Animali e uomini tra malattia e guarigione

Teorie varie, vita vera e immagini ideali degli animali dai cinici ai punkabbestia, dal riduzionismo all’animalismo, dai pellerossa al pensiero contemporaneo. 

 

È strano scoprire come gli animali esistano di per sé: constatare quanto la loro vita sia indipendente dalla nostra, noi uomini padroni del creato ed elargitori di nomi. Calandoci in una zona selvatica, possiamo scoprire cervi, tassi e volpi nel pieno della loro eleganza, perfettamente liberi nel loro contesto, poco inclini a sopportare la nostra presenza. In confronto ad essi, potremmo anche sentire noi come bestie strane, chiuse in qualche recinto. E quando ci rivolgiamo ai nostri animali domestici, possiamo addirittura scoprire che a volte ci nascondono qualcosa di indicibile e prezioso, nonostante spesso tendiamo a darli per scontati.

A guardarli bene, può sembrarci che gli animali in qualche modo un po’ ci somiglino, e che abbiano qualcosa delle persone da noi conosciute, ricordandoci così anche quanto gli uomini siano tra loro differenti.

Eppure, quasi a segnalare che gli animali esistono in un mondo diverso dal quello umano e che entrarci in contatto può essere pericoloso, spesso le malattie prendono i nomi dalle specie animali: aviaria, suina, e altre dal nome irresistibile che ogni tanto sortiscono, mentre anche i controversi vaccini prendono il nome dall’uso di utilizzare il vaiolo bovino per evitare di contrarre quello umano.

Accade così che una malattia, alterazione morbosa di un organismo, qualcosa la cui denominazione non può essere quella normalmente usata per indicare l’umano stato di salute, prenda il suo nome dagli animali senza chieder loro nemmeno il permesso. E, per quanto riguarda gli esperimenti sugli animali, se eroi della conoscenza quali Galilei e Spinoza se ne sono dimostrati convinti assertori nonché pure un tantino sadici, ai nostri tempi l’apparentemente irrinunciabile riduzionismo continua a propagarne la pratica. E questo spesso accade né per pura e disinteressata speculazione, e nemmeno per il tentativo di sconfiggere malattie, ma piuttosto per produrre futili cosmetici.

Tali aspetti derivano dal fatto che gli animali sono stati largamente esclusi dal nostro universo umano regolato dalla scienza: ciò possiamo osservarlo in due pensatori molto diversi, collocati all’inizio e alla fine della razionalità moderna. Cartesio, che stabilisce le coordinate del nostro mondo di pensiero e materia, considera gli animali come delle semplici macchine senza anima e sentimento, addirittura riducendo i loro versi a semplici «cigolii» (Le passioni dell’anima, 1649). Heidegger, che riporta il pensiero all’Essere e lo sottrae ai rigidi calcoli e alle manipolazioni della scientificità, li vede come «poveri di mondo» (Concetti fondamentali della metafisica, 1929-30), storditi e privi di stupore in quell’ambiente a cui sono rigorosamente consegnati e che caratterizza tutto quanto essi sono.

La visione di un’animalità nettamente separata dall’umanità non è però affatto unica o esclusiva. Ci sono stati anche pensatori che hanno considerato gli animali contigui e continui rispetto agli umani, quali esseri compiutamente senzienti o addirittura come modelli di comportamento; questo nell’antica Grecia, ancora oggi largamente vista come ideale, oppure in filosofi sempre decisivi nella loro inattualità, quali Bruno, che ammette tra uomini e animali profonde e sostanziali similitudini, e Leibniz, per i quali tra tutte le unità di coscienza di cui si compone il mondo sussistono soltanto differenze di grado.

I Cinici, che derivano il loro nome proprio dai cani, nella Grecia antica proponevano uno stile di vita aderente alla natura e refrattario alla civilizzazione, per cui la libertà si compiva proprio nel rifiuto dell’educazione. Non può quindi sorprendere o scandalizzare scoprire nei nostri punkabbesta contemporanei atteggiamenti analoghi, per quanto enormemente lontani dalla sottigliezza di Diogene o Antistene, che comunque avevano, a differenza della maggior parte dei nostri eccentrici vagabondi anti-sistema, in buona considerazione per il sapere.

Un approfondimento degli argomenti cinici di una certa rilevanza lo propongono gli Stoici che, come ricorda Mario Perniola (Disgusti, 1999), associano l’esigenza di riconciliarsi con la natura a quella del riesame della condizione umana, cercando inoltre di riportare la dimensione logica a quella sensitiva. Zenone infatti elimina nella conoscenza l’opposizione platonica tra intelletto e sensi, e dice che «pensare è sentire». Tuttavia, se vogliamo dare credito al commediografo Menandro, per il quale «tra gli animali i migliori hanno la sorte migliore, tra gli uomini i peggiori hanno miglior fortuna», occorre ammettere che l’uomo ha qualche problema in più a livello socio-politico e proprio laddove, come aveva già segnalato Aristotele, l’uomo è l’«animale politico»al cui utile tutto è riconducibile.

Insomma, se sviluppiamo le implicazioni di tale contesto teorico, sono gli uomini ad essere la malattia: la medicina potrebbe quindi essere rintraccia anche in una forma di sapere capace di superare le affezioni morbose che dividono l’uomo da se stesso e dalla natura.

In ambiti culturale diversi, possiamo invece trovare animali e medicina intrinsecamente collegati: infatti, la sapienza sciamanica pellerossa voleva che gli animali fossero nostri compagni nel percorso di guarigione che ci riallaccia a Madre Terra. Ogni animale può quindi essere considerato come portatore di una particolare medicina, di un particolare potere capace di ricongiungerci alla nostra integralità, e così sanare la ferita dalla quale il nostro male prende origine.

Il nesso atavico che ci lega agli animali risulta infatti tipico di molte forme di magia. Considerare gli animali “magicamente” affini potrebbe quindi aiutarci a prenderci cura di noi stessi: forse, riportarci di un piccolo passo nel lontanissimo giardino degli inizi dove, anche prima di ricevere un nome, furono i nostri primi compagni. Ciò permette peraltro di ipotizzare che se Nietzsche abbracciò un cavallo, non è soltanto, come ha affermato Milan Kundera sulle pagine de L’insostenibile leggerezza dell’essere (1982) per ripagarlo delle sferzate infertegli da Cartesio, ma piuttosto perché in quell’abbraccio ha sentito molto di più di quanto gli umani, sempre «troppo umani», non sono più nemmeno in grado di pensare. Tuttavia, nemmeno il grande filosofo tedesco probabilmente se ne accorse, altrimenti non sarebbe impazzito.

Per quanto mi riguarda, ho avuto diversi animali, tutti un po’ pazzi, permettendomi così di comprendere in maniera diretta come l’addomesticamento possa modificare anche il comportamento umano. Pur se non ho mai sfoggiato camaleonti, serpenti, orsi e leoni, ho avuto a che fare con cani e gatti memorabili, e anche con mai troppo banali merli, civette, papere, quaglie e aironi, nonché tartarughe d’acqua e di terra. Il mio primo amore, il primo essere che mi fece provare un sentimento di tal fatta, fu una farfalla, del tipo a Roma detto Santa Lucia, che gli esperti avvisano essere piuttosto una falena, dal nome scientifico Amata phegea (Linnaeus, 1758), lepidottero della famiglia Erebidae diffuso in tutta l’Eurasia.

Tra gli animali nella mia vita, resta memorabile un cane davvero improbabile, un bestione di cinquanta chili e passa che non ha mai smesso di credere di essere piccino, comportandosi di conseguenza. Saro il suo nome, ormai consegnato alla leggenda insieme ad altre leggende.

Era un trovatello, ma si trattava, a dar retta alla fattezze, di un Leonberger: razza meticcia ottenuta da genetisti tedeschi al finire dell’800 dall’incrocio tra Terranova, Pastore dei Pirenei e San Bernardo; fatta per riprodurre il leone dello stemma araldico delle città di Leonberg e poi tra i preferiti delle corti europee, a lungo creduta estinta. Era poi quasi certamente incrociato con un maremmano. Enorme, intelligente, affettuoso, vivace, dotato di aspetto leonino e di zampe palmate: un mostro, davvero bello.

È stato interessante osservare le circostanze attraverso cui si accorse della propria attitudine acquatica, giocando da cucciolo con il getto del bidet, sorpreso della sua stessa reazione, mentre scopriva quanto già fosse per predisposizione genetica. Il suo istinto era adattato a tale evenienza, e i suoi sensi stavano facendo esperienza di capacità delle quali era dotato per natura. Insomma, elaborava i dati secondo forme a priori sorte filogeneticamente per adattamento all’ambiente, confermando l’opinione dell’etologo Konrad Lorenz (E l’uomo incontrò il cane, 1950), che sostanzialmente rileggeva Kant alla luce di Darwin e della biologia. Come per noi, ma in gradi diversi, l’esperienza animale delle forme a priori di spazio e tempo, e delle categorie di quantità, qualità, modalità e relazione, è del tutto mediata.

Come noi, l’animale può gioire e soffrire, ma in modo differente. Io non ho mai saputo quanto poteva essere grande il dolore di Saro ogni volta che mi allontanavo, e non ho mai capito quanta eternità per lui fosse passata quando tornavo dopo cinque minuti. Non so quale allegria gli suscitasse il mattino quando si alzava dal suo giaciglio e mi assaliva mentre ero ancora assonnato nel letto. E ho sempre stentato a comprendere il suo cantare quando io suonavo la mia tromba quanto lui forse non capiva tale mia usanza: però eravamo intonati.

Nel suo stare sotto il tavolo mentre studiavo e scrivevo mi ha accompagnato meglio di ogni compagno di studi. Mangiavamo sempre insieme: non le stesse cose, ma comunque agli stessi orari e nello stesso luogo. C’era qualcosa di più dell’affetto incondizionato che molti riconoscono ai cani senza riuscire a restituirglielo.

Eppure, gli animali, per quanto ci accompagnano e nonostante permettano di definirci quali uomini, sono sempre altro da quanto ci caratterizza. Anche negli spazi domestici nei quali li ospitiamo, sono perlopiù relegati in spazi precisi: la gabbia, il recinto, la catena. Spesso, tali misure sono adottate proprio per loro tutela: lasciare oggi un animale incustodito significa rischiare di esporlo a rappresaglie inconsulte da parte di umani spesso disumani. Specialmente se provvisti delle caratteristiche del terribile Saro.

Quando morì, per un colpo di caldo improvviso durante una nostra passeggiata, sentii tutte le morti dei miei cari già morti. Una rassegna di dolori interminabili e continui mi travolse, per rendere infine pace a me e a loro. Fu forse il suo ultimo dono. Le sue ceneri ora sono con me, verranno sepolte con me, quando sarà il tempo.

Esistono coloro che dedicano agli animali il divano buono, quelli che ci dormono insieme, e pure chi ci si accoppia, fosse con la pecora preferita o col suo alano di razza. Tuttavia, a differenza della copula animale, spontanea e senza pudori con chiunque, quella umana, piaccia o meno, è sempre in qualche modo culturalizzata. E lo è anche, per chi segue tali costumi, quella praticata con gli animali. Questo anche laddove gli accoppiamenti antropozoomorfi erano praticati non soltanto senza troppi problemi, ma anche con una valenza religiosa, rappresentando l’animale la forma primordiale del dio e della forza elementare, latente nel subconscio umano, alla quale ci si voleva ricongiungere.

Ai maghi dell’antichità non era comunque necessario l’accoppiamento fisico per prendere contatto con queste primordiali forme di coscienza. Nella prosaica contemporaneità, dato che nel sesso si cerca perlopiù il semplice soddisfacimento sensoriale, ed essendo appurato che gli uomini hanno gradi di apprezzamento diverso da quelli delle altre bestie, resta dubbio che tali forme di accoppiamento siano appaganti o salutari per tutti colori che possano esserne coinvolti, consenzienti o meno, e forse esclusivamente la tristezza post-coitale può accomunare i partecipanti.

Nelle arti visive, una forma morbida di zoofilia e di scambio di ruolo con gli animali sembrerebbe essere quella praticata da Beatrix Potter, illustratrice dell’Inghilterra vittoriana, che gentilmente riporta gli animali negli spazi domestici facendoli vestire e comportare come noi. Peter Rabbit e altri suoi personaggi riducono completamente la distanza posta da mura e cortili, e così gli uomini hanno potuto definitivamente scoprire quanto ognuno di loro potesse somigliare a determinate bestie. Curiosamente, la Potter cresce priva di educazione per imposizione dei suoi ricchi genitori, e deve l’esser scampata ad un destino di noia proprio alla vivacità del mondo animale.

Invece le fiere che incontriamo nelle fotografie di Giancarlo Mancori portano meraviglia tanto della loro, quanto della nostra condizione. Animali dai nomi spesso dimenticati o confinati ai manuali di zoologia come allocchi, balestrucci, cavalieri d’Italia, farfalle vanesse, folaghe, lupi, macaoni, svassi, upupe, verzellini, sono riportati vicini a noi mettendosi completamente dalla loro parte. Spiegano le ali, arruffano il pelo, puntano gli artigli: questo è il loro mondo, semplice e perfetto, che ammiriamo senza parteciparvi. L’autore, come un cacciatore che non caccia per uccidere ma per conoscere, si mimetizza nel loro ambiente per sorprenderli, cogliendoli in ciò che hanno di più tipico e ferino. Gli animali ci guardano, prossimi e distanti quanto basta per essere colti dall’obiettivo fotografico, parlandoci delle nostre libertà, quelle irraggiungibili e quelle perdute.

A guardare gli animali in queste rappresentazioni, potrebbe così venirci in mente che, contrariamente a quanto Heidegger aveva supposto, lo stupore appartiene all’animale ed è profondamente radicato nei suoi sensi, anche nella relazione immediata che esso intrattiene con il suo ambiente. Guardare un animale giocare, giocarci assieme porta effettivamente ad un particolare benessere e anche ad una forma di interesse, di tensione a qualcos’altro che non si riduce alla contemplazione della nostra superficialità a cui spesso, come ci ricorda lo scrittore Massimo Pamio, comunque nei nostri ambienti domestici e urbanizzati spesso li riconduciamo.

Gli animali rappresentano quindi un problema filosofico: proprio per questo, non possono essere manipolati pure per giustificare posizioni pregiudiziali: come ricorda Barbara Carnevali, nemmeno quelle che si credono “contro”, come gli animalismi e i naturalismi e altri ismi ormai alla moda. Come fanno, con modi apparentemente emancipatori, anche gli esponenti meno settari della tendenza animalista, legati a posizioni antispeciste e quindi contrari alle discriminazioni secondo specie non per ignoranza scientifica di base ma per generoso radicalismo egualitario, che rilanciano il ruolo degli animali quali «moltitudine sterminata» (M. Filippi, M. Hardt, M. Maurizi, Altre specie di politica, 2016).  Questa così diventerebbe, oltre che parte integrante del proletariato, modello storico di ogni sfruttamento e perfettamente integrata quali soggetto di un discorso di emancipazione politica.

La liberazione degli animali dal cosiddetto «giogo del potere umano» soffre però a sua volta di  riduzionismi, laddove si convince che il comportamento umano perseguiti gli animali per statuto, che le loro relazioni siano perlopiù quelle riscontrabili nel contesto urbanizzato, che le tendenze umane siano esattamente stessa cosa dell’istinto animale, che gli uomini si limitino a possedere un corpo piuttosto che esserlo. Le ibridazioni di cui tali posizione sono in cerca risultano così frutto non di un accoglimento delle diversità naturali, ma di omologazioni forzate, e la loro utopia risulta piuttosto lontana non soltanto dal paradiso possibile, ma anche dalla realtà concreta.

Infatti, un’onesta scienza ci fa comprendere che, se l’antropizzazione ha portato alla sparizione progressiva di molte specie, molte altre senza l’addomesticamento, peraltro fondamentale per lo sviluppo storico dell’agricoltura, potrebbero trovarsi a rischio di sopravvivenza; inoltre, certe forme di addestramento, quali quelle dei cani per i ciechi, risultano vantaggiose per uomini e animali. Questo è ampiamente constatabile anche a dispetto delle posizioni di Gary Francione, per il quale l’addomesticamento è «moralmente inaccettabile» e pertanto da abolire in ogni sua forma: tale estremismo soffre proprio dell’antropomorfizzazione che dice di combattere, così come il suo avversario animalista di altra tendenza Will Kymlicka, invece a favore dell’addomesticamento a tal punto che propone pieno assegnamento dei diritti di cittadinanza agli animali, per quanto costoro appartengano ad un ordine cognitivo altro rispetto al nostro (James McWilliams, Potere animale, 2016 – «Internazionale» 1184).

Per tali questioni, qualche verità può venire dai mondi immaginari. Una società metaforizzata nelle figure animali appartiene alla critica politica condotta in tempi e con strumenti diversi da coscienze critiche quali George Orwell (Animal Farm, 1945) e Roger Waters dei Pink Floyd (Animals, 1977), che hanno evidenziato come la sopraffazione sia una regola generale. Invece, la piena assimilazione di tutte le specie in una medesima società ha avuto luogo nei personaggi di Walt Disney, portando con sé diversi paradossi, tra i quali quelli di Pippo e Pluto, canidi che appartengono visibilmente a fasi evolutive diverse.

E questa evoluzione, che con Darwin non sottovalutava in nessun modo la vita emotiva degli animali, è tuttora in corso, comportando così diverse modalità di selezione e adattamento, e tutto questo non è buono né cattivo. E al riguardo, l’osservazione fa comprendere come esista una bestializzazione incipiente, evidente nella diffusa caduta della funzione significante del linguaggio, tipo quella che ogni giorno impazza sui media vecchi e nuovi.

Come ogni autentica interrogazione filosofica, tale argomento spiazza per radicalità e chiarezza, ed è formulato, ricollegandosi ad Heidegger, da Giorgio Agamben (L’aperto, 2002). Infatti, in questa nostra attualità, la pregressa perdita della distinzione tra uomo e animale non sembra accadere perché andiamo verso una qualche forma di integrazione, ma piuttosto perché siamo costretti ad essere impotenti testimoni del degradare della vita umana, dotata di forma e senso, ad un altro tipo di vita, intesa in senso piattamente naturalistico, nella quale effettivamente l’uomo è «stordito», inetto alle relazioni se non nella loro forma più banale e immediata, sovraeccitato eppure incapace di esperienza, privo di diritti e di ambizioni se non quella di sopravvivere.

Non possiamo sfuggire agli animali. Facciano paura o si voglia essere come loro, disturbino la rappresentazione razionale che l’uomo fa di se stesso oppure ne costituiscano un termine di confronto, sono continuamente presenti, né troppo lontani né troppo vicino a noi, a ricordarci chi siamo. Hume, uno dei maggiori grandi critici della sostanzialità della nostra identità personale, ricordava la fondamentale similiarità delle funzioni intellettive umane e animali: la nostra ragione è, quanto la loro, bestialmente subordinata alla passione, e «siamo costretti dalla legge dell’umanità a trattare cortesemente tali creature» (A Treatise of Human Nature, 1739-40)

Se sapessimo davvero guardare gli animali come sono, se potessimo realmente vedere come ci guardano, li tratteremo ancora meglio, e così forse tratteremo finalmente bene anche noi stessi e il mondo tutto, almeno fin lì dove arriviamo. Ma non ne siamo capaci. E proprio nella sobria accettazione di questa piccola e problematica comune realtà possiamo forse trovare una qualche possibile salute.

 

Giancarlo Mancori, Accoppiamento cavalieri d'Italia

Parte dello scritto è stato pubblicato come prefazione a “Il sogno della natura” di Giancarlo Mancori – catalogo della mostra fotografica al Policlinico di Tor Vergata (Fondazione PTV, Roma 2010).

Illustrazione: Beatrix Potter, Peter Rabbit (1902)
Fotografia: Giancarlo Mancori, Accoppiamento cavalieri d’Italia (2016)

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