Lotta armata, giustizia pop, varia letteratura

Piccolo viaggio negli anni di piombo e i suoi fantasmi senza agiografie né riprovazioni. Vita e opere di Cesare Battisti. Prassi e teoria del Processo 7 Aprile. Politica, informazione e terrorismo secondo Toni Negri, Giovanna Procacci, Giorgio Grossi, Hans-Dieter Bahr. Censure e dintorni.

 

1. Cesare Battisti: romanzi di lotta in compendio

La storia italiana a noi più prossima risulta bloccata su questioni apparentemente insolubili eppure decisive, rispetto alle quali ogni passo impiglia in nuovi inciampi e in nuovi equivoci. Alcune di tali questioni procedono attraverso l’occultamento degli stessi contesti, tanto nazionali quanto internazionali, che potrebbero permetterne la comprensione. Tale rimozione porta la percezione comune a restare sostanzialmente estranea ai problemi in cui si dibatte, come se agisse una sorta di censura che impedisca di scrivere quanto invece dovrebbe essere scritto.

Tra i libri censurati c’è il romanzo mai scritto sugli anni Settanta e gli anni di piombo di cui argomenta Il caso Cesare Battisti e gli anni Settanta di Walter G. Pozzi. Infatti, il clamore mediatico su Battisti, che nasce piuttosto recentemente e in ritardo rispetto ai fatti contestati, potrebbe essere letto come un romanzo ipotetico sulla strutturale ambiguità con la quale viene generalmente elaborata la storia del paese e quindi la sua incapacità di fare i conti con se stesso. L’idea riprende un’intuizione di Pasolini rispetto al «romanzo delle stragi», ma gli viene dato uno sviluppo completamente diverso.

Un romanzo può anche essere scritto male. Come osserva Pozzi, nelle narrazioni che pongono l’ex terrorista, peraltro in seguito divenuto romanziere, al centro di questa storia degli anni di piombo mancano gli elementi tipici di un buona narrazione, quali per esempio la verticalizzazione dell’analisi, che permetterebbe di affrontare senza superficialità i piani umani, politici e storici. Non ricevono così alcuna menzione il boom economico, la restaurazione delle forze di produzione, l’inefficienza dello stato, il coagularsi della contestazione, le manovre eversive, nonché ben 12.690 stragi e attentati politici di destra e di sinistra, che tra 1969 e 1980 realizzano un totale di 362 vittime.

Tale romanzo, per essere scritto come si deve, dovrebbe farci capire i motivi per cui il protagonista principale si trova agito dalle vicende. Laddove questi è, come Battisti, uno dei giovani che, reagendo alle pressioni politiche contro la protesta, cade nella trappola autodistruttiva di quegli anni impazziti e decide di armarsi, ciò non andrebbe fatto accadere in astratto, ma in un contesto storico e in un’atmosfera complessiva nella quale tutti i diversi personaggi si muovono.

Una buona narrazione saprebbe risolvere la rimozione delle trame che dai corridoi del Palazzo hanno congelato il paese. Queste, secondo la lettura di Pozzi, vengono erette su tre assi: la provocazione contro i movimenti di protesta, l’alleanza del PCI nell’attacco alla sinistra extraparlamentare realizzato con l’attuazione del compromesso storico, e la repressione mediatica, militare e giudiziaria. Ora, questo libro non c’è: non sappiamo se, come suggerisce Pozzi, per l’insufficienza dei nostri scrittori, oppure perché una forma di censura abbia agito preventivamente, quale dispositivo inconscio, come  del resto da sempre accade. Ad ogni modo, se il Paese da sempre esiste come progetto culturale, un abbozzo di tale storia e un approccio a quanto è taciuto deve quantomeno essere tentato.

Cesare Battisti ha in dote il nome di un ex deputato del Parlamento austriaco condannato all’impiccagione per quel tradimento del proprio paese che lo renderà noto come eroe del Risorgimento italiano. Pur se di estrazione proletaria e comunista, all’inizio della carriera era perlopiù un teppista, mentre all’epoca dei fatti a lui contestati rappresentava soprattutto uno dei bracci armati dell’eversione politica, estraneo a ruoli di tipo ideologico. Successivamente in Francia intraprende un lavoro di autore noir, poco conosciuto in Italia, del quale Elisabetta Caravati ha scritto: «Una ricerca nel reale in cui raramente si va nella direzione di quel che ci si aspetta, perché nella vita vera le reazioni sono sempre insensate, assurde, talora raccapriccianti.» Così, «Ridotto al silenzio delle ombre, come non può essere che un personaggio di un romanzo» (Ma cavale), nei suoi romanzi approfondisce e demistifica questa immagine, con incursioni tra autobiografia e autofiction. L’ombra delle questioni giudiziarie non lo abbandona nemmeno in questa attività, in quanto risulta che un suo primo romanzo è stato trafugato e pubblicato a nome di un’altra persona e quindi sottoposto ad un processo per plagio. .

Facciamo una panoramica di alcune delle sue opere. Les habits d’ombre (1993, tradotto nello stesso anno come Travestito da uomo), radiografa il sogno fallito e inespiabile dei rivoluzionari costretti all’esilio. In L’ombre rouge (1995, tradotto come L’orma rossa nel 1999) analizza l’antagonismo sociale e la collusione del Partito Comunista con i poteri reazionari, e scrive: «Siamo rimasti in pochi a non credere che i furbi sono quelli che hanno ragione, e ciò non vuol dire che noi siamo i matti, semmai, è vero che siamo molto soli». Dernières cartouches (1998, pubblicato simultaneamente come L’ultimo sparo) mette in scena gli scontri insensati e ineludibili degli anni di piombo descrivendo gli intrecci tra mafia, Stato e Vaticano. Avenida Revolución (2001, tradotto nel 2003), racconta un viaggio in Messico e una storia di trasformazione personale, in duello con l’alienazione, gli altri e se stesso. Le cargo sentimental (2003) rigetta le teorie della lotta armata immaginando la storia di un ragazzo che si unisce ad una formazione eversiva per incontrare ragazze, e andare poi incontro ad un fallimento sentimentale. Ma cavale (2006) compie un percorso a ritroso nella propria vicenda e, mentre dipinge con toni lugubri i contesti dell’eversione, prende le distanze dall’immagine da «mostro» a cui è stato ridotto dai media. In Face au mur (2012, in italiano Faccia al muro) «la gloria di essere infelice come nessun’altro» si colloca in un racconto di prigionia che documenta la resa incondizionata di «una generazione che ha provato a scombinare le carte in tavola (del Capitale) senza riuscirci» (Mario Bonanno). E fin qui arriva la sua letteratura.

 

2. Cesare Battisti: compendio di una vita in fuga

Tentiamo una sintesi, senza né agiografie né riprovazioni, delle complesse vicende vissute da quest’uomo, ultima reliquia di un passato che ancora ci sfugge e che per qualcuno è una specie di eroe e per altri semplicemente uno stronzo e un assassino: la cosa buffa però è che per tutti costoro, seppur diversamente, è segno della merda del Paese. Nato a Cisterna di Latina nel 1954, viene arrestato la prima volta nel 1972 per una rapina compiuta a Frascati. Di nuovo incarcerato nel 1974 per un’altra rapina con sequestro di persona a Sabaudia, nel 1977 è un’altra volta in prigione a Udine, dove inizia ad interessarsi alla lotta armata con Arrigo Cavallina. A Milano intraprende numerosi espropri proletari nei confronti di banche e supermercati per i PAC (Proletari Armati per il Comunismo), un progetto eversivo di impronta territoriale molto diverso dalle Brigate Rosse. Arrestato nel 1979 nelle retate del collettivo della Barona di Milano, nel 1981 evade dal carcere di Frosinone e abbandona l’Italia.

Trascorre quindi una lunga latitanza in Francia grazie alle disposizioni della Dottrina Mitterand, che dal 1982 si propone di rifiutare l’estradizione verso paesi «il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che Parigi ha delle libertà». Nel frattempo, si occupa di corsi di scrittura per detenuti, contribuisce a realizzare biblioteche per comunità carenti, e fonda la rivista culturale Via Libre. Successivamente è per dieci anni in Messico, dove nasce la prima delle sue tre figlie, fonda un’altra rivista e una biennale di arte grafica. Torna in Francia nel 1990, e l’anno successivo viene imprigionato su richiesta italiana e poi rilasciato dopo quattro mesi di detenzione perché considerato non estradibile.

Nel 2004, decadute le disposizioni precedenti per effetto del patto Castelli-Perben, Battisti viene arrestato a Parigi e riceve in contumacia più di un ergastolo a causa dell’imputazione di quattro omicidi commessi tra giugno 1978 e aprile 1979. Questi riguardano il maresciallo di polizia penitenziaria Antonio Santoro, il gioielliere Pierluigi Torregiani (per questo in quanto ideatore), il macellaio Lino Sabbadin, l’agente della Digos Andrea Campagna. Battisti rompe il suo silenzio e, pur definendosi «guerrigliero della lotta armata», rompe il fronte unitario con gli ex compagni e inizia a dichiararsi innocente, facendo anche i nomi di quelli che a suo avviso sono i veri assassini, altri quattro ex militanti del PAC. Dopo quattro mesi viene liberato e si rende latitante. Se il caso giudiziario e diplomatico riscontra un enorme interesse istituzionale e mediatico, le effettive responsabilità di Battisti rimangono oscure a causa dei sospetti di irregolarità che riguardano soprattutto il processo Torregiani, il cui figlio è tra i suoi principali oppositori, e le decisive testimonianze di Pietro Mutti, viziate di numerose contraddizioni.

Il caso Battisti. L’emergenza infinita e i fantasmi del passato (2004), scritto da Wu Ming, Valerio Evangelisti e altri autori della redazione della rivista telematica di letteratura, immaginario e cultura d’opposizione Carmillaonline, effettua una ricostruzione critica che mette ampiamente in discussione l’impianto accusatorio. La rivista realizza inoltre un appello che tra Italia e Francia tra scrittori, intellettuali, docenti e varia umanità trova 1.500 firmatari, mentre altre 500 firme vengono raccolte da una iniziativa analoga in Brasile. L’appello ricorda l’attuale attività di scrittore di Battisti, basata proprio sul ripensamento dell’antagonismo radicale, e mette in evidenza che l’asilo politico gli fu concesso dopo che un magistrato francese, vagliate le prove a suo carico, le giudicò contraddittorie e «degne di una giustizia militare». Al riguardo, si esprime anche Amnesty International.

Sostanzialmente, gli vengono attribuiti, anche laddove le circostanze non potevano permettere una sua partecipazione, tutti gli omicidi commessi dall’organizzazione clandestina a cui apparteneva negli anni 70. Il proposito dell’appello non è comunque il compiere una rivalutazione della figura e delle imprese di Battisti, e nemmeno quello di assolverlo incondizionatamente dalle accuse, quanto il cercare di favorirne un più sereno giudizio, il che certamente potrebbe anche permettere di comprendere meglio lo sviluppo di una storia che arriva fino a noi.

Dopo il 2004 Battisti si rifugia in Brasile con l’aiuto dello scrittore e militante Fernando Gabeira. Nel 2007 il suo ricorso viene rigettato dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ed è un’altra volta arrestato a Capocabana. Nel 2009 viene rilasciato laddove il ministro della giustizia brasiliano Tarso Genro, convinto che in Italia sarebbe stato in pericolo di vita per via delle sue idee, gli concede asilo riconoscendogli lo status di rifugiato politico, reputato però illegittimo sulla base di una sentenza del 1969 dal Supremo Tribunal Federal (STF).

Nel marzo 2010 riceve una condanna per uso di passaporto falso. Nel dicembre l’estradizione richiesta dal governo italiano viene negata, seguendo l’orientamento dell’Avvocatura di Stato sul trattato bilaterale relativo all’estradizione, dal presidente uscente Luiz Inácio Lula da Silva, che gli concede un visto permanente. La decisione viene quindi ratificata dalla nuova presidente Dilma Rousseff.

La sua più strenua difesa è condotta dalla scrittrice Fred Vargas, che ne La Vérité sur Cesare Battisti (2009) contesta con puntiglio di antropologa che le responsabilità attribuitegli siano tutte a suo carico. Invece, la giornalista e politica Barbara Spinelli relativizza in maniera molto netta tanto la presunta posizione di esule politico di Battisti, quanto il ruolo autenticamente politico del terrorismo, in modi che in sede storiografica è opportuno considerare. Roberto Martinelli dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo ne sostiene a sua volta la piena colpevolezza, denunciando con condivisibile rigore argomentativo il «corto circuito» della memoria e della politica che immagina il Sessantotto come una «rivoluzione interrotta», sindrome che coinvolge in maniera particolare gli intellettuali inclini ad una sorta di «santificazione» del superlatitante, nel corso del tempo condannato da sette processi. Per quanto invece concerne l’uso cinico di vittime e parenti e le isterie dell’indignazione giustizialista, molto diffuse su media vecchia e nuovi, non sono cose di cui vale la pena occuparsi.

Da parte sua , Battisti disconosce completamente le accuse e quindi ruoli che gli sono attribuiti dalle accuse. Teme di tornare in Italia, descritta come «una democrazia con la mafia al potere» dove «la tortura faceva parte del quotidiano», e che «non può ammettere che negli anni 70 ci fu una guerra civile», e nel quale i «fascisti non furono mai allontanati dal potere. E che oggi purtroppo sono ritornati.» (Intervista di Luiza Villaméa, «Istoe» 01/2009). Se da una parte «chiede perdono» per le vittime degli attentati e si dichiara pronto a incontrare i parenti di quelli a lui attribuiti («Corriere della Sera» 29.01.2009) dall’altra chiede allo Stato di «voltare la pagina» e quindi il «riconoscimento del conflitto armato»(Fabrizio Lo Russo, La mia fuga. Intervista, «Carmillaonline» 25.05.2013; Cesare Battisti, una vita tra omicidi, carcere e fughe, «Ansa», 30.12.2010). Inoltre, dichiara: «Da quando il mio caso è diventato internazionale, è divenuto anche una moneta di scambio per molte cose. Hanno fabbricato un mostro che non ha niente a che vedere con me» («Brasil de fato» n. 413 01/2011). E dove la sua vicenda lo ha reso «traumatizzato e sotto osservazione psichiatrica», afferma di venir «perseguitato perché scrittore e con un’immagine pubblica» («Passapalavrla» 18.01.2011) tanto del governo italiano quanto dalla destra brasiliana.

Quindi, la situazione si complica proprio a causa dei conflitti interni ai poteri brasiliani, e anche la risoluzione del gennaio 2011 del Parlamento Europeo risulta favorevole all’estradizione. Il presidente del STF Cezar Peluso esprime una opinione opposta a quella di Lula, e nel 2015 Battisti riceve una sentenza di espulsione. Tuttavia, rimane in Brasile. Il 25 settembre 2017 il quotidiano «O Globo» diffonde la notizia che il governo italiano abbia chiesto al Brasile, ora guidato dall’esponente di destra Michel Temer, di rivedere le condizioni dello status di rifugiato. Si prepara quindi la trappola della cattura (Rocco Cotroneo, «Corriere della Sera», 07.10.2017).

Nel 5 ottobre 2017 a Corumba’, nel Mato Grosso do Sul, il giudice federale Odilon de Oliveira intima nei confronti di Battisti la custodia cautelare per scongiurare il suo tentativo di varcare il confine in direzione della Bolivia. Il ministro della giustizia Andrea Orlando afferma: «L’Italia è fortemente determinata a far sì che Battisti sconti la pena, e la sconti nel nostro paese. È questo un modo per restituire, almeno in parte, quanto è stato tolto al nostro paese e ai familiari delle vittime». Tutti gli esponenti politici ripetono lo stesso ritornello, e il Paese continua a chiedere l’estradizione e accetta la condizione di detracao penal per cui l’ergastolo deve essere tramutato in una pena di trent’anni. Viene però liberato dopo appena due giorni dal giudice José Marcos Lunardelli del Tribunale regionale federale della terza Regione, con sede a San Paulo, che accoglie da parte dei suoi avvocati la richiesta di habeas corpus e la contestazione delle prove dell’arresto riguardanti traffico di valuta e droga, dove il suo arresto ha  peraltro rappresentato un’illegale limitazione della libertà di movimento. Se è costretto a non lasciare San Paolo, la sua testa è attesa a Roma.

La vuole l’Italia per consolidare la propria definitiva normalizzazione in un quadro istituzionalmente coerente dotato di credibilità internazionale, rimediando così anche alle numerose mancate estradizioni di destra e sinistra ricevute negli anni in tutto il mondo. La vogliono in un Brasile dove è forte il conflitto politico tra sinistra e destra e la conquista del potere da parte di questa pretende di rivedere completamente il quadro definito dalle riforme inaugurate da Lula. E tutto non tanto per rispetto di qualche giustizia o dei poveri morti, ma piuttosto per qualcosa che si chiama diplomazia.

 

3. Processo 7 Aprile: la giustizia pop contro gli intellettuali

Un esponente dei movimenti di ieri quale Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio e Autonomia Operaia, peraltro niente affatto in linea con le posizioni di Battisti e piuttosto critico verso la solidarietà «da romanzieri» espressa nei suoi confronti, in un’intervista a Paolo Salvatore Orrù sottolineava la legittimità giuridica del no dell’allora presidente Lula alla estradizione di Battisti e l’inadeguatezza delle reazioni dei politici italiani, definendo «mondanizzazione del diritto» quel fenomeno per cui la legge si emancipa dalla verità storica per ridursi alla produzione di spettacoli inerenti la giustizia, a volte cruenti altre volte blandi.

Tale giustizia pop, bizzarra e imprevedibile, può essere osservata nei processi esclusivamente mediatici, nell’uso di testimonianze dubbie e parziali, nel pentitismo interessato e indiscriminato, nel pietismo manipolatorio verso le parti civili, e anche nelle perorazioni di una libertà tout court che prescindono dalla verifica di imputazioni, procedimenti e contesti, nonché in quella sorta di culto che coinvolge gli inquisiti per i fatti di sangue più efferati e/o banali, del quale si rendono complici proprio i media maggiormente diffusi. Per non parlare dei sexygate, indice del livello a cui sono scese tanto le pratiche del potere quanto la percezione della giustizia, incapaci di andare, per propria intima natura, al di là dello scandalo fine a se stesso.

Per qualche oscuro motivo fortemente inciso nell’animo umano, l’esercizio del pensiero critico può comportare, oltre a vistosi fraintendimenti, anche a reazioni di odio profondo e vere e proprie persecuzioni. E se Battisti ha sviluppato la sua scrittura anche per elaborare la propria vicenda e, secondo le sue parole, ha conosciuto un inasprimento della attenzioni giudiziarie proprio per via di questa attività, è opportuno fare ulteriori passi indietro e considerare le implicazioni del Processo 7 Aprile celebrato a Padova nel 1979, a cui egli fu comunque estraneo e che coinvolse invece Scalzone e molti altri. Una ricostruzione è compiuta da Wu Ming 1, che introduce anche un dettagliato studio di Luca Barbieri.

L’applicazione del cosiddetto Teorema Calogero, dal nome del giudice istruttore di Padova che aveva intimato gli arresti, portarono a considerare che gli intellettuali dei gruppi della sinistra extraparlamentare maggiormente impegnati nella teorizzazione rivoluzionaria avessero responsabilità diretta negli atti terroristici. L’impostazione complottista e manipolatoria dell’impianto accusatorio, che peraltro assimilava indebitamente tra loro tutte le diverse associazioni terroriste, fu già ai tempi criticata anche da personalità estranee alla sinistra e fortemente implicate nei servizi segreti quali Francesco Cossiga. Il problema reale è però che la modificazioni repressive del diritto e l’omologazione del consenso non è mai finita.

Sotto l’accusa di associazione sovversiva e insurrezione armata contro lo stato vengono rastrellati decine di esponenti di Autonomia Operaia e Potere Operaio. Sono coinvolti docenti universitari, intellettuali e scrittori. In modo emblematico, il filosofo Toni Negri, che in sostegno del movimento del Settantasette scrive Il dominio e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale (1978), nel quale approfondendo il concetto marxista sull’ideologia come «falsa coscienza» espone le tesi sul rifiuto del lavoro e del partito e sulla ricomposizione di classe. Negri viene accusato, tra le altre cose, di essere ideologo nonché telefonista delle BR, mandante morale del rapimento Moro, artefice di diciassette omicidi. Ovunque egli sia stato si ipotizza un crimine, ma non è solo. 140 persone finiscono in carcere. Il caso suscita l’interesse e le critiche di Amnesty International ed è uno dei motivi per cui nel 1982 il presidente francese Mitterand decide di permettere il diritto d’asilo ai coinvolti in processi politici: la Dottrina che prende da lui il nome, abrogata poi nel 2002.

Cerchiamo in comprendere in maniera ellittica la complessità della personalità e delle vicende di Negri. Comunista fortemente critico del partito, precedentemente vicino anche ad ambienti cattolici e socialisti. Arrestato nel 1979. Nel 1983 è eletto in Parlamento per i Radicali. Nel 1984, condannato a trenta anni di carcere, fugge con l’aiuto dello scrittore Nanni Balestrini in Francia, dove resta per quattordici anni. Prima gli vengono attribuite pene supplementari, poi quasi tutte le accuse cadono in quanto infondate. Al tempo dell’arresto, le accuse erano state ottenute per deduzione dal Teorema Calogero, sostenute da una campagna stampa rigidamente colpevolista, da un uso estremamente disinvolto della carcerazione preventiva, dal pentitismo indiscriminato in cui si avallavano dichiarazioni palesemente infondate, attraverso un processo in cui i capi d’accusa potevano essere sostituiti appena veniva a cadere la loro veridicità. Nel 1997 Negri torna in Italia e finisce di scontare la pena, continuando il suo lavoro intellettuale e la sua teorizzazione politica.

Impero: il nuovo ordine della globalizzazione (2002) e le sue altre più recenti opere, scritte con Micheal Hardt, perseguono una linea di pensiero di ispirazione marxista per cui l’attuale forma di potere imperiale determina dei circuiti di cooperazione produttiva che rappresentano il contesto per cui diventa possibile la realizzazione delle democrazia globale e la definitiva emancipazione delle moltitudini. Questo permette così la formulazione di una società libera basata sul bene comune: a favorire tale processo non sono soltanto le disposizioni pubbliche, ma anche le virtù private e i patrimoni delle singolarità, quali la solidarietà sociale, la responsabilità del lavoro, la gioia della ricerca. Un processo di immanentizzazione della sovranità e di emancipazione collettiva che nella sua formulazione deve molto al pensiero di Spinoza e all’idea che «vivere è sempre comune».

Tuttavia, ciò può venir vanificato in un dimensione nella quale la vita si risolve in pura esteriorità e le competenze culturali non significano più granché, che  è proprio quanto sembra prevalere nel generale impoverimento della vita sociale, politica e culturale tipico di quella che possiamo chiamare come «era della comunicazione». Mario Perniola (Contro la comunicazione, 2004) ne individua uno dei caratteri tipici nella capacità di dissolvere ogni contenuto e nel favorire così tanto una profonda svalutazione del sapere quanto una sostanziale impossibilità di agire. Persino la lotta armata e il terrorismo, con tutte le loro devastazioni, vittime, progetti ed equivoci, arrivano ad appartenere a tale contesto, nel quale ogni agire e ogni effettualità svaniscono nei loro simulacri. E se anche l’attentato più drammatico si riduce ad uno spettacolo che non ha nessuna capacità di turbare il potere a cui si oppone, arriva a conformarsi alla logica della spettacolarizzazione anche il caso mediatico basato sulle imputazioni attribuite a Battisti. La mondanizzazione del diritto si impone così su ogni giustizia.

 

4. Processo 7 Aprile: filosofi contro l’ingiustizia diffusa

Da quel 7 Aprile «l’equazione giudiziaria terrorismo = movimento» inizia ad avere un crescente e inarrestabile potere di ricatto su tutta la sinistra e sull’intera vita politica del paese, innescando «un processo di trasformazione delle istituzioni e dello Stato stesso (…) molto al di là della risposta agli atti terroristici». Ciò porta quindi alla possibilità che «tutto quanto è stato pensato ed elaborato di nuovo a partire dalla ‘crisi del politico’, e che costituisce un insieme corposo di esperienze e ricerche in corso, venga azzerato, o comunque reso secondario, inutile.» Tali espressioni non sono tratte da qualche opuscolo clandestino, ma da un editoriale di quella che tutt’oggi è una delle più autorevoli riviste italiane di filosofia: infatti, Aut Aut 175/176 (gennaio-aprile 1980) al riguardo presentava diversi interventi sulla questione, a firma Giovanna Procacci, Giorgio Grossi, Hans-Dieter Bahr.

Dello specifico politico si occupa Giovanna Procacci, che fino al 2011 ha insegnato Storia contemporanea presso l’Università di Modena e Reggio. Sulla scomparsa di una cultura d’opposizione afferma che l’accusa di terrorismo compiuta con il Teorema Calogero arrivava a coinvolgere personaggi e comportamenti che terroristi non erano affatto, determinando una «rottura culturale» che, partendo dall’identificazione di un reato, arriva a indicare comportamenti contigui esclusivamente per astrazione, e tuttavia estremamente utili come tramite tra ipotesi giudiziarie e oggetti non direttamente perseguibili.

L’inchiesta del 7 Aprile, che già procedeva tra lungaggini e abusi, intendeva criminalizzare attraverso determinati personaggi un’epoca storica e una tradizione culturale alla quale il Sessantotto faceva ancora pieno riferimento. Infatti, se nel modello rivoluzionario la trasformazione si legava ad un’idea di crisi capace di disvelare la verità nascosta del sistema, che doveva essere indicata dalla critica radicale, la società inizia in quel preciso momento a sottrarsi a questa ingiunzione, scomponendosi in innumerevole verità locali, ognuna irrilevante a definirne il senso fondamentale, impedendo così ogni comprensione generale.

Conseguentemente, la sinistra parlamentare tende a distaccarsi dalla propria funzione storica e contratta il proprio ruolo nella politica istituzionale secondo un preciso referente di legalità, ridefinendo così la rappresentanza politica e sociale. A sua volta, risulta sterile la difesa degli «spazi democratici» come reazione a quella che semplicisticamente viene chiamata «involuzione autoritaria»: infatti, la trasformazione in atto tende a incanalare la conflittualità in una società concepita quale soggetto astratto, che configura una «democrazia sociale» priva di opposizioni. Vengono completamente vanificate la possibilità di un atteggiamento critico verso la società e la presa effettiva  di questo rispetto ai meccanismi di trasformazione.

In definitiva, l’atteggiamento critico perde il terreno che gli aveva assegnato l’idea rivoluzionaria: l’«essere altro» del rivoluzionario rispetto al modello dominante diventa addirittura impensabile, e viene a costituirsi uno spazio di pura contrattazione attraverso aggregazioni sociali astratte che, proprio incrementando la loro capacità integrativa, spezzano le solidarietà naturali. Pratiche di socializzazione, scienze sociali, lavoro sociale, rendono il cosiddetto “sociale” l’unico elemento legittimo, in nome del quale tutti parlano e prendono decisioni. Il “sociale” si astrae rendendosi autonomo dalla politica, diventa somministrabile e assumibile in varie dosi. Una via di uscita potrebbe essere nel rompere i modelli unici di realtà, e ripensare la conflittualità e «l’insopportabile» al suo interno, mentre diventa impossibile «credere di avere ancora una presa sulle cose a partire da un’irriducibile estraneità antagonista».

Giorgio Grossi, ora docente di Teoria Sociale, Comunicazione e Media presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Milano-Bicocca, in Costruzione dell’eccezionale e politicizzazione dell’informazione di massa permette di comprendere le ragioni storiche e strutturali per cui siamo arrivati ad un’informazione come quella attuale, che, invece di informare, manipola e/o intrattiene. Infatti, sono diventate centrali nella pratica giornalistica le rotture del quotidiano, le trasgressioni, le eccezioni e gli imprevisti, fattori che risalgono a due ordini di motivi: uno storico, correlato allo sviluppo del giornalismo nelle società industriali, e l’altro ideologico-professionale, che concerne il modo di concepire la notizia secondo le finalità assegnate all’informazione di massa. Il giornalismo sviluppa quindi due modelli di informazione: uno di élite, come strumento di pressione e lotta politica, e uno popolare, destinato all’intrattenimento e al controllo sociale.

Dal primo, emerge un modello di informazione autorevole e pedagogico, che ha come riferimento privilegiato il potere politico, per cui la notizia è costruita in base alla sua rilevanza istituzionale e normativa; dal secondo, nasce un giornalismo definito dal rapporto con i destinatari e che misura la notizia rispetto al grado di interesse capace di suscitare. Se il primo modello è a volte supino ai rapporti di forza e a volte è propositivo secondo gli interessi dei gruppi di potere, il secondo privilegia il rapporto con il mercato rispetto a quello con le istituzioni: è quindi da questo che si sviluppa l’aspetto sensazionalistico. Tuttavia, la politicizzazione stimolata dal sociale determina nell’informazione una sovrarappresentazione della politica e nell’opinione pubblica un crescente qualunquismo; ciò porta alla confusione tra politicizzazione e ideologizzazione, a risolvere l’impegno politico con l’identificazione partitica, favorendo così pratiche di lottizzazione e distorsioni dell’informazione.

Senza procedere troppo in avanti nell’analisi, fermiamoci al 1979, anno del Processo 7 Aprile e anche del Caso Moro. Le due evenienze vengono affrontati dai mezzi d’informazione attraverso un meccanismo di costruzione di “fatti-rottura” strumentalizzato politicamente, analogo a quello perseguito da decenni nei casi di cronaca nera. I valori di riferimento sembrano effettivamente ridursi al dato che morti violente, mandanti misteriosi, piani diabolici, presunti colpevoli, bombe e sangue, retroscena ed intrighi, facciano notizia; quando assumono valenza politica, diventano casi da prima pagina, capaci di mobilitare sentimenti e suscitare schieramenti, seguendo alternative apparenti e sostanzialmente già decise, nelle quali il valore di una scelta non va al di là dell’adesione privata. All’epoca le critiche prevalenti a questi due casi, di natura garantista o di denuncia di subalternità agli equilibri politici, non si interrogavano sul perché gli eventi assumessero tale forma, limitandosi a chiedere il rispetto dei principi della legalità costituzionale in materia di libertà di opinione (Processo 7 Aprile), o a rivendicare il reale pluralismo delle posizioni, in favore del partito delle trattative (Caso Moro).

Tuttavia, tali prospettive sono incapaci di spiegare adeguatamente le pratiche giornalistiche, le cui logiche non sono diverse da quelle dello spettacolo, e non permette di delineare alternative concrete. Occorre piuttosto interrogarsi su cause sostanziali, affrontando la complessità dei rapporti in gioco nell’informazione. Possiamo quindi ancora farci alcune domande, per quanto senza aspettarci alcuna risposta. L’effetto polverone e la spettacolarizzazione del Caso Moro potevano essere evitate? Il Processo 7 Aprile poteva essere oggetto di un’inchiesta critica, senza cadere nella diffamazione implicita? È possibile invertire tale tendenza, ormai strutturale nel giornalismo tanto conservatore quanto progressista?

Hans-Dieter Bahr, filosofo e docente universitario a Berlino, Brema e Vienna, attualmente in ritiro a Tubinga, offre un intervento piuttosto articolato e ancora di grande attualità con La macchina che attraversa il corpo. Note sul terrorismo. Il pensiero di Bahr tenta di superare il nichilismo considerando il «nulla» quale «apertura» in grado di comprendere la finitezza dell’essere. Ciò comporta una revisione decisiva del concetto di spazio, che in un processo di complessiva urbanizzazione del paesaggio diventa «la forma plastica di un corpo multiplo». Analizza quindi i contesti storici e culturali dello stato moderno, visto come «storia del disgregarsi del vecchio corpo monarchico», il quale con la divisione dei poteri perde di organicità a favore della sua spettacolarizzazione.

Laddove si smarrisce anche la simmetria tra potere sociale e riflesso teorico si determina così uno «specchio rotto» per cui viene a mancare il terreno di comprensione della politica, e si apre quindi uno «spazio vuoto»: insomma, nell’impossibilità del potere di controllare la politicità dell’autore, si pretende di criminalizzare egli stesso. Le teorie politiche sono pertanto considerate come espressione immediata della violenza sociale di cui parlano.

Il  Processo 7 Aprile produce quindi una particolare forma di censura che, rispetto a quella preventiva e statale di tipo classico e a quella codificata socialmente di tipo moderno, prescinde dalla «catena di distribuzione» nella quale il pensiero è concretamente inserito, comporta così la persecuzione esclusiva degli autori. Laddove le informazioni sono sempre filtrate, questo specifico aspetto censorio può anche leggersi come particolare forma di autocensura del potere, per cui l’autore criminalizzato fornisce il proprio nome al «corpo anonimo» dei terroristi e la teoria incriminata assume il valore di un «corpo terroristico». Il discorso sul terrorismo perde quindi ogni certezza, riducendosi a supposizione e sospetto. Non sussistendo più una «verità univoca» alla quale possa riferirsi la procedura giudiziaria, questa si muove per «verosimiglianze», determinando che ogni ipotesi indiziaria possa valere grossomodo allo stesso modo di un proiettile.

Lo specchio che permetterebbe la comprensione è però infranto anche internamente al discorso sul terrorismo. Infatti, se si è persa un’immagine chiara di questo quale azione particolare determinata da condizioni precise, e laddove non si distingue ciò dal terrorismo quale azione sociale complessa resa possibile dalla tecnologia, si smarrisce anche la capacità di valutare le teorie effettivamente approssimabili al terrorismo. Tale disorientamento deriva anche dall’ostinazione nel cercare le cause esclusivamente all’interno dei rapporti sociali: perciò, risulta più proficuo astenersi dal cercare di individuare le ragioni psicologiche e sociali dei terroristi, e cercare piuttosto di descrivere il «dispositivo terrorismo», le strutture sociali del terrore e del controterrore dalle quali le azioni prendono forma.

La riflessione di Bahr è complessa, sorprendente ed efficace. Invertendo le categorizzazioni tipiche del senso comune, sono considerate le forme del «terrore statale», che comportano la privazione dei diritti borghesi, i grandi spettacoli pubblici della punizione dei delinquenti, l’abolizione di ogni giustizia compensativa. Rientrano invece in una «tradizione controterroristica» gruppi come BR e RAF, la cui azione mirava ad instaurare una nuova sovranità nazionale con riferimenti propriamente borghesi e ascrivibili alla Rivoluzione francese. Ambedue le forme terroristiche agiscono in un contesto in cui il corpo si configura come lo «spazio proiettivo e spettacolare, lo straordinario in mezzo al quotidiano».

Tale contesto si realizza laddove le «frontiere naturali», che sono spazi di passaggio, vanno a costituire i limiti variabili di un corpo sociale e trasformano il «paesaggio» in «paese». Le forme tipiche di questo sono parti di un corpo, multiplo e plastico, che occorre difendere. Il potere costituisce la macchina delle potenzialità dello stato, quindi il corpo del paese, e infine lo delimita con la possibilità di produrre terrore. Il corpo si concentra in un campo di forze tecnomeccaniche che acquista nuove dimensione geografiche e profondità capaci di andare oltre la superficie.

In questo spazio il terrorismo, tanto nelle forme statali quanto in quelle popolari, rinuncia ad ogni equivalenza di forze con gli avversari, attraversa i corpi con torture e devastazioni, e nelle sue forme latenti va a costituire la vera «frontiera» dello stato moderno, prodotto attraverso la tecnologizzazione dei meccanismi del potere sociale. Lo spazio del potere cambia e si delocalizza, il terrorista perde ogni riferimento univoco. Anche la guerra annulla i fronti, il suo campo diventa «uno spazio energetico senza luogo», mentre la tecnologia bellica assume quella decisione sulla vita e sulla morte che spettava alla sovranità statale arcaica.

È quindi la bomba atomica a vincere su ogni spazio e a segnare «la fine della sovranità statale di una nazione». Nelle centrali nucleari, la materialità si riduce ad hardware, la cui sicurezza è solo probabile e non può prescindere dalla sicurezza assoluta della struttura matematica dei software: sostanzialmente, soltanto l’informazione può garantire uno spazio di sicurezza. In tale spazio però tutte le materialità si trasformano in informazioni, la cui possibilità di esplodere da un momento all’altro costituisce il loro carattere esemplare di evento.

Le conclusioni a cui giunge Bahr contemplano quanto il «bisogno sociale del terrore», la sua attesa, la sua anticipazione, sostanzialmente il suo valore di verosimiglianza, siano in grado di produrre «lo spazio della protezione pretesa», e sono estremamente prossime alla condizione poi determinatasi a livello planetario con le guerre globali.

Possiamo riflettere sul fatto che probabilmente testi come quelli appena citati sfuggono ad ogni ipotesi di censura e persecuzione in quanto pubblicazioni rigorosamente scientifiche; occorre però anche considerare che la destituzione politica della filosofia e del sapere segue un programma antico, già dai tempi di Platone a Siracusa piuttosto avanzato, che con il Processo 7 Aprile riceve semplicemente un particolare impulso.

 

5. Raffaele Speranzon: i delitti dei bibliotecari

Per comprendere quanto l’attitudine persecutoria della politica nei confronti del lavoro intellettuale possa a volte prendere connotati, piuttosto che pop, marcatamente trash, occorre tornare al gennaio 2011, quando l’allora assessore alla cultura della provincia di Venezia Raffaele Speranzon (classe 1971, imprenditore nell’ambito della formazione professionale), riprendendo un’idea del consigliere di Martellago Paride Costa, e dell’altro collega di partito (PdL) Roberto Bovo, aveva invitato i 44 comuni del veneziano ad eliminare dagli scaffali delle biblioteche pubbliche le opere di quegli autori che nel 2004 avevano partecipato all’appello di Carmillaonline per la scarcerazione dalle prigioni francesi di Battisti.

L’assessore veneziano aveva anche proposto di escludere gli stessi dalle iniziative pubbliche quali «persone sgradite», argomentando che i soldi pubblici devono essere spesi «senza premiare chi firma appelli pro assassini». Coerentemente, Speranzon sul suo MySpace affermava di «amare la vita alla follia», ricordando che «un uomo d’ingegno» non si rammarica di condividere il molto che possiede; a garanzie delle proprie competenze culturali, in una pagina del sito del comune di Venezia risalente a quando era consigliere, troviamo tra i suoi autori preferiti tale “Sprengler”: ora, chiunque abbia letto anche soltanto il nome dell’autore de Il Tramonto dell’Occidente, sa che c’è una “r” di troppo, ma si sa che il molto e la follia possono pure permettersi sviste.

L’iniziativa era suscettibile di estendersi a tutto il Veneto e avrebbero dovuto assumersene le responsabilità della sua applicazione i singoli bibliotecari, estendo anche a questi il reato di complicità ideologica, introducendo così nuove figure professionali da coinvolgere in un rinnovato reato di opinione, in modo da trovare con modi spicci e capziosi nuove applicazioni di una scienza consolidata da secoli.

La proposta aveva ricevuto il plauso del segretario generale del sindacato di polizia COISP Franco Maccari, del presidente della Regione Luca Zaia (Lega) e ampio ed argomentato sostegno dall’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzon (PdL), ex missina come il suo collega Speranzon, e che in una lettera ai presidi chiede il «boicottaggio civile» degli intellettuali che «vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti».

Se la Donazzon, fervente cattolica tutta intenta a regalare Bibbie ai bambini delle elementari, e altri colleghi leghisti, fanno sparire dagli scaffali delle biblioteche del veneto libri che con Battisti non hanno molto a che fare come quelli di Roberto Saviano, la presidente della Provincia Francesca Zaccariotto (Lega) prende le distanze dalla provocazione di Speranzon privandola del sostegno istituzionale, e anche il vicepresidente dell’Associazione Italiana Biblioteche Claudio Leombroni si esprime in modo nettamente contrario.

L’indice degli “autori proibiti” risultava così vasto ed eterogeneo da privare gli scaffali delle biblioteche pubbliche di numerosi testi di autori italiani contemporanei, comprendendo, tra gli altri: Giorgio Agamben, Nanni Balestrini, Carla Benedetti, Massimo Carlotto, Vittorio Catani, Valerio Evangelisti, Laura Grimaldi, Bernard-Henri Levy, Loredana Lipperini, Gianfranco Manfredi, Luca Masali, Daniel Pennac, Marco Philopat, Tiziano Scarpa, Stefano Tassinari, Vauro, Lello Voce, Wu Ming.

Una proposta come quella di Speranzon, che comunque non rappresenta un caso isolato ma è sintomatica di un clima piuttosto diffuso, si risolve in realtà in una semplice sparata, enorme quanto impraticabile. Rispetto alle tradizionali forme di censura, proscrive esclusivamente l’oggetto libro, isolandolo rispetto a quella definita da Bahr quale catena di distribuzione del pensiero che, piuttosto vasta e articolata, comprende anche quanti materialmente se ne occupano. Inoltre, si concentra nel negare alle biblioteche proprio quel carattere di patrimonio di conoscenze comuni e di condivisione dell’ingegno al quale si appellava appassionatamente lo stesso Speranzon.

Tuttavia, anche soltanto l’idea di rimuovere un unico libro di un solo autore da una qualsiasi biblioteca pubblica comporta che la libertà del paese intero venga minacciata. Pure nel caso estremo in cui volessimo ammettere che molti libri siano davvero inutili e anche dannosi, e  di certo alcuni lo sono, seppur per altri motivi da quelli suggeriti dalle censure, andrebbe comunque lasciata ad ognuno l’opportunità di formulare un’opinione con il proprio intelletto, anche se probabilmente ciò a molti nemmeno interessa.

L’ipotesi di censura di marca fascista e inquisitoria proposta dal fiero anticomunista Speranzon, che per quanto sproporzionata e inattuabile è comunque pericolosa e degna di biasimo e rispetto alla quale sarebbero stati necessari adeguati provvedimenti disciplinari, in realtà risulta piuttosto datata rispetto alle pratiche contemporanee. Infatti, è indubbiamente più semplice permettere che l’informazione venga vanificata da troppe informazioni, ormai condizionate quasi integralmente, come suggeriva già Grossi, da sensazionalismo, lobbismo e criteri populistici di consenso e consumo.

 

6. Lello Voce: legge e poesia

Le prassi  del sensazionalismo e del populismo e il peso delle lobby è ormai diffuso anche alla fazioni che si dicono di sinistra, le quali spesso sembrano distinguersi perlopiù per una maggiore ipocrisia. E anche laddove non si arrivi a questo e pur mantenendo le migliori intenzioni, l’argomentare di molti può risolversi in una sorta di “ipocritica”, un interventismo culturale dall’elaborazione piuttosto scarsa, inutile alla comprensione degli eventi e che in qualche modo si autoconfina a semplice corollario delle opinioni comuni.

Purtroppo, anche il giornalismo d’inchiesta apparentemente più contestatario e rischioso può ridursi ad una rassegna di ovvietà, come lo sono, nonostante i meriti, molte delle posizioni espresse da Travaglio e Saviano, nonché le rilevazioni confidenzievoli di Wikileaks e gli sproloqui prevalenti su Indymedia. Ciò può verificarsi dove si trascura che i cosiddetti “fatti” non spiegano nemmeno se stessi, che i “regni del male” sono quantomeno semplificazioni, che la diplomazia ci fornisce la semplice misura di quanto “dobbiamo” sapere, che a far taglia e cuci e a dire parolacce son buoni tutti.

A tale casistica non esplicativa appartiene anche la distinzione tra giustizia e legge operata nell’analisi dell’ipotesi censoria di Speranzon compiuta da Lello Voce, uno degli autori che ne sarebbe rimasto coinvolto (Censura alla veneta, «Alfabeta2» n. 7, marzo 2001). Infatti, pur riconoscendo la legge quale convenzione, Voce sembra trascurare altre implicazioni, rintracciabili in contributi ampiamente storicizzati, dei quali almeno due sono piuttosto decisivi. Infatti, la Critica della violenza (1921) di Walter Benjamin, pur riconoscendo alla giustizia il valore di fine, non prescinde dal considerare il ruolo fondativo che per la sua affermazione assume la violenza dei mezzi riconosciuti quali legge. Invece, la Logica della persuasione di Chaim Perelman (con Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, 1958) intende evitare accuratamente un’assolutizzazione della giustizia, riconoscendola quindi come definibile solo in riferimento ad altri ordini di valori.

Conseguentemente, ipostatizzare che una giustizia esista davvero e di per sé significa ridurla ad una mera tautologia, lasciandola sostanzialmente all’arbitrio di chi la afferma, solennizzando inevitabilmente la forza che determina il diritto. L’operazione di Voce, se da una parte è debitrice di certo radicalismo di maniera, dall’altra è potenzialmente fascistoide, e laddove venisse assunta come premessa renderebbe impraticabile adeguato approfondimento. L’evenienza è inaspettata da parte di chi ha preso forti posizioni di denuncia rispetto alle violenze contro i manifestanti effettuate dalle forze dell’ordine alla Diaz di Genova durante il G8 2001.

Inoltre, Voce dichiara che un atto di censura, se da una parte provoca la «squalifica» degli autori, dall’altra determina un aumento delle vendite della merce-libro, portando quindi ad incrementare i suoi profitti proprio «quello che una volta avremmo chiamato il Capitale». Le questioni sottese a tale argomento sono piuttosto controverse e decisive: va ricordato che, per la sua sintonia con le forme della diffusione culturale contemporanea, Voce, pur riconoscendosi nella tutela del copyleft, rivendica un ruolo prioritario nella diffusione italiana dello Slam Poetry. Tuttavia, nell’occuparsi di tali questioni, sembra non fare cenno al ruolo della cultura e dell’industria culturale nelle determinazioni di quanto oggi chiamiamo capitalismo finanziario. Così, se da una parte le sue rivendicazioni sono del tutto comprensibili, viste le boiate prevalenti nelle competizioni di poesia, dall’altra non può nemmeno essere tralasciata la tematizzazione rigorosa degli argomenti che vi sono sottesi, laddove davvero si voglia fare qualcosa che non sia solo intrattenimento.

Per portare la discussione su un piano che permetta di comprenderne le istanze effettive, prendiamo in considerazione i concetti marxiani di struttura e sovrastruttura, che indicano rispettivamente i rapporti materiali e produttivi e l’impianto economico di una società, e l’insieme delle realtà culturali e istituzionali storicamente determinate al di sopra della società stessa. Se questi, com’è espresso da Marx in Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), avevano già nell’ottocento relazioni niente affatto rigide, nelle società a capitalismo avanzato hanno profondamente modificato le loro funzioni. Ciò è evidente tanto nella considerazione di Adorno che, pur riconoscendone ruolo ed influenza, fornisce una lettura piuttosto critica dell’industria culturale, quanto nella lettura più ottimista di Benjamin, che insiste sui potenziali liberatori di un’arte riportata al livello di merce.

Il punto problematico è però che Voce, proprio glorificando forme di oralità piuttosto spettacolari rispetto al lavoro rigoroso della scrittura, per quanto intenda contrapporsi alle logiche dominanti, si pone involontariamente quale loro corollario. Infatti, come possiamo vedere anche riguardo vari Slam sempre più diffusi e grossolani, privilegiare «comunità» di spettatori passivi e distratti, forme di critica presuntivamente «vive e dinamiche», limitandosi spesso ad esaltare le volgarità di una pretesa immediatezza che fa leva su competitività e banalizzazioni, può comportare cadute in un populismo estetico capace di appiattire la cultura esattamente quanto lo fa l’editoria mainstream, rendendo quasi insensate le pratiche del leggere e dello scrivere, e vanificando la sostanziale irriducibilità del “dire” poetico.

Insomma, sembrano ancora largamente assenti le prospettive per cui possa darsi una dimensione politica e culturale “comune” capace di sottrarsi alle insensatezze della comunicazione. Non è dato sapere se siamo in una sorta di riflusso del riflusso, oppure se il cosiddetto riflusso non si sia mai fermato. Insensatezze, conformismi e false libertà coinvolgono ormai anche ampi settori della cosiddetta sinistra, istituzionale e non, rendendo inoltre irreale la nozione stessa di movimento.

Una diffusione dei saperi non autoreferenziale e una critica dell’informazione in grado di sfuggire alla loro dispersione potrebbero tentare il compito impossibile eppure necessario di comunicare l’incomunicabile nelle forme e nei contesti in cui ciò possa assumere un senso effettivo, in moda da fornire strumenti in grado di determinare una realtà non coinvolta dalla derive di poteri che, senza peraltro riuscire ad ottenere nessun tipo di risultati, sfuggono ad ogni legittimo controllo e ad ogni minima decenza.

Forse un giorno, quando l’emergenza sarà finita, tutta questa matassa di questioni si districheranno. E mentre il Paese perde progressivamente importanza agli occhi del mondo e il mondo sfugge anche a se stesso, rimaniamo imbambolati a contemplare accadimenti sciolti dalla continuità degli eventi e da ogni spiegazione razionale, incapaci di azione e intendimento. E qui finisce questa storia.

Fotografia: “Cesare Battisti in noir” – 7 ottobre 2017.

 

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