Spazi vuoti

Lo spazio vuoto della storia e una santa mai esistita. La Turchia vista da Hagia Sofia. Ricorrenze del simbolo della mezzaluna tra l’Islam e Genzano di Roma. I nomi della dea. Principessa Bibesco e Flaubert: il tempio dell’idea, la capitale del mondo. Frazer e Lord Byron: il bosco del sacerdote assassino, i pellegrinaggi di un giovane poeta. I vuoti del presente tra il Bosforo e i Castelli. Derrida e Montale: effetti di spettralità e fantasmi che salvano. Pagels: vuoto fisico e indeterminazione della materia. Prospettive metropolitane.

 

Resta della nostra storia un puro spazio vuoto. Questo vuoto, a differenza di quanto possano aver considerato gli antichi e i moderni, non nega e non afferma il movimento, il pensiero o la compiutezza, e si impone alla nostra considerazione anche in base all’esperienza di un presente che oscilla continuamente tra potenzialità generativa di forme e perdita irreparabile di ogni eredità. A Istanbul, questo vuoto ci sorprende tra la loggia del muezzin e il luogo di incoronazione dei basileus, all’interno di Hagia Sofia, nome di una santa mai esistita. Edificio dalle proporzioni improbabili ma solide, è originariamente un tempio pagano dedicato alla Sapienza, che nel cristianesimo si configura quale aspetto della divinità.

Consacrato come chiesa da Costantino nel quadro della riorganizzazione della nuova capitale imperiale nel 360, nel 404 è incendiato dai partigiani di Giovanni Crisostomo, patriarca della città. Riedificato da Teodosio II nel 415, nel 532 è un’altra volta dato alle fiamme durante la rivolta di Nika, che minaccia di travolgere Giustiniano accusato di eccessive spese militari. Di nuovo eretto nel 537 con il proposito di essere più splendido del Tempio di Salomone di Gerusalemme, rappresenta il più grande edificio sacro della cristianità, per lasciare dopo alla presa ottomana il primato a Santa Maria Maggiore di Roma.

A detta delle leggende, nel 1453 vi entra a cavallo e interrompe una messa che attende ancora di essere ripresa Maometto II, che conquista la città all’Islam accrescendone di fatto lo ricchezza. Da moschea, nel 1934 l’edificio diventa museo, per opera di Mustafa Kemal, padre laico della Turchia moderna, «turco come gli antenati» (Atatürk), che inoltre trasferisce la capitale ad Ankara. Segnato dalle fiamme, dalle spade e dal sangue, ancora oggi l’edificio porta il santo nome della divina sapienza.

Uno spazio vuoto si apre dalla mezzaluna e partorisce una stella nella bandiera turca e nel simbolo dell’Islam. Una mezzaluna, diversamente orientata e poggiata su una colonna, caratterizza anche lo stemma di Genzano, cittadina dei Castelli Romani. La località non ha storicamente intrattenuto rapporti di nessun tipo con l’Islam. Infatti, non è stata toccata dalle incursioni saracene, che nel IX sec. coinvolsero Ostia, le chiese di S. Paolo e S. Pietro a Roma, creando insediamenti in alcune zone della Valle dall’Aniene, tra cui Saracinesco. Inoltre, non ha nessuna pertinenza con la battaglia contro gli Ottomani svoltasi a Lepanto nel 1571, nella quale si distinse Marcantonio Colonna II, signore di Marino, che peraltro cedette il castello di Genzano qualche anno prima di guidare la celebre spedizione navale.

La somiglianza simbolica suggerisce che l’estrema lontananza possa accogliere una continuità sotterranea. In qualche modo, un aspetto nascosto dell’Islam si rivela nei riflessi del lago di Nemi, uno dei luoghi storici della latinità, sul cui ciglio meridionale sorge la cittadina. Infatti, in ambedue i casi c’ della un riflesso della mezzaluna sacra alla dea conosciuta presso i latini come Diana e presso i Greci come Ecate, della quale un’altra forma è Artemide, alla quale erano sacri il fuoco, la caccia e i nascituri. Ecate, legata ai cani e ai culti lunari, precede le religioni indoeropee. È una divinità androgina e psicopompa che viaggia tra il maschile e il femminile, tra la vita, la morte e gli dei. Non è una, non è due: è tre.

Ecate era stata la prima protettrice dell’antica Bizantyon, fondata su suggerimento dell’oracolo di Delfi nell’immenso porto naturale che fronteggiava la «città dei ciechi», Calcedonia, Kadiköy, in seguito occupata da Turchi già in epoca bizantina, ora nella parte asiatica del sistema metropolitano stanbulino. Alcuni coloni provenienti da Argo introdussero nella città il culto di Hera, moglie di Zeus, protettrice della fedeltà coniugale e nemica del genere umano. Diverse figure si intersecano nei culti della città e nella definizione delle divinità femminili.

Per la principessa Marthe Lucile Bibesco (Gli otto paradisi, 1908) la grandiosità di Sofia è capace di annientare una persona così come può farlo il cielo. «Prodigiosa basilica non dedicata al culto» e «santuario del Dio assente», lontana dal Cristianesimo quanto dall’Islam, rappresenta l’«enorme tempio dell’idea». La scrittrice e storica rammenta inoltre alcune vicende, che fanno comprendere come l’influenza occulta di Ecate mai abbandonò la città. Infatti, le streghe la celebravano segretamente nella notte di San Giorgio, mentre l’imperatrice Teodora, reputata la cristianissima consorte di Giustiniano, la implorava affinché non perdesse i suoi poteri di seduzione. I Turchi vittoriosi, in spregio della croce, recuperarono il simbolo della mezzaluna, che fu identificata con l’Islam.

L’impero islamico a sua volta si riconobbe nella conquista di Costantinopoli, detta già dai Bizantini Is tin polin, la città. Metropoli antica, genera e travolge due imperi, per sopravvivergli. Fourier annota che fosse destinata ad essere capitale del mondo, e sulla sua scorta Gustave Flaubert (Correspondaces, 1858) ammirandola e sentendosi schiacciato dalla sua folla e immensità, testimonia che «come umanità è davvero enorme», con palazzi che sembrano le navi di «una flotta immobile» e cimiteri che sono «foreste in mezzo all’abitato».

Sulle sponde del lago di Nemi, detto Speculum Dianae, risplendeva nel riflesso della luna la lama di un coltello, brandito da uno schiavo fuggitivo. In remote notti d’estate, esattamente il 13 agosto, nel santuario di Diana costui aveva colto un ramo d’oro da un albero sacro i cui rami nessuno poteva spezzare. Uccidendo il proprio predecessore sarebbe stano nominato Re del Bosco. Frazer (Il Ramo d’Oro, 1890-1922) nel fornire gli elementi di questa antropologia si ispira ad un quadro di Turner, ricordando che dobbiamo ad Oreste l’introduzione del culto di Diana e della figura del Rex Nemorensis. Caracalla, perfezionando l’influenza egiziana su Roma, associò il lago al culto di Iside, collocandovi due navi, affondate dai senatori dopo la sua morte; i resti delle imbarcazioni dopo sporadici tentativi, furono recuperati sotto il fascismo per essere quindi definitivamente devastati da un incendio, forse provocato da nazisti o da sciacalli.

Nei girovagare giovanili dell’Aroldo (1809-1818), Lord Byron canta tanto lo «specchio ovale del vitreo lago», quanto le «onde scintillanti» del Bosforo spazzate da «una brezza fugace», e anche nel suo epistolario ricorrono riferimenti alle «meraviglie» delle due località. Ne Il Giaurro (1812-1813), «racconto turco» ispirato dall’esecuzione sommaria di un’adultera alla quale aveva assistito ad Atene, una forma frammentaria e modulare permette ampie trasgressioni rispetto all’unità cronologica e a quella della voce narrante, e attraverso un linguaggio zeppo di arcaismi denuncia tanto le inadeguatezze musulmane quanto di quelle cristiane.

Nel vuoto del presente le memorie antiche restano sospese. Genzano è conosciuta per produrre pane casareccio, nel bosco di Nemi si coltivano le fragole: come dice la canzone Nannì, «li Castelli so’ così». Ma a parte il godere di un’ottima gastronomia, da quelle parti non sembra esserci molto da fare: forse, la storia è per davvero conclusa, oppure semplicemente non siamo in grado di muoverla. Le acque del lago, già ridotte per i lavori connessi al recupero delle navi, si ritirano ormai progressive e inesorabili, fornendo così emblema anche allo svuotamento delle possibilità.

Immagini arcaiche si sovrappongono a quelle contemporanee anche nel sistema gemello costituito dalla cerchia dei paesi dei Castelli Romani e Prenestini e dal Grande raccordo anulare che circonda la capitale, nel quale si può intravedere la proiezione topografica dei divini Dioscuri così come la filigrana di una metropoli impossibile. Tuttavia, esclusivamente un abusivismo sfrenato ha saldato i paesi alla città, nessuno si è preoccupato di realizzare servizi e infrastrutture: la condanna al provincialismo sancita dalla politica è stata implacabile.

I vuoti urbanistici tendono perlopiù ad essere colmati da una logica irriguardosa. La vertiginosa crescita economica subita da Istanbul dal 2002 ha enormemente incrementato tanto il livello di vita quanto quello degli investimenti. Sulukule, nel distretto di Fatih, quartiere dalle piccole e colorate case in legno, abitato dai Rom dei Balcani dai tempi di Solimano il Magnifico, è stato travolto dalle ruspe nel 2009. Poco dopo, dall’altra parte del Bosforo, a Beyoglu e quindi tra Taqsim e Pera, sono stati abbattuti i palazzi ottomani in pessimo stato e dalla fama ancor peggiore di Tarlatasi, abitato da Curdi, vicino alla centrale strada Ìstiklâl Caddesi. Il posto di questi quartieri popolari demoliti deve essere preso da abitazioni di lusso: un modo piuttosto in linea con le peggiori tendenze occidentali di celebrare la nomina a Città europea della cultura. Il presente continua a disattendere le proprie esigenze.

In tutta la metropoli globale, fuori dal Bosforo e dai Castelli, il presente sfugge a se stesso.  Possiamo cercarlo nelle intersezioni di tre pensatori tra loro molto diversi quali il filosofo Jacques Derrida, il poeta Eugenio Montale, il fisico Heinz Rudolf Pagels.

Dove è il tempo stesso ad essersi disarticolato, con «effetti di spettralità», siamo esposti ad un’inadeguatezza diffusa e senza scampo: Derrida (Spettri di Marx, 1993) suggerisce però che tale frattura del tempo sia a sua volta necessaria. Se in questa non contemporaneità diffusa è impossibile pensare l’omogeneità, è proprio il recupero della storia a permettere gli «effetti di congiuntura» che ne permettono in qualche modo una riparazione.

Cosa tutto questo possa significare, lo scopriamo quando la pura esteriorità delle apparenze va a costituire la cifra di un’intimità e di una consistenza capace di accogliere e consolare: in qualche modo, ciò era descritto da Montale laddove, procedendo «di qua dall’erto muro», e quindi nell’esplorazione del finito, è possibile ascoltare il «commuoversi dell’eterno grembo» e incontrare il «fantasma che ti salva» (In limine, 1924). E oggi come ieri, i messaggeri sono spesso ignoti: semmai, è il messaggio ad essere riconosciuto.

Questo messaggio si annuncia in un vuoto che è perdita e potenzialità, equilibrio dinamico di materia le cui particelle costitutive, a detta di Pagels (Codice cosmico, 1983), si creano e si annullano di continuo, e sono misurabili, come prescrive il principio di indeterminazione di Heisenberg soltanto in uno spazio limitato, della cui struttura nel nostro andare rinveniamo il codice.

Pensosa la luna raccoglie i propri riflessi in ogni specchio d’acqua. Gli orizzonti della metropoli scintillano affilati come lame. La potenza generatrice della terra non smetterà di sostenere il mondo degli uomini, nonostante le offese che continuamente riceve; a dispetto di una barbarie e di un idiotismo incombenti, ogni luogo sta diventando centro di una cultura cosmopolita in formazione, che sollecita partecipazione diffusa e pronto intelletto. Come un’antica divinità, la realtà non ha un aspetto solo, non ne ha soltanto due. Al limite e al centro di ogni esistenza, spazi vuoti ancora generano stelle, perfezione e sapienza.

Fotografia: Claudio Comandini, “Santa Sofia riflessa nelle acque” – Istanbul, agosto 2002.

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