Seccareccia. Il discorso non si esaurisce con la completa rivisitazione qui offerta. 

Fotografia: Claudio Comandini, “Il premio del carcerato” – Frascati, maggio 2009.

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