Il contagio della violenza

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Se nel vortice delle notizie la paura provocata da stragi come quella di Nizza viene presto dimenticata, la violenza si diffonde inarrestabile ed è irresponsabile non voler vedere. Come segnala lo storico Franco Cardini (Firenze, 1940) aiuta a combattere sapere che il suo focolaio è più nel disagio delle periferie occidentali che nelle pagine del Corano, e che le armi più efficaci non sono nelle bombe sui paesi già devastati ma nella collaborazione con le comunità musulmane. 

 

Ha agito come se fosse in un videogioco: guidando a zig-zag il suo mezzo alla ricerca degli obiettivi da colpire. I più distratti, i più sprovveduti, i più lenti a mettersi al riparo. Ha colpito in una sera di festa, seminando terrore e morte tra le gente che sulla Promenade des Anglais di Nizza si godeva i fuochi artificiali del Catorze Juillet, quando si beve champagne e si fanno le ore piccole in tuta la Francia per ricordare la presa della Bastiglia del 14 luglio del 1789 e la Fête de la Nation inaugurata l’anno dopo nella medesima giornata. Intendeva davvero colpire un simbolo della Libertà dell’Occidente? Può darsi. Se avesse scelto una solennità religiosa, si sarebbe detto che suo scopo era «ferire al cuore» la Cristianità, la «terra dei crociati» come la chiama al-Baghdadi. E avrebbe potuto esser vero anche quello. Ma se da quest’ipotesi si vuol trarre la conseguenza “certa” che lo sciagurato trentunenne francotunisino Muhammad Bouhlel sia davvero lo strumento conscio e diretto di una congiura terroristica, allora si corre troppo. Il che, intendiamoci, non rende affatto l’accaduto meno grave e meno allarmante. Al contrario.

È ancora presto per poter dire qualcosa di certo al riguardo. E forse non sarà possibile dirlo mai. Tra qualche giorno accadrà qualcos’altro, di buono (auguriamocelo…) o di cattivo (che Dio non voglia…), e la gente dimenticherà abbastanza rapidamente la strage di Nizza, come ha dimenticato abbastanza rapidamente quella di Dacca e di chissà quant’altre prima. Anche queste sono le regole del gioco. È il principio del “chiodo scaccia chiodo”: lo abbiamo già constatato sabato 15 luglio, allorché le incerte notizie relative al tentato golpe militare in Turchia hanno sostituito la tragedia nizzarda al proscenio dei breaknews.

Il che non toglie che penose e allarmanti siano state, una volta di più, l’imprudenza e l’inadeguatezza di troppi fra i politici e i gestori dei media. Fra tutti si è distinto il solito, ineffabile Hollande, maestro nel perdere sistematicamente le occasioni per tacere. Si è immediatamente parlato di «chiara matrice terroristica di stampo islamico», nonostante molti fossero fin dalle prime battute i dubbi emersi a proposito di Bouhlel, persona ignota ai servizi ma conosciuta invece dalla polizia per ripetuti atti di microcriminalità. Un solitario, un instabile, separato dalla moglie nonostante i tre figli. Anche il suo ultimo tragico atto sembra ispirato, o comunque almeno in parte provocato, da una tossicodipendenza. Che poi vi siano state o possano arrivare delle rivendicazioni, è probabile anzi quasi certo: ma se ne dovrà vagliare con attenzione l’attendibilità. Resta il fatto che ormai, se un criminale commette un’azione particolarmente turpe è un criminale e basta, se proviene da un paese o da una famiglia musulmani viene immediatamente tacciato di jihadismo. Un delinquente occidentale è un delinquente, un delinquente musulmano è un musulmano.

Con tutto ciò l’impressione generale di paura, di disorientamento, di rabbia, resta. L’impressione che siamo tutti minacciati, che ormai il pericolo è in casa e può nascondersi dovunque, che non c’è più un angolo nel quale ci si possa sentire sul serio al sicuro. È questo che vogliono i gestori del Terrore e tutti gli interessati, per vari motivi, a soffiare sul fuoco di quella che una volta si sarebbe definita la “strategia della tensione”.

Eppure, i nostri servizi e anche i media più attenti avevano rivelato da molti mesi come i portavoce di alcune sezioni della galassia si facessero portatori di una tesi ch’era già affiorata in Al Qaeda ai tempi di Bin Laden: abbandonare la politica della tentata (però mai attuata) gestione centralistica degli attentati, affidarsi alle forze locali, magari spontanee, e alle loro libere e magari disordinate scelte; e seminare così un terrore continuo, capillare, con l’intento di far perdere la testa agli occidentali e indurli a reazioni violente, tanto inconsulte quasi inefficaci.

Colpire degli innocenti in Africa e soprattutto in Europa per obbligare i governi occidentali a colpire a loro volta degli innocenti: radicare l’idea che ormai l’Armageddon sia cominciato, che si sia davvero allo scontro “di civiltà” tra Occidente e Islam. I veri nemici dei fondamentalisti fautori di questa strategia non sono affatto i “duri” dell’altra parte, che più o meno vorrebbero forse la stessa cosa: sono la gente in buona fede e di buona volontà, quelli che vorrebbero sviluppare in pace un domani di equilibrio e di convivenza.

Fino a pochi mesi fa i vertici dello Stato Islamico  avevano dato l’impressione di lavorare “in franchising”: non passare né un progetto, né un uomo, né un soldo ai terroristi europei – del resto una costellazione ingovernabile di  gruppi e  gruppuscoli spesso in lotta fra loro -, ma appropriarsi delle loro azioni violente quando esse risultavano efficaci,  lasciando al tempo stesso che anonimi “liberi imprenditori del Terrore”, o addirittura isolati maniaci, inalberassero nei loro proclami e nelle loro azioni le insegne califfali e jihadiste.

Ora però Daesh è alle corde: retrocede e colleziona sconfitte sia in Siria sia in Iraq, mentre anche i suoi più o meno impliciti patrons – da ricercare ad esempio nell’Arabia Saudita o nella Turchia erdoğanista – mostrano di abbandonarlo ora che la sua funzione destabilizzante nel Vicino Oriente si è esaurita. E allora lo jihadismo califfale cambia pelle, tende a guadagnare terreno in Europa sotto forma di propaganda fanatica e di terrore diffuso per compensare le sconfitte territoriali e militari in Oriente, a trasformarsi in una sorta di malattia acuto-cronica dell’Europa e forse, in un futuro prossimo, dell’intero Occidente. A che scopo? A quello di provocare reazioni violenti e indiscriminate, che consentano al califfo di proclamare dinanzi all’intero mondo musulmano sunnita che i “crociati” sono davvero i nemici di Allah.

È questa la trappola nella quale non dobbiamo cadere. Ed ha ragione, qui, chi sostiene che non dobbiamo lasciarci né impressionare né intimidire; che dobbiamo mantenere i nostri stili di vita e – aggiungo io – non darci a rappresaglie inconsulte che colpirebbero gli innocenti. Di innocenti ne abbiamo già ammazzati e continuiamo ad ammazzarne anche troppi, tra l’Afghanistan e l’Iraq, da almeno un quindicennio a questa parte.

Ma va purtroppo da sé che l’appello jihadista alla guerra del terrore può essere raccolto da un’immensa “limatura sociale” di scontenti, di disorientati, di disadattati. Uno degli scopi della nostra civiltà occidentale consiste, da oltre due secoli, nella ricerca della felicità alla quale già puntavano filosofi e politici durante l’Illuminismo: ne è testimone la splendida costituzione degli Stati Uniti d’America. Ebbene: la spaventosa crescita della sperequazione in tutto il mondo  tra i sempre meno straricchi e i sempre più arcipoveri e il dilagare di effetti tra i quali – oltre al crescere degli schiavi della droga e degli adepti della microcriminalità – vanno  considerati anche i foreign fighters  e gl’improvvisati convertiti all’Islam dimostrano che, almeno in questo, la nostra civiltà ha fallito.

Il trentunenne pluriassassino della Promenade des Anglais potrebbe appartenere a questa schiera di psicolabili e di disperati  tra i quali il jihadismo attinge una parte almeno della sua manovalanza. Non esiste una ricetta sicura per difenderci da questa serie di pericoli selvaggi. Ma forse alcune regole-chiave potrebbero aiutarci se non altro a inquadrare la situazione.

Primo: contenere al minimo la preoccupazione, sforzarsi di mantenere le nostre abitudini per dimostrare che il terrorismo è incapace di sconvolgerle; secondo, esigere un aumento del lavoro d’infiltrazione e d’intelligence  che è l’unico in grado di contrastare una strategia fatta di attentati (i terroristi non si combattono con i bombardamenti); terzo, intensificare tutte le occasioni d’incontro e di collaborazione con le comunità musulmane presenti fra noi per imparare a conoscerle meglio e per dimostrar loro che chi ci dipinge come  eterni e irremissibili nemici mente. Sono tre elementari misure profilattiche per ridurre il pericolo del contagio. Perché il contagio della violenza e della guerra esiste ed è già in atto: è ormai una realtà.

Franco Cardini, “Affrontare l’inevitabile”, »FrancoCardini» 17.07.2016.
Fotografia: Claudio Comandini, “Non vedere la città” –  Nizza, luglio 2015.

  • urna

    Profilazioni predittive e comportamenti elettorali

    Denunciare una realtà e svelarne il nome, piuttosto che assecondare luoghi comuni, significa iniziare a trasformarla. Svelare l’ideologia implicita della digitalizzazione, e demistificare le illusioni di progresso sociale e di smisurata libertà di Internet, può contribuire a tutelare e proteggere […]

  • Tomas_particolare

    Frammenti di Tomàs

    «Speravo che si aprisse sotto di me un baratro, un inferno in cui nascondermi e da cui rinascere dopo molte generazioni.» In una città sul mare il sogno di un autocrate ambizioso e senza scrupoli sta per realizzarsi. L’apparizione di una […]

  • Old_City_of_Jerusalem

    Gerusalemme: guida possibile alla terra negata

    Dichiarazioni americane e conseguenze mondiali. Storia di una città, dei suoi popoli e dei suoi monumenti. Parcellizzazione dei Luoghi Sacri e parzialità dei poteri umani.   1. La città senza pace La storia ha già dimostrato quanto sia difficile pretendere, senza […]

  • Angel-o

    Le nature spirituali di Enrico Fraccacreta

    Enrico Fraccacreta è nato nel 1955 a san Severo (Foggia) da padre pugliese e madre emiliana. Compie i suoi studi universitari a Firenze e Bologna, dove partecipa al movimento del Settantasette. Laureato in Agraria, è appassionato di botanica. La natura, […]

  • paolo_pedrizetti_14_Maggio_1977

    Premonizioni del Settantasette

    Se forse gli anni settanta non iniziano con le rivolte del 1968 ma vi trovano la loro origine mitica, probabilmente finiscono come in una tragedia greca con il 1977. Segnala Nicola Tranfaglia che in tale pagina «in buona parte ignota […]

  • kalinin-lenin-trotzki

    Colpo di Stato in Russia

    Tra le testimonianze della rivoluzione russa, quella offerta da Tecnica del colpo di Stato, pubblicato da Curzio Malaparte a Parigi nel 1931 e dato alle stampe in Italia soltanto nel 1948, presenta la singolarità di metterla in sequenza con altre […]

  • Vetrata Palma di Montechiaro (AG)

    Piotr Merkurj: la pittura della luce

    Un pittore russo tra Oriente e Occidente. Pensare le icone, dipingere nel pensiero. Dialogo su luce e materia, forma e colore, spiritualità dell’arte, autonomia della cultura.   «Il disegno è una scienza se esplora l’anatomia con la precisione del tratto, una deità se suggerisce il […]

  • Catalogna_protesta

    Catalogna. La costruzione di un regno inesistente

    Dopo la fuga di Puigdemont in Belgio, accusato di ribellione, sedizione e malversazione insieme ad altri esponenti indipendentisti, e la sua dichiarazione di non presentarsi ai giudici di Madrid, si può considerare chiusa una prima fase dell’autoproclamatasi Repubblica di Catalogna. Questa, bocciata all’unanimità […]

  • olio_di_ricino

    I giornalisti americani e il giornalismo fascista

    Di fronte al fascismo, parte della stampa statunitense azzardò analogie con i protagonisti della propria epopea. Gli Stati Uniti si sentivano vicini all’Italia laddove, usciti dal loro isolazionismo soltanto con la partecipazione alla Grande Guerra, erano passati per un periodo […]

  • Fascist Architecture in Washington - Lisner Auditorium (1941-1943) by Faulkner & Kingsbury

    Affinità e divergenze tra fascismi e New Deal

    Una polemica apparsa recentemente sul The New Yorker a firma di Ruth Ben-Ghiat si chiedeva perché in Italia edifici legati al fascismo, quali il Foro Italico e il Palazzo della Civiltà Italiana (o del Lavoro), non venissero abbattuti. E nel […]