La luce, il paesaggio e il confine in Francesco Biamonti

«Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante». Così Francesco Biamonti si presenta in un’intervista di Paola Mallone: discreto e appartato, a lungo tempo impegnato come bibliotecario, lo scrittore lavorava senza orari e ritmi di lavoro prestabiliti nell’entroterra ligure di Vallecrosia, in una casa-laboratorio adattata da un fienile. Le finestre si aprivano sulla campagna dove Biamonti avrebbe, secondo una leggenda letteraria, coltivato piante di mimose: tuttavia, quello dello scrittore-contadino risulta uno stereotipo inadeguato. Infatti, se liquida le mimose affermando «Il loro giallo è fatuo, ignaro delle tenebre del mistero, la cifra dei fiori europei», non disdegnava affatto il richiami delle notti cittadine e le frequentazione dei locali della Riviera, dove raccoglieva storie di varia umanità, ricucite nei suoi romanzi attraverso impasti di luci e colori che rivelano uno spiccato gusto pittorico, rafforzato dalla frequentazione di artisti quali Ennio Morlotti. L’attenzione per il paesaggio contribuisce a formulare l’idea di confine che emerge anche in un’intervista di Fulvio Panzeri: «Il confine non è tra Italia e Francia: coinvolge tutto il Mediterraneo. Ci sono tre grandi personaggi nel Mediterraneo: il Golfo di Genova (Montale), il Golfo di Marsiglia (Valéry), e il Golfo di Orano (Camus), che hanno creato una civiltà letteraria legata alle cose, in cui le cose parlano al posto dell’uomo. I loro paesi diventano aspri e emblematici di una civiltà umana legata a una sorta di corrosione dell’esistenza, quella che provoca il salino. È una civiltà data dalla luce e dal sapere, dalla lucidità e dalla corrosione.»

 

1. «Dove ombra è il contrario di vita»

Francesco Biamonti (San Biagio della Cima, 3 marzo 1928 -17 ottobre 2001) pubblica nell’arco di venti anni quattro romanzi, ricordati di seguito per l’esclusivo piacere di vederli ancora, nero su bianco, apparire insieme: L’Angelo di Avrigue, Attesa sul mare, Vento largo, Le parole la notte, ai quali segue l’ultimo, incompiuto e pubblicato postumo, Il silenzio. Lascia orfana una schiera di lettori non così esigua e di critici che, come pesci argentati attorno ad un prezioso scafo sommerso, tornano e ritornano ad esplorare parole, concetti, interpretare immagini mai sazi, mai stanchi di leggere e decrittare testi che sembrano nati apposta per questo. Lo scrittore ha esordito come romanziere ad oltre cinquant’anni di età e non lo ha fatto attraverso fiumi di parole, ma presentando lavori che appaiono come sono per lenta limatura e affinamento: contenendo il più possibile l’anima di un uomo mai disgiunta dall’animo di un paesaggio.

Così, oltre una apparente ricchezza interpretativa dei motivi della sua scrittura e del suo stile, risulta invece difficile attribuire qualunque interpretazione poiché efficacia ed esattezza lessicale del testo non si lasciano facilmente stravolgere. Ciò che Biamonti non ha ‘riversato’ sulla pagina (l’idea, pur se esprime un ‘di getto’ che nell’opera biamontiana forse non esiste, è quella di una scrittura in movimento), lo ha scolpito attraverso un lavorio fine, per sottrazione: eppure, il testo non manca di vero, di sentimento e di immediatezza tali da colpire la fantasia e le corde più nascoste del lettore, fosse anche quello più avulso a farsi coinvolgere. Con L’Angelo di Avrigue si entra per la prima volta con Gregorio – uno degli alter ego dell’autore – e attraverso una porta di pietra, in un mondo probabilmente, fino ad allora, dischiuso a pochi; un mondo meditato, sfuggito con tutta la propria forza, e poi ritrovato.

Entroterra ligure, lo chiamano, lo chiamerebbero, i costieri: «Verso le undici Gregorio andò ad Avrigue. Il pomeriggio lo avrebbe passato al bar dell’olandese dove di solito lo aspettava Jean-Pierre. Era un bel posto su uno sperone quasi sempre dorato e ventoso. Per scendere sulla piazza prese un carruggio a svolte in cui il vento non entrava d’infilata. Si ricordava che portava a una piazzola detta la ‘porta della madonna’ (una statua era murata sotto il cornicione della chiesetta) e dalla piazzola si scendeva per una scalinata alla piazza grande. Il carruggio era ormai disabitato: porte sbarrate, porte aperte sul vuoto, finestre semi divelte… nulla di male: nidi di miseria spariti! Nidi di silenzio, ora, e di topi. Avrigue era decisamente in decadenza: vi regnava la fame di sempre che ora pareva insormontabile, e i giovani se ne andavano».

Per questo ingresso ‘trionfale’, entriamo in un paesaggio vero, ma non naturale, e per molti lettori già è in atto l’incantesimo: «Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla ‘buona morte’. San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed unire all’idea di questa fatica, da sola insostenibile. E morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile. Chi nel passato aveva creduto in una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori del possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto. La vita era stata uniforme».

La critica all’opera biamontiana ha assunto ben presto i contorni di una scienza esatta, ma l’autore di romanzi pareva avesse appena cominciato a dire ciò che voleva. I temi toccati dal nostro saranno, nei quattro romanzi: la vita di confine in un territorio espropriato di gente, e quindi di vita, dalla speculazione edilizia o dai guadagni facili, se non dai traffici loschi, installatisi sulla costa (San Remo ‘territorio evitato’ come già per Calvino, prefatore della prima edizione einaudiana de L’Angelo). E ancora: la vita dei passeurs, uomini di confine che osservano una frontiera attraversata da umanità urgente; il racconto del paesaggio che esiste e muore continuamente, ad ogni cambio di luce che accarezza uomini e pietre, donne e alberi, rocce e mare.

Meditazioni esistenziali nel quinto e ultimo lavoro, mai finito, che appare però in una propria forma composita. Lo scrittore ‘esclude al guardo’ ciò che ha escluso dal cuore e dalla mente, costruendo una geografia privata che muove tra Apricale, San Biagio della Cima, la luce dal mare balugina sulle colline, fino al confine con la Francia, la vicina Provenza. Biamonti e i suoi doppi, Varì, Leo, Gregorio, Edoardo, non sono però uomini di mare, tanto che ad una raffinata precisione del lessico delle cose terrestri si contrappone un esprimersi svagato e fuori misura nella descrizione di ciò che accade nei brevi passaggi per mare, come appare evidente dalla preziosa rilettura di Giorgio Bertone nel Il confine del paesaggio. Lettura di Francesco Biamonti (Interlinea 2006).

Lo stesso scrittore indosserà, per buona parte della sua vita, improbabili berretti da marinaio, considerati tali in quanto travestono la sua stanzialità di un’apparenza da globe trotter che non apparteneva alla sua vita di ‘adulto’. Descriverà con meticolosità la vita di confine, per poi improvvisamente travalicarlo facendone sentire il senso di frontiera; ora come passeurs, ora come marinaio in missione pericolosa, riesce a raccontare un miracolo continuo che sfugge all’immediato di una prima lettura, durante la quale, di solito, si resta solo abbacinati dall’azzurro (mare, cielo) «delirio (che) sale agli astri ormai» (Montale), senza riuscire a cogliere fino in fondo tutto quel che accade tra le pagine. Biamonti costruisce il suo universo reificando gli elementi naturali e i sentimenti, conferendo poesia agli oggetti.

 

2. Un confine per esistere

I temi della globalizzazione hanno toccato ogni sponda; accompagnati a un incessante migrare, che però non è detto ne sia tanto la conseguenza diretta, quanto soltanto una delle molte possibili. La nuova barbarie che sembra percorrere la Penisola, il razzismo, l’involuzione culturale, il non rispetto dei valori di convivenza civile, paiono passare per un nodo, dolentissimo – che lo scrittore potrebbe, pur continuando a produrlo, aver in parte sciolto.

Seppure con cautela, tutto ciò torna nei discorsi dei protagonisti: quegli stessi valori che sembrano persi da poco, bruciati, si mostrano nella loro realtà di valori traditi da tempo, smarriti i quali non sarà più possibile tornare indietro. Tuttavia, voltando la testa dietro, con sorpresa scopriamo che non resta molto da rimpiangere: i suoi personaggi, uomini e donne, originari del luogo o arrivati da ogni dove, vivono un presente incerto, ma inevitabilmente presente. Eppure, gli abitanti di questo territorio, tra se stessi e nella loro relazione con il paesaggio, sembravano avere un patto: un patto, tradito prima per fini di lucro, che tuttavia restava ancora patto, finché non fossero subentrati e-stranei.

A tal punto il paesaggio, lo sfondo, diventa terra di nessuno, con ritirata strategica nel proprio: il proprio uliveto, il proprio campo. Lungi dall’autore intessere discorsi che, anche soltanto per errore, sono percorsi da un filo razzista: piuttosto si ravvisa, nel suo incessante osservare l’umore meteorologico del tempo o le gore e le tracce del paesaggio, l’intento continuo di intessere una rete di riferimenti uomo/terra, non dissimile da quella degli Indiani d’America, o da quella dei nativi Australiani descritta ne Le vie dei canti di Bruce Chatwin. Rete di riferimenti che, senza aspirare a epicità oppure scendere in rappresentazioni folcloriche, costruisce con fatica e materia, così come i muretti a secco che trasformano il paesaggio naturale ligure in paesaggio plasmato dall’uomo: uno scenario mentale nel quale ogni sasso, ogni albero, ogni cespuglio, porta l’impronta dell’uomo che tiene il confine. E lo tiene perché lo vede, lo guarda da una vita intera: «La terra deve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste» (Chatwin).

È un confine che, pur esistendo oggettivamente, acquista importanza nello sguardo che costantemente lo sorveglia. Così, chiunque altro sopraggiunga a vedere, a guardare per lungo tempo questo sfondo, diviene egli stesso, ella stessa, un cittadino, un locale: qualcuno che partecipa alla storia nel momento in cui questa si compie. Tanto più se, come si intuisce dal largo intreccio drammatico improntato dall’autore, chi salirà a guardare questo mondo che muore e rinasce ogni momento, è qualcuno che non ha tempo da perdere; perché fugge da qualcosa, ha voltato la faccia al mondo, o cerca un angolo che non sia quello fin là conosciuto.

«E una sera alta, di grandi dorsali di carminio, si formava sopra il mare».

«Il pulviscolo luminoso si staccava dai pini nei bagliori della rada».

«La sera sfiorava i tetti, entrava nei vicoli, girava nel cielo e rovesciava sugli ulivi una luce arcaica».

«Fra stelle e ulivi e agglomerati di vecchie case c’erano molti accordi di fremiti minerali».

«Un ramo nudo se ne andava per traverso inciso dalle stelle»

Seppur parlando e leggendo di Francesco Biamonti se ne possa ricavare il ritratto di un uomo schivo, alle prese per molti anni con la parola e con il libro, dal viso scavato quanto le cortecce di olivo secolare (talvolta gli pesa la leggenda inventata da Einaudi che egli stesso fosse un coltivatore di mimose), lo scrittore ha effettivamente costruito giardini di parole: alberi e arbusti dell’eterno ricco giardino che è la Liguria di terra e di luce. Giardini di meditazione, nei quali la parola dialogica è in realtà monologo, dove l’incomunicabilità può non tramutarsi in solitudine laddove, attraverso sguardi non per forza amici ma anche soltanto attigui, passa un fondale: un paesaggio che è risultato di storia e ricerca condivisa, benché pochi ne sappiano, ormai, leggere i segni. Anzi, forse solo il paesaggio è storia e merita un canto. O forse no.

«Adesso c’era silenzio. Ma che sere! Che melodie! Grumo di tenerezza: pastore, cane e capre, avvolti dal vento che saliva dal mare. Mano del pastore sulla testa del cane, e muso del cane sulle ginocchia del pastore. Suonava per lui e per il suo cane, tra l’indifferenza delle capre. Adesso c’era silenzio e nulla su cui sperare.»

Fotografia: Claudio Comandini, “Mare in attesa” – Porto di Civitavecchia, agosto 2008.

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