Il codice del mondo

Grazie alla sua vasta conoscenza della filosofia, Umberto Eco (Alessandria 1932 – Milano 2016) approfondì l’antica disciplina della semiotica con l’intento di comprendere i “segni” dell’epoca in cui viveva, e di «vedere del senso laddove saremmo tentati di vedere solamente dei fatti». Il professore piemontese è stato probabilmente l’ultimo grande esponente in Italia di quel sapere umanistico oggi fortemente attaccato da un capitalismo ormai più basato sullo sciupo che sull’accumulo, e sempre più teso a creare consenso escludendo concezioni critiche o realmente innovative. Immensa erudizione e visione personale permettevano a Eco di essere al contempo profondo e leggero, sottraendosi alle pretese di sostituire il “vecchio” col “nuovo” e così gettare via l’esperienza e la saggezza che ci hanno preceduto: quella che ha saputo valorizzare anche in celebratissimi romanzi. Estimatore degli usi creativi degli strumenti del comunicare, la sua lezione permette di arginarne il rischio che questi possano distruggere lo stesso presente in nome di un’attualità immobile e senza scampo, per la quale è un problema irrisolvibile proprio quello dei rifiuti e degli scarti. Tuttavia, un pensiero in ascolto del mondo conosce anche quanto, per buffa consonanza, possiamo chiamare come “eco-logia”: e quindi il muoversi con la capacità di rinvenire idee che sono sempre risorse vive, recuperando all’uso anche letture desuete e rottami teoretici, spesso disinvoltamente affiancate all’analisi dei linguaggi delle culture pop. Ogni messaggio possibile si pone così all’interno di strutture e codici che permettono di approfondire il problema della comunicazione, favorendo la costante critica delle opinioni e la partecipazione attiva del fruitore: concezione autenticamente “laica” e molto lontana dai dogmi di una “comunicazione” ridotta a demagogico immondezzaio apparentemente inquestionabile. Ancora oggi, mantiene valore esemplare per il lavoro di Eco il testo che segue, presentato per la prima volta nel 1987 ad un congresso di musicologia, nel quale, cercando di delineare una semiotica della musica attenta alla concretezza dei «produttori e ricettori di suoni», si racconta come il modello dei segni musicali sia stato a lungo utilizzato come discorso in grado di rappresentare altri linguaggi e quindi la struttura e gli accadimenti possibili dei più diversi aspetti del mondo.

 

Trasmissione e ricezione sono certamente due concetti che hanno a che fare con il problema della comunicazione. Qualcuno intenzionalmente produce un messaggio, ovvero una sequenza di elementi percepibili, nell’intento che qualcun altro li interpreti sulla base di un sistema di regole comune. Per convenzione chiamerò questo sistema di regole “codice”, e vi prego di accettare questo termine, ambiguo e polivalente, nel senso elementare di struttura – descritta, definita e riconosciuta in quanto tale – indipendentemente dal fatto che possa essere intesa come sistema di significazione sulla base del quale produrre dei processi di comunicazione.

È indubbio che, aldilà dei vari sistemi tonali, esista nella musica un codice che regola i rapporti dei suoni tra loro, visto che questi rapporti sono esprimibili in termini di metalinguaggio matematico. Però si può interpretare come se fosse un messaggio anche una sequenza di elementi che nessuno ha prodotto intenzionalmente per comunicare (e che dunque nessuno ha trasmesso). Sin dall’antichità il mondo occidentale ha usato il termine “segno” anche e anzitutto per i sintomi, e cioè per eventi naturali che nessuno aveva intenzionalmente prodotto: per gli eventi atmosferici, per l’aspetto del viso, per il volo degli uccelli o per la disposizione delle viscere degli animali.

Questa nozione di segno è alla base di una storica definizione dovuta a Charles Morris (1938), per cui «qualcosa è segno solo perché è interpretato come segno di qualcosa da un interprete… Pertanto la semiotica non ha a che fare con lo studio di un particolare tipo di oggetti, ma con gli oggetti comuni nella misura in cui (e solo nella misura in cui) partecipano della seriosi». Anche se una sequenza musicale non intendesse comunicare alcunché, essa sarebbe tuttavia interpretabile. La condizione minima di una interpretazione è che si possa sostituire un segno con altri segni (sia che essi appartengano allo stesso o a un altro sistema semiotico) i quali – sotto un certo punto di vista – possano essere giudicati equivalenti. E qualsiasi sequenza di suoni può essere ripetuta in un’altra tonalità, con altro ritmo, in timbro diverso oppure può essere trascritta graficamente. Pertanto la semiotica ha il diritto di occuparsi della musica in quanto non è interessata ai soli rapporti o processi di comunicazione e tanto meno alla sola comunicazione intenzionale. Essa è interessata alla semiosi, e cioè a tutti i casi in cui qualcosa diventi l’oggetto di una interpretazione – ogni volta cioè che qualcuno (un essere umano, un animale o una macchina) tratti qualcosa come se stesse al posto di qualche cosa d’altro (aliquid stat pro aliquo).

Si noti che, al limite, il processo di interpretazione può essere inconscio, o comunque non riconoscibile subito come tale: da Peirce a Husserl si è ormai riconosciuto che esistono processi interpretativi anche a livello della percezione e della sensazione. Fondare lo specifico della semiosi sulla interpretazione, significa affermare che il momento della ricezione non è estraneo agli oggetti semiotici in quanto tali. Al contrario, è dal punto di vista della ricezione che (1) si riconosce un messaggio come tale e se ne individua la forma, (2) si identifica o si inventa un sistema di regole o codice soggiacente, (3) si decide di identificare, negare, o configurare come ipotesi l’intenzione di chi ha (o potrebbe aver) trasmesso il presunto messaggio.

Tuttavia, quando la semiotica, nel corso degli anni sessanta, ha iniziato a occupare imperialisticamente tutti i territori dello scibile, la musica è subito apparsa come un fenomeno di difficile classificazione.

In quel decennio si era caduti in un singolare equivoco. La semiotica, sin dalla Grecia antica, era nata come studio di vari processi di inferenza da segni di ogni genere, e solo molto tardi, in particolare con Agostino, aveva incluso tra i suoi oggetti anche il linguaggio verbale. Invece, nel nostro secolo la lingua verbale è parsa a tutti il sistema semiotico più potente, con cui si riesce a conferire una forma all’intero universo della nostra esperienza, e la linguistica si era presentata come lo studio più elaborato di un sistema di significazione. Si era deciso pertanto che il codice linguistico dovesse diventare il modello per qualsiasi altro sistema di significazione. A questo punto i teorici si sono trovati imbarazzati di fronte a due caratteristiche del fenomeno musicale.

Un imbarazzo per eccesso era dovuto al fatto che si cercava di definire la musica attraverso il modello di un altro sistema semiotico, quando invece è la musica che probabilmente ha offerto il proprio modello a tutti gli altri sistemi semiotici, e in particolare a quello della linguistica. Non è il caso di ricordare che i tratti distintivi di Jakobson-Halle (1956) hanno nomi come diesato e bemollizzato: la stessa nozione di sistema fonologico è una nozione di origine musicale, attraverso la quale si è cercato di trattare suoni non-musicali in termini musicali. Un fonema acquista riconoscibilità a causa della sua posizione in un sistema di differenze, come accade con una nota, definita all’interno di un sistema di rapporti tonali. In paralinguistica si ricorre a nozioni come timbro, intonazione o altezza. La stessa differenza tra langue come sistema e parole come esecuzione ricorda quella tra sistema tonale come repertorio strutturato di tratti selezionabili, e composizione come disposizione, su un asse sintagmatico, degli elementi selezionati, in base a regole di buona formazione. Parlare, per la linguistica strutturale, è come sedersi di fronte a una tastiera ed elaborare sequenze sintatticamente accettabili.

Un imbarazzo per difetto era dovuto all’opinione che certamente la musica avesse una dimensione sintattica, ma non una dimensione semantica. Era curiosa l’opinione che la lingua verbale, dal punto di vista formale, si caratterizzasse per il fatto che trasmetteva significati. Dire che la lingua verbale viene usata soltanto per trasmettere significati, significa intenderla solo nel modo in cui la usano romanzieri, scienziati, casalinghe e impiegati dei telegrafi. Che cosa dire allora di questa composizione verbale di Hugo Ball?

Kroklowafgi?
Semememi! Seikronto prafliplo.
Bifzi, bafzi; hulalomi.
Quasti besti bo 

È una stringa verbale dotata di ritmo, è possibile riferirla a una sintassi, e ciò che più conta è impossibile interpretarla. D’accordo che gli esseri umani usano la lingua verbale più spesso nel senso delle casalinghe e dei postelegrafonici che non in quello di Hugo Ball: si tratta però di fenomeni etnici e storici che non hanno rilievo teorico. Basterebbe che di tutta la nostra cultura verbale sopravvivessero solo formule incantatorie come Abracadabra e, di tutta la nostra cultura musicale, i soli segnali militari, per permettere a un etnologo o a uno storico del futuro di affermare che nella civiltà occidentale la musica serviva a comunicare precisi comandi e la lingua a suscitare impressioni ineffabili.

Naturalmente, linguisti e filosofi del linguaggio spiegano che la lingua verbale esprime per eccellenza significati perché essa ha le caratteristiche della onnipotenza e omnieffabilità: è cioè il sistema semiotico più adatto a descrivere il mondo e a trasmettere qualsiasi esperienza. In realtà, la lingua verbale è certo più adatta di altri sistemi a esprimere i nostri processi razionali: si può descrivere in termini linguistici, meglio che in altri, ciò che sta avvenendo in questa sala; tuttavia, la lingua è impacciata nel descrivere un cubo visto in prospettiva assonometrica, e rischia il fallimento totale se si azzarda a descrivere la partitura dell’Arte della Fuga. Vedremo invece, tra poco, come nel corso di duemila anni proprio la musica sia stata usata per rappresentare fenomeni matematici, fisici, biologici e psicologici.

Un sistema semiotico si definisce per la sua struttura formale e per la sua disponibilità a trasmettere significati. Che poi i significati siano trasmessi o meno è un fatto che concerne i processi empirici di comunicazione, non la natura del sistema di significazione. Coloro che negano alla musica una dimensione semantica non soltanto le riconoscono una dimensione sintattica, ma anche una dimensione pragmatica: che la musica possa indurre dei comportamenti lo sappiamo quando usiamo una marcia militare piuttosto che una marcia funebre o una polka.

Sin dalle origini, la musicologia si fonda sull’aneddoto secondo cui Pitagora, per calmare gli ardori di un adolescente ubriaco, aveva ordinato ai musici di passare dal modo frigio al modo ipofrigio. Ora, dal punto di vista di una semiotica della interpretazione, ovvero se ci poniamo dal punto di vista della ricezione musicale, la dimensione sintattica instaura la possibilità di una dimensione semantica, mentre la dimensione pragmatica ne implica l’esistenza come condizione necessaria anche se non sufficiente. Per quanto riguarda la dimensione sintattica, per riconoscere una stringa sonora, che si svolge nel tempo, come sintatticamente ben formata, occorre che si stabilisca una dialettica di attese (ispirate al codice) e di soddisfazioni (o frustrazioni), nel corso della quale ogni antecedente viene inteso come l’annuncio di un suo possibile conseguente. Per Jakobson questo fenomeno era già un fenomeno semantico: forse la musica non parla d’altro, ma è strutturata secondo una dinamica “narrativa”, in cui ciò che viene prima annuncia, suggerisce, in qualche modo significa o “sta per” ciò che verrà dopo.

Quanto alla dimensione pragmatica, le semantiche vero-funzionali hanno indotto a pensare che ci sia semantica solo quando un linguaggio è usato a scopi descrittivi e cioè per fare asserzioni su uno stato di cose. In realtà, si trasmettono significati – e li si interpretano – quando si comanda, si prega, si interroga, si incita. Anche se si ammettesse che certi sistemi semiotici, come a esempio quello dei semafori, non servano per fare asserzioni, ma solo per indurre a fare o non fare qualcosa, essi sarebbero egualmente dei sistemi semiotici, e indurrebbero a fare o a non fare solo sulla base di una interpretazione semantica dei loro segni.

Apparentemente, l’adolescente di Pitagora aveva subito il dolce incanto musicale così come si era eccitato sotto l’influenza dell’alcool. Eppure noi saremmo eccitati dallo stesso vino di Samo che egli aveva bevuto, ma non da una melodia in modo frigio (a meno che non siamo culturalmente “adattati” al sistema della musica greca). Quanto a lui, l’adolescente greco, non si sarebbe eccitato sentendo l’Inno alla Gioia né intristito ascoltando il Preludio e morte di Isotta. Perché reagisse al modo frigio occorreva che egli avesse una competenza musicale, sia pure assorbita in modo acritico, ereditata per educazione, consuetudine, adattamento all’ambiente. Dunque la musica può realizzare la sua dimensione pragmatica solo sulla base di una dimensione semantica.

Non mi azzardo certo a discutere i casi in cui la musica sembra manifestare intenti “referenziali” o descrittivi, designando realtà extramusicali: altri lo hanno fatto e lo stanno facendo meglio di me. Penso soltanto che, se Vivaldi ha fatto corrispondere la Languidezza dell’Estate a una successione di crome in Sol minore, tempo 3/8 – e l’Ubriaco autunnale a una alternanza di quartine e terzine di semicrome in Fa maggiore, tempo 4/4, occorrerà pur interrogarsi sulla liceità del suo progetto – specie per il fatto che in termini di storia della ricezione esso è stato preso sul serio. Il fatto che sia arduo identificare intenti designativi nell’Organo Obbligato Solo dalla Sinfonia della Cantata 29 di Bach, non basta ad affermare che il Capraro che Dorme o il Cucco delle Quattro Stagioni siano solo realtà extramusicali. Anche i linguisti talora affermano che la linguistica si occupa delle sole strutture verbali e non degli oggetti del mondo esterno, di cui il linguaggio pretende parlare: eppure, la stessa linguistica si trova a dover fare i conti col mondo esterno come se fosse interno al linguaggio, almeno quando incontra enunciati come le idee verdi senza colore dormono furiosamente. È indiscutibile che ci sono difficoltà a colorare di verde una idea, e a farla dormire, almeno in termini di competenza verbale “normale”. Invece, ci sono le stesse difficoltà a render languida l’estate in Do maggiore e a tempo di giga?

Tuttavia, il problema che vorrei affrontare oggi è un altro, e concerne anch’esso un singolare fenomeno di ricezione – se non dei discorsi musicali, del discorso della musicologia. Fenomeno paradossale, perché, come vedremo, una delle ragioni per cui la musicologia ha a lungo rimosso la questione della dimensione semantica della musica è che per lungo tempo il sistema sintattico, il codice stesso della musica, è stato sovraccaricato di funzioni semantiche. Infatti, è accaduto molte volte che il modello di un sistema semiotico sia stato assunto come modello per altri sistemi semiotici: ma soltanto con la musica è accaduto che un modello sintattico fosse assunto come modello semantico, anzi come discorso capace di rappresentare, di descrivere, di spiegare qualsiasi fenomeno psichico, fisico, microcosmico e macrocosmico.

Come si fa ad usare un codice come discorso che descriva diversi aspetti dell’universo? Immaginiamo che io costruisca un sistema che rende ragione della distinguibilità delle dita di una mano sinistra (considero la mano come posta col dorso rivolto verso gli occhi del suo possessore). Noi distinguiamo le dita tra loro a causa della loro forma, ma la loro forma è peculiare e non si può escludere il caso in cui qualcuno abbia, per ragioni di malformazione, il pollice lungo quanto l’indice. Si deve pertanto costruire un sistema astratto che si regga su due serie di opposizioni, una bidimensionale e una tridimensionale. Sul piano tridimensionale si deve considerare il fenomeno della contrapposizione, tipico della mano umana. Si definisce come pollice quel dito che, indipendentemente dalla sua forma, si contrappone a tutte le altre dita. Sul piano bidimensionale si stabilisce una sequenza di quattro entità che si oppongono e definiscono l’una rispetto all’altra per la reciproca posizione lungo un asse di posizioni 1… n, dove 1 rappresenta la prima posizione a destra e n l’ultima posizione a procedere da destra e quindi la prima posizione a sinistra. L’indice sarà allora il dito che si trova in posizione 1, e cioè il primo dito a destra di qualsiasi altro.

A questo punto, si ha solo un sistema di rapporti, che chiameremo codice sintattico, non dissimile, anche se più semplice, dal codice fonologico o dal sistema dei rapporti tonali. Naturalmente si può usare questo sistema sintattico per correlare un significato a ciascuno dei suoi elementi e a ciascuna stringa che risulti dalla loro combinazione. Poniamo per convenzione “lessicale” che il dito 1 significhi Parigi, il dito 2 significhi Roma, il dito 3 significhi Berlino e il dito 4 significhi Mosca. Poniamo la regola grammaticale per cui un’ostensione del pollice significa movimento dal numero più basso al più alto, e due ostensioni del pollice significano movimento dal numero più alto al più basso. Se si mostra due volte il pollice e poi, in sequenza, l’indice e l’anulare, si è espressa la proposizione “andare da Berlino a Parigi”. Naturalmente qualsiasi ricettore può leggere il messaggio sulla base di un altro codice. Sono gli incidenti della comunicazione, che permettono persino ai musicologi di organizzare congressi sulla sociologia e l’etnografia della ricezione.

Ora, se qualcuno volesse correlare il sistema degli intervalli musicali, poniamo, a un qualche significato cosiddetto extra-musicale, non procederebbe diversamente. Ma con la nostra mano, ovvero con questo modello astratto di sintassi della mano, si può fare un’altra cosa. Si può decidere che la struttura sintattica della mano rappresenta qualsiasi altra struttura sintattica esistente. Si può decidere che, nel mostrare la mano e le sue possibili articolazioni, si esprime o si significa il modo in cui qualsiasi altro sistema, dalla musica al sistema periodico degli elementi, è organizzato. Il modello sintattico della mano diventa il discorso attraverso il quale si esprimono i concetti stessi di opposizione sistematica, di selezione e di combinazione sintagmatica. Si può mostrare la mano per dire che anche il sistema periodico degli elementi è organizzato nello stesso modo: come in una mano di un mutilato, se anche mancasse empiricamente il medio, posso estrapolare che esso dovrebbe esserci, che c’era o che potrebbe essere ricostruito plasticamente, perché deve esistere qualcosa che istanzia la posizione astratta 2, così deve anche avvenire per un sistema periodico degli elementi.

A questo punto si può decidere che i rapporti tra le dita della mano esprimono anche i rapporti tra aria, acqua, terra e fuoco, tra gli umori, tra i pianeti (naturalmente se la sintassi della mano gioca su cinque sole dita occorrerà ridurre a cinque il sistema planetario), tra i cinque sensi, e così via. Condizione per questa operazione è che il sistema globale del mondo sia tale che ogni operazione compiuta sulla mano corrisponda a una operazione possibile nell’ambito dei diversi sistemi mondani che essa esprime.

In tal modo un sistema sintattico diventa discorso che esprime e significa la struttura e gli accadimenti possibili di tutti gli altri sistemi mondani. Il codice della mano diventa il codice del mondo.

Se il mio esempio è apparso bizzarro, si rifletta sul fatto che questo è avvenuto con il codice della musica, trasformato da sistema sintattico in discorso sulle leggi che reggono l’universo. Se il sistema più elementare che descrive i rapporti tra i suoni (quello che abbiamo deciso di chiamare codice della musica in senso lato) può essere oggi espresso in linguaggio matematico, con la metafisica, l’estetica e la musicologia pitagorica è accaduto il contrario. Si è deciso che ogni sistema, fisico o matematico che fosse – in assenza di un linguaggio matematico sufficientemente articolato – poteva essere espresso nei termini di un metalinguaggio musicale.

La teoria classica della proporzione, la più elementare e più antica delle teorie estetiche e matematiche, concerneva certo le proporzioni del corpo umano (vedi il canone di Policleto) o delle costruzioni architettoniche (vedi Vitruvio), ma la sua prima formulazione appare nell’ambito della musicologia pitagorica. Se Pitagora è l’inventore della spiegazione matematica dell’universo lo è perche “primum omnium Pythagoras (fuit) inventor musicae”, come dirà nel Medioevo il monaco Engelberto (De Musica X – in Gerbert, Martin, ed. Scriptores ecclesiastici de musica sacra potissimum: St. Blaise, Typis San-Blasianis 1784 [reprint Hildesheim: Olms, 1963]).

La consonanza – che altro non è che un altro termine per proporzione – è inizialmente, con Boezio, nozione musicale: «Consonantia, quae omnem musicae modulationem regit, praeter sonum fieri non potest… Etenim consonantia est dissimilium inter se vocum in unum redacta concordia… Consonantia est acuti sono gravisque mixtura suaviter uniformiter auribus accidens». (De Musica 1, 3-8, PL 63)

Ma questa consonanza, che regge la sintassi musicale, regge anche ogni altro fenomeno fisico, e Boezio ricorda come Pitagora, osservando come i martelli di un fabbro producano sull’incudine suoni diversi, si era reso conto che i rapporti tra i suoni sono proporzionali al peso dei martelli. Parimenti, vi è rapporto di consonanza tra fenomeno musicale e fenomeno psicologico e, infatti (tornando all’esempio dell’adolescente ubriaco), è possibile cambiare un umore mutando il modo, perché l’anima e il corpo sono soggetti alle stesse leggi dei fenomeni musicali e queste medesime proporzioni si trovano nell’armonia del mondo, così che micro e macrocosmo sono legati da un’unica legge matematica. L’uomo è conformato sulla misura del mondo e trae piacere da ogni manifestazione di tale misura: «amica est similtudo, dissimilitudo odiosa acquee contraria». E Onorio di Autun cercherà di spiegare «quod universitas in modo cythare sit disposita in qua diversa rerum genera in modo chordarum sit consonantia». (Liber duodecim quaestionum, PL 72)

La vicenda del modello musicale, come discorso che descrive l’universo, attraversa tutto il Medio Evo, trionfa nel neoplatonismo rinascimentale a partire della Harmonia Mundi di Francesco Giorgi (1525), influenza astronomi come Copernico e Keplero, ispira la magia e la medicina rinascimentale e seicentesca (così che troveremo in Robert Fludd [Katholikon medicorum katoptron 1631] il modello del tetracordo usato per spiegare le analisi delle urine). Questa vicenda produce molte interpretazioni deliranti del mondo, ma se il problema della cultura moderna è stato quello di passare da una logica delle qualità a una logica delle quantità (e alla spiegazione del mondo come libro scritto in caratteri matematici), il modello musicale ha avuto una funzione paradossale. Esso cercava di rendere ragione di una esperienza empirica, l’esperienza dei suoni, che noi percepiamo come qualitativa, ma lo faceva per formule quantitative. L’idea pitagorica che vasi o bicchieri riempiti di quantità diverse d’acqua producano suoni diversi, gioca su una analogia visiva che può indurre a fantasie qualitative, ma ha al fondo, come propria base, una regola quantitativa.

Per fare questo, la musicologia classica ha dovuto accettare un’amputazione. I suoni sono un fenomeno percettivo, fisico, sensibile e sensuoso. La spiegazione del perché siano suoni e piacciano ai sensi richiede un passaggio all’astrazione totale. La musicologia greco-medievale è stata indotta ad abbandonare il mondo dell’esperienza, che voleva spiegare, per contemplare un sistema astratto che lo spiegasse. Il sistema tanto più spiega l’esperienza, quanto più ne prescinde. Infatti, nella visione pitagorica il musico è il teorico della musica, il conoscitore di leggi musicali, delle regole matematiche che governano il mondo sonoro. Invece, l’esecutore, colui che produce i suoni non è che uno schiavo, un meccanico. Il musico è colui che conosce le bellezze ineffabili del suono alla luce della ragione. Boezio felicita Pitagora per aver intrapreso lo studio della musica «relicto curium iudicio» (De Musica I, 10).

Ad abbandonare il giudizio dell’orecchio si guadagna la possibilità di spiegare, con il codice della musicologia, tutti gli aspetti dell’universo, ma si perde la possibilità di spiegare i fenomeni concreti di ricezione musicale. Esempio classico, se la proporzione musicale è proporzione cosmica, allora esiste una musica mondana, l’armonia delle sfere, e i sette pianeti ruotando intorno alla terra immobile generano ciascuno un suono della gamma tanto, più acuto quanto più il pianeta è lontano dal centro del sistema, e dunque più veloce. Dall’insieme proviene una musica dolcissima, che noi non avvertiamo per la inadeguatezza dei nostri sensi. Ma se ogni pianeta generasse un suono della gamma, tutti insieme produrrebbero il rumore che si otterrebbe sedendosi di colpo sulla tastiera del pianoforte, e la musica mondana delizierebbe al massimo le orecchie di John Cage. Di questo, il teorico pitagorico non si è preoccupato: è teoricamente bello che ciascun pianeta produca un suono, e che tutti insieme rappresentino la gamma. Basta prescindere dal giudizio dell’orecchio.

Sino ai tempi moderni – prima della musicologia – nessun altro sistema di spiegazione dell’esperienza era incorso in questa contraddizione. Le matematiche premoderne erano ancora abbondantemente compromesse con l’esperienza ed è solo dopo che iniziano a parlare di entità che non trovano riscontro nelle quantità empiriche. Ma dopo il rinascimento questa contraddizione sarà il destino di tutta la scienza occidentale – comprese quelle che studiano i sistemi di segni. Persino per la lingua verbale oggi abbiamo grammatiche perfette, basate su rigorosi algoritmi, che spiegano un sistema di significazione nei suoi stessi termini e nelle sue astratte possibilità, ma che sovente sono incapaci di spiegare perché comprendiamo quel che diciamo.

Questa è forse una delle ragioni, o la sola ragione, per cui la musica è divenuta elemento d’imbarazzo per la semiotica. Essa non riesce a spiegarla perché in qualche modo tutte le sue spiegazioni sono debitrici del modello musicale: del modello strutturale dell’universo sonoro e del modello metodologico della musicologia classica (dico della musicologia come fuga verso l’astrazione totale, nel suo tentativo utopico di spiegare astrattamente la concreta struttura di ogni aspetto del macro e del microcosmo). Ma, e questo congresso è stato organizzato per dircelo, la storia della musica non è soltanto la storia della produzione del proprio modello astratto, e della ricezione di quel modello come codice del mondo. Non è solo la storia di Pitagora che osserva il fabbro battere i suoi martelli, ma anche del fabbro, e di chi lo udiva, e di chi interpretava i suoni che esso produceva, e di chi tentava di riprodurli con altri strumenti.

Nel tentativo di diventare una semantica globale dell’universo, la musicologia classica aveva perduto il momento empirico e storico della ricezione, e con esso persino la possibilità di riconoscere significati ai discorsi musicali. Tra le intuizioni sulle armonie psicologiche dell’adolescente ubriaco e le certezze sulle certezze di Pitagora, si era smarrito l’universo dei musici e dei loro ascoltatori normali. Auguri a questo congresso per il ritorno, che esso celebra, alla concretezza degli schiavi produttori e ricettori di suoni.

Prolusione svolta in apertura del XIV congresso della Società Internazionale di Musicologia (Bologna, 27 agosto -1° settembre 1987). Pubblicata su «Intersezioni» (VIII, 2, 1988) e disponibile anche sul sito dell’autoreIn omaggio al gusto di Eco per il lavoro editoriale curato e per migliorare la lettura del testo, sono state apportate alcune piccole correzioni di ortografia.

Fotografia: Claudio Comandini, “Umore musicale” – Berlino, gennaio 2006.

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