Halloween dietro le quinte

La morte, il marketing e la rimozione. Culto dei defunti presso Greci, Romani, Ebrei e Celti. Paganesimi e cattolicesimo. Morte e fertilità nei culti antichi. Modernità e spiritualizzazione della morte. Swedenborg e Kant. Montale e i Peanuts. Economia di morte ed esorcismi low cost. Il tempo non ha un solo corso. Più di qua o più di là?

 

1.  Il tempo dei morti

Alcune festività riportano a chi resta il pensiero di chi è andato: tale considerazione è presente nel tempo circolare delle società arcaiche e si trasmette anche all’epoca moderna. Tuttavia, non è mai esistito un solo oltretomba, le sue configurazioni sono innumerevoli e irriducibili ad una sola e medesima concezione, così come anche la morte è una costante mai uguale e lo stesso rinnovamento comporta sempre variazioni.

La festa dei morti oggi più conosciuta, che qualcuno definisce anche come “la notte più magica dell’anno”, è Halloween (forma contratta di All-Hallows-Eve –  vigilia di Ognissanti), che rappresenta il campione esemplare di quelle credenze costrette a perdere i propri elementi più tipici sotto l’insegna della spiritualità mercantile new-age. Se l’arcaismo di maniera è funzionale al sensazionalismo, si configura un’effettiva terra dei morti nel livellamento che irretisce in maniera apparentemente inarrestabile i concilianti consumatori globali: pertanto, la festa rappresenta, anche se qualcuno non se ne accorge, il momento in cui negli (pseudo)senzienti (para)mediatici prende corpo la breve illusione d’esser vivi.

 

2.  Tutti pregano i propri morti, vivi nella pace dei cuori

Culti dedicati ai defunti esistono e sono esistiti ovunque. Gli elementi di una cultura possono trasmettersi e riformularsi diversamente, la diffusione degli archetipi prescinde da contatti storici effettivi, in ogni ambito i simboli possono assumere significati diversi. Osserviamo alcune delle caratteristiche delle credenze religiose legate alla morte diffuse presso Greci, Romani, Ebrei e Celti.

Nel vasto e articolato pantheon greco, il dio dei morti è Ade (invisibile), collegato al mito di Persefone, detta anche Kora (giovinetta), da lui rapita presso la pianura di Enna in Sicilia. Persefone è sua nipote ed è destinata a diventare sua moglie e a configurarsi quale dea ctonia, il cui contatto con l’oltretomba si esplica nel sostare nei mesi desolati nel mondo sotterraneo, al quale appartiene dopo aver inghiottito dei semi di melograno. Torna però dalla madre Demetra (terra) al rifiorire della natura: la discesa negli inferi prelude il risalire alla luce. Questa è la versione più comune del mito, che ha avuto tra i suoi redattori (forse) Omero (Inno a Cerere, 2,393-ss), artisti anonimi del V secolo a.C., e anche Andrè Gide e Igor Strawinsky. Le credenze sono legate ai Misteri Eleusini, cadenzati in due parti: la purificazione dei Piccoli Misteri in primavera (nel mese di Antesterione) e la consacrazione dei Grandi Misteri in settembre-ottobre (Boedromione).

Esiodo (Teogonia 455-6; 767-8) riporta che Ade e Persefone sono caratterizzati dalla medesima crudeltà, che forse coinvolge la dea per effetto di qualche sindrome di Stoccolma ante-litteram: tuttavia, non sono malvagi, non odiano l’uomo, né lo tentano, e pertanto non hanno nulla di satanico; divinità messagere quali Ermes possono entrare e uscire dal loro regno a proprio piacimento. Nelle rappresentazioni pittoriche e scultoree, Persefone e Demetra tendono ad assomigliarsi, eppure non sono uguali: vita e morte si richiamano, ma c’è sempre la distanza di una generazione a separarle. Non tutti i morti precipitano nell’Ade: infatti, eletti quali i saggi e gli eroi sono destinati alle isole di luce e felicità dei Campi Elisi.

Presso i Romani, oltre a Proserpina e Plutone, nome latino di Persefone e Ade, ai defunti sono legate culti e divinità differenti, nei quali sull’aspetto leggendario prevale uno spiccata componente rituale. Molte concezioni relative ai defunti derivano dalla tradizione etrusca, secondo la quale vita e morte coabitano nella perennità di un ciclo naturale di cui l’uomo è parte integrante, come mostra la Tomba della Caccia e della Pesca (Tarquinia, VI sec. a.C.); la principale figura psicopompa etrusca è Charun, a volte armato di martello e visibile anche alle porte dell’aldilà nella Tomba dei Caronti (Tarquinia, III sec. a.C.). Le prime forme della cultura romana si distinguono per rispettare gli dèi al punto di evitare di rinchiuderli in rappresentazioni, correlandoli a degli oggetti che esprimono un significato affine: il fuoco per Vesta, la selce per Giove, la lancia per Marte.

A Roma prevalgono gli aspetti propri ad una cultura urbana e l’intento di fare forma all’uomo perfetto. Il culto dei morti trova numerose ricorrenze e divinità ancora più numerose. Veglia sulle stagioni e sui frutti la ninfa Pomona, che presiede una festa dei morti dalla data mobile. I Lemuri sono spiriti dei morti disturbanti, larve simili a vampiri: il pater familias deve propiziarli gettando fave alle sue spalle; la festa di Lemuria, che ricorre a maggio nei giorni 9, 11 e per le idi del 13, a detta di Ovidio (Fasti, I,419-ss) viene istituita da Romolo per placare l’anima del fratello Remo.

I Lari rappresentano parenti e figure di pubblica utilità, la cui festa è Sigillaria, in prossimità del solstizio d’inverno. I Penati sono divinità protettrici personali ai quali sono tributati culti perlopiù privati e quotidiani. Le feste pubbliche annuali in onore dei Parentes, i defunti della famiglia, sono le Parentalia, istituite da Enea: si svolgono dalle idi di febbraio, quindi il 13, per nove giorni, sino al 21, giorno di Feralia nel quale si aggirano le anime dei morti tra i viventi, colmati di doni; Ovidio (Fasti, II, 571-615) ricorda inoltre i culti attribuiti a Tacita, detta anche Lara, dea del silenzio degli inferi.

I cimiteri (bet ha-kevarot, casa delle tombe), anche detti “case della vita”, sono per gli Ebrei i terreni consacrati destinati in eterno ai morti. Questi vi si librano al di sopra, e nel giorno della Resurrezione vi si leveranno vestiti. Il contatto con i defunti è considerato impuro, anche perché morti non sono in grado di osservare i comandamenti: bisogna quindi fare attenzione a non deriderli ostentando la propria fede, e pertanto nei cimiteri è proibito portare i rotoli della Torah, indossare i teffilin o mostrare gli tzitzit.

L’intento principale degli Ebrei è definire contenuti e forme del culto monoteista, la cui idea viene a formularsi in un contesto politeista. C’è l’usanza di deporre un ciottolo sulle tombe, i morti possono essere oggetto di preghiere, ma ciò è criticato in quanto è degno di ricevere preghiere esclusivamente il Dio unico, del quale è poi proibito realizzare immagini e rappresentazioni. Il testo chiamato anche Sefer Musah (Libro della Dottrina, o Siracide, o Ecclesiastico, 22, 9) permette le lacrime per i morti, ma riconosce che la condizione dello stolto è peggiore della loro. L’Haggadah racconta che le anime nel distaccarsi dalla vita passano per la grotta di Machpelah ed entrano nel giardino dell’Eden, salutati dalle anime dei Patriarchi.

La grotta è presso Hebron e fu acquistata da Abramo per seppellire sua moglie Sara quando scoprì che vi erano già sepolti Adamo ed Eva. È pervasa dell’odore del Paradiso, capace di neutralizzare il puzzo del Leviatano, l’enorme mostro marino che simboleggia l’inclinazione malvagia degli uomini e il principe degli angeli caduti, l’accusatore Sammaele, contrastato dall’arcangelo Michele. La strada dell’Eden sarà rivelata alla venuta del Messia, che potrà leggere il Sefer Thora, il Rotolo del Pentateuco scritto con fuoco di diversi colori a segno dell’immortalità della rivelazione divina. Le tradizioni midrashiche e cabalistiche, soprattutto di ambito orientale e chassidico, delle quali numerosi dati sono stati raccolti da Alan Unterman, riportano ad una pluralità di visioni lontana dal rigore etico e razionale dei testi rabbinici, ma vicina alla religiosità vissuta del popolo.

Presso i Celti, i morti con onore restano vivi nella memoria della tribù e vengono celebrati nella ricorrenza più importante dell’anno con banchetti e bevande. Per lo storico Ronald Hutton la pluralità del mondo celtico riguarda anche questa festa, che in Inghilterra e Germania ha come data il I novembre, mentre in Irlanda cade il 20 aprile ed è chiamata Samhain, nome che secondo l’etimologia gaelica significa fine dell’estate. La religione celtica è devota alle polarità dell’universo: luce e oscurità, notte e giorno, morte e vita. Il tempo procede dal buio verso la manifestazione della luce, il giorno inizia quando muore, al crepuscolo. Il calendario è basato su una complessa sincronizzazione astronomica del tempo solare e quello lunare, e ne è responsabile il ceto sacerdotale dei druidi, nella cui formazione, dalla durata ventennale, aveva grande rilievo la memorizzazione di un gran numero di versi.

La cultura celtica ha enorme diffusione ma rimane legata a ambiti particolaristici in reciproco conflitto. L’Irlanda, che ne è coinvolta soprattutto nelle ondate che si susseguono dal V al I sec. a.C, non è raggiunta dalle conquiste romane, mantenendo così tratti peculiari rispetto a quelli dei paesi europei continentali e mediterranei. Il Lebor Gabála Érenn (Libro delle Conquiste) è un testo mitico e genealogico che legge il paganesimo irlandese in chiave giudaica-cristiana, ricordando la stirpe di Túatha Dé Danann, antiche divinità evemerizzate in figure leggendarie. Figura chiave è la “grande regina” Mórrígan, che compare accompagnata da un corvo e legata alla guerra e alla sessualità. Figlia di Ernmass e Fiacha mac Delbáeth, è identificata con la nutrice Anu ed è associata in una triade non simmetrica con le sorelle Badb Chatha e Macha, che rappresentano diversi aspetti della battaglia.

Legato alla morte è Balor, signore delle Isole Ebridi e capo dei Fomor, alleati e poi nemici dei Túatha Dé Danann, figura di spicco nel respingere gli invasori dell’Irlanda; è nominato nel testo Cath Maige Tuired (La battaglia di Mag Tuired). Cernunnos, figura teriomorfa dalle corna di cervo, presiede alla fertilità e al mondo infero; sue raffigurazioni sono presenti nelle incisioni rupestri della Val Camonica (Italia, IV sec. d.C.) e del Calderone di Gundestrup (Danimarca, I sec. a.C.). Ogma invece guida i defunti e sovrintende al linguaggio, legando il nome alla cosa; il termine irlandese che lo nomina non è di origine celtica e ricorre in Gallia per indicare la figura di Ercole (Luciano di Samosata, Dialoghi – Ercole 1-7). A partire dal Dis Pater di cui parla Cesare (De bello Gallico, VI,18), “grande padre” che presiede alla morte, ai raccolti e alla rigenerazione in modi simili a quelli di Giove, fino al dio Helman a cui si riferisce la femminista Barbara Walker elaborando l’idea di un inferno precristiano quale santuario uterino, la casistica di un supposto pantheon pan-celtico è colma di equivoci e mistificazioni.

Come accade presso Greci e Romani, le divinità celtiche possono rappresentare tanto un luogo quanto una figura e la loro intercambiabilità corrisponde alle manifestazioni di una divinità diffusa dai diversi nomi. Questa pluralità, se non permette l’assimilazione reciproca di tutte le diverse figure, non esclude l’esistenza di un fondo religioso comune, favorito dall’azione di collegamento tra i differenti gruppi celtici operata dai druidi; costoro, come i pontifices romani, non erano al servizio di nessuna particolare divinità pur avendo competenza di ogni faccenda religiosa, compresa quindi la festa dello Sahmain. Per teorie che attingono alle leggende e alla pseudostoria irlandese, la festa risale al neolitico e allude all’apertura del Daho Sihde, “colline fatate” abitate da un piccolo popolo molto vario di folletti, gnomi e fate, luogo invisibile ma parallelo a quello visibile dal quale si può entrare e uscire e dove i defunti dimorano provvisti di tutti gli attributi della propria esistenza fisica, rendendo così inadeguati i concetti di “aldilà” e “trapasso”. Finestre e porte, sorvegliate da candele accese, restano aperte per permetterne il passaggio nelle case.

Nel V sec. San Patrizio favorisce la cristianizzazione dell’isola promuovendo il sincretismo con gli elementi pagani. La tradizione religiosa gaelica, caratterizzata da una diffusa presenza femminile, resiste almeno fino all’800. L’assenza di martiri permette di ipotizzare un’assimilazione pacifica. Fino al 1172 la chiesa irlandese mantiene spiccata originalità nei confronti di quella romana. Nel frattempo, il tempo liturgico cristiano incorpora il giorno dei morti e lo abbina al culto dei santi attraverso l’azione dei pontefici Gregorio III (731-741) e Gregorio IV (827-844), che destituiscono la tradizione romana dei Lemuria del 13 maggio e fissano la festività nei giorni d’inizio novembre, intermedi tra equinozio d’autunno e solstizio d’inverno, coltivando così il rapporto con figure esemplari per la fede e la pluralità delle manifestazioni divine. E del resto, Cristo stesso è morto e sceso agli Inferi, «riacquistando a Dio uomini di ogni lingua, popolo e nazione». (Apocalisse, 5, 9)

Greci, Romani, Ebrei e Celti possono essere visti come le quattro braccia della croce cristiana. Nonostante i perduranti disconoscimenti reciproci, la nuova fede s’impone sulle culture precedenti con modi che suggeriscono tanto distinzioni quanto contiguità. A distanza di secoli, si richiamano nella spiccata tensione religiosa ed etica dello stoicismo dell’epoca imperiale e nello splendore delle immagini sensuali e pagane della chiesa del rinascimento.

 

3. Il genio pagano del cattolicesimo

Una giustificazione del cristianesimo successiva ai furori della rivoluzione francese è affrontata da Chateaubriand ricollegando i suoi principi con quelli del razionalismo: infatti, piuttosto di affermarne un valore reazionario, indica proprio nella religione cristiana il motore di ogni progresso, criticando così il vanitoso culto di sé degli illuministi, che si rivestiva di paganesimo per pura affettazione. Pertanto, se da una parte tracce della presenza del vero Dio sono intraviste in tutte le culture, dall’altra le “devozioni popolari” di cui abbonda il cattolicesimo, pur se non hanno carattere strettamente ortodosso e anzi risalgono al retroterra pagano, fanno parte della sua bellezza e concorrono a formulare la moralità.

Per Chateaubriand i cimiteri di campagna posti attorno alla parrocchia rappresentano la migliore sepoltura mai offerta ai defunti, le tombe all’interno delle chiese riportano alle solenni meditazioni dei prelati e ai tempi ormai andati dei cavalieri, paragonati agli eroi della Grecia. Il sepolcro sotterraneo dei re a San Dionigi offre nelle sua attuale desolazione lo scenario dove giocano bambini ignari.

In un contesto post-coloniale segnato dalla globalizzazione, Augé intende riconoscere la molteplicità delle radici e l’avvenire aperto di tutte le culture. Il parlare dei pagani con gli dèi segnala la capacità di rapportarsi a tempo, corpo e sapere senza bisogno di dualismi e neppure di concetti quali salvezza, trascendenza e mistero. L’attitudine di incrementare il numero delle divinità senza giungere mai ad una sintesi mantiene valore psicologico e rituale anche nel nostro presente per le possibilità di tolleranza che permette; inoltre, laddove l’universalismo esercita un valore interrogativo e critico, trovano una loro possibile reintegrazione le diverse attitudini cattoliche e protestanti.

Cristianesimo, miti greci e africani possono trovare similitudini dove il pegno che spetta all’eroico desiderio di conoscenza che istituisce la società è la morte, che prima ancora di essere subita, è dagli uomini invocata come misura del loro limite e del loro destino. Nello scarto tra il pensiero del sociale e quello della morte si misura così la distanza tra storia compiuta e storia in corso. Così, pure se Augé non lo afferma esplicitamente, si può concludere che lo spazio in cui gli uomini immaginano la possibilità di agire può essere anche quello di una lapide.

Cercando di emancipare il cattolicesimo da un aspetto confessionale che dopo il rinascimento sembra aver perso l’effettiva universalità, Perniola lo indaga quale forma culturale, evidenziando elementi di continuità con il paganesimo nel supporre un universo colmo d’aspetti del divino. Il carattere essenziale dell’esperienza cattolica è definito da un’impersonalità che mantiene l’idea romana di officium, per cui la forma è inseparabile dalla sostanza. Il rito, quale modalità di agire e pensare del tutto estranea all’impostazione logocentrica e discorsiva del soggettivismo moderno, permette di associare un’equilibrio individuale capace di autovalutazione ad un’azione operativa sul mondo concepito quale differenza.

La virtù teologale della carità, che consiste nel fare del bene ad altri e liberarli dal dolore senza aspettarsi nulla in cambio, trova per Perniola l’applicazione più radicale nel culto dei morti e dei santi, che laddove non è superstizioso è in grado di valorizzare l’uomo oltre il termine dei suoi giorni.

 

4. La morte tra fertilità e smaterializzazione

I nessi tra fertilità e morte dei culti antichi possono essere ripercorsi grazie a James Frazer che, per quanto non considerasse la rilevanza degli aspetti sociali e l’importanza della ricerca sul campo, ha fornito studi ancora maestosi per comparare diverse credenze e riscoprire alcune costanti antropologiche. La storia del grano, che riguarda somiglianze e differenze sulla celebrazione dei raccolti, ne esemplifica i momenti. Tuttavia, se la magia spesso prelude alla scienza, non necessariamente conduce alla religione. Credenze dissociate da una dottrina sopravvivono oggi in semplici rituali quali le libagioni offerte ai defunti in Russia, i doni di dolciumi nel Veneto, i tagli di zucche nel Lazio, convivendo in forme diffuse o personali senza urtarsi troppo con le forme religiose ufficiali e senza dar luogo a nessuna forma di psicosi.

L’esperienza è sempre più articolata di quanto il senso comune possa supporre. Così, non sembra così strano immaginare regioni psichiche simili a gusci vuoti che vagando come desideri perversi abortiti si configurano a simulacro terreno di quell’inferno nel quale la perdita della presenza divina lega eternamente alla caduta e alla pena. La teoria cabalista dei Qlifiphoth decodifica tali regioni nelle forme spettrali dell’Albero della Morte, capaci di provocare infestazioni mentali e follia. Tali manifestazioni sono piuttosto tipiche di chi, credendosi “depositario” di qualcosa che nemmeno capisce, accampa rivelazioni dalle pretese assolute pur se prive di fondamento che spesso coinvolgono qualche defunto o anche divinità perdute.

Ad ogni modo, la modernità formula nuovi riti e nuove credenze e l’organizzazione materiale del tempo presente sfugge al reticolo dei miti che ancora abitano i recessi della psiche. Lo dimostra lo storico Philippe Ariès evidenziando come la visita alle tombe è segno di un rapporto con la morte più spirituale rispetto a quello tipico dei costumi antichi, per i quali i defunti non erano estraniati dallo spazio dei viventi e potevano trovare posto lungo le strade che portavano fuori città, oppure all’interno dei recinti sacri delle chiese. Il mondo moderno perde il rapporto con la morte, estromessa dal mondo dei vivi al punto che anche il lutto e il dolore diventano qualcosa di cui vergognarsi, oppure ridotta a maschera grottesca in modo da rimuovere il suo perenne incombere.

Se l’escatologia si libera dei propri infantilismi e di un naturalismo per lungo tempo primitivo, s’impone un crescente secolarismo per il quale le istituzioni mondane tendono a divinizzare se stesse. L’uomo s’illude così di dominare la vita ma non è più neanche padrone della propria morte e delle concrete circostanze che l’accompagnano, così come invece fu per secoli. Dove si ritiene tutto questo “normale” e applicabile a ogni epoca e circostanza, trascurando lo specifico di altri contesti storici e culturali, si esclude, insieme alla morte, anche la possibilità di risalire alcune diffuse patologie sociali.

Le proiezione si infrangono dove comprendiamo che le concezioni più antiche possono conservarsi e riproporsi anche nel mondo moderno, le cui stratificazioni somigliano a volte davvero a conchiglie incastonate nella roccia di qualche montagna: questo non legittima alcun semplicistico e totalitario arcaismo, ma può ricordare che per tutto c’è una storia da ricostruire. Inoltre, il patrimonio culturale delle religioni riguarda, ne siano interessati o meno, anche gli atei e gli agnostici, ed è proprio la secolarizzazione a comportare una diluizione nel mondo laico di concetti religiosi.

In epoca moderna, l’idea di mondo dei morti simile a quello dei vivi, dove questi mantengono le proprie caratteristiche fisiche, è accuratamente descritto da Swedenborg, autore svedese che parlava con gli angeli e con gli spiriti dei trapassati su una base ad un tempo razionalista e cristiana, non escludendo i pagani dalla salvezza. Le sue visioni, nelle quali agisce l’intenzione di fornire nuove interpretazioni dei testi sacri, possono avere elementi neoplatonici e toni danteschi, opponendo tra loro impulsi malvagi ed esigenze di perfezionamento: «Coloro che hanno passato la loro vita nella voluttà e nelle mollezze e sono stati smodatamente golosi ponendo nelle cose il bene sovrano della vita, nell’altra vita amano le latrine che per loro sono delle delizie; fuggono i luoghi puliti che per loro non presentano alcuna piacevolezza.»

Kant, intenzionato a limitare le pretese metafisiche di conoscere quanto oltrepassa l’esperienza, ironizza su queste visioni al punto di consigliare delle purghe per prevenirne il verificarsi; tuttavia, come segnala Guido Morpurgo Tagliabue, la sua posizione è caratterizzata da singolare competizione: infatti, una conoscenza dell’altro mondo è impossibile per la ragione, ma in quanto ipotesi, e quindi come idea dell’intelletto, permette il perfezionamento umano, rendendo così la metafisica la «compagna della saggezza» che ancora non è. Evidenziando il formarsi del proprio peculiare stile critico, Kant avvisa: «Per scegliere ragionevolmente, si deve prima conoscere anche il superfluo, anzi l’impossibile, ma infine la scienza perviene a determinare i confini ad essa posti dalla natura della ragione umana; tutti i progetti senza fondamento, che forse in se stessi non sono colpevoli d’altro che di essere posti fuori dalla sfera umana, volano nel limbo della vanità.»

In definitiva, tanto il visionario quanto il filosofo possono ancora metterci in guardia contro una diffusa regressione.

 

4.  Annotazioni con o senza zucca

La Halloween new-age integra suggestioni dalle letterature e dai film horror ed elementi popolari quali il taglio delle zucche, introdotto in America a metà ’800. Le vetrine sono addobbate già dal mese precedente e come per il Natale l’aspetto commerciale prevale: sotto questo punto di vista, le feste sono perfettamente equivalenti. Le accuse di satanismo con cui esponenti delle diverse chiese cristiane marchiano la vigilia di Ognissanti sembrano fare perlopiù il gioco del marketing, e limitandosi all’anatema non favoriscono l’inquadramento né della ricorrenza, né dei fenomeni cui allude, propagando l’ebete estraneità del clero alle proprie stesse responsabilità. La domanda è semplice e implacabile: chi sono i morti che oggi festeggiamo?

«Immobili e vaganti» sono I morti che parlano nei versi di Eugenio Montale, immersi nella circolarità temporale del «mare che si frange sull’opposta riva» e in quella spaziale del «cristallo denso dell’azzurra palpebra». La solitudine e la disarmonia che li caratterizza si condensano nell’immagine di un cuore ridotto ad animale prigioniero, «gallinella/ di mare che s’insacca tra le maglie». Non c’è nessun riposo nella terra: una forza «spietata più del vivere» costringe i defunti alle stesse sponde e alle stesse pene dei vivi, perseguitati dai ricordi umani. I morti siamo noi.

Da bambino, leggevo le strisce dei Peanuts, dove si celebra l’arrivo del Grande Cocomero (così deliziosamente veniva tradotto pumpkin) per la vigilia di Ognissanti e, pur non avendo orti di zucche di nessun tipo, cercavo di convincere qualcuno nel seguirmi a fare “dolcetto e scherzetto”: invano. Così, restavo a casa, a pensare al giorno dopo; allora, i miei morti non erano poi molti. Oggi, posso osservare che la gente quando si maschera sembra più sincera e che in sere come quelle succede sempre qualcosa. Enfatizza tale evenienza la concezione neopagana per la quale tra equinozio d’autunno e solstizio d’inverno, durante il quale la vita vegetale prepara il suo ritiro nel mondo sotterraneo, l’astronomia favorisce l’allentamento del diaframma tra dimensioni, permettendo che, sotto la sorveglianza della dea, irrompa un momento fuori dal tempo. Esiste una struttura sacra nella quale la nostra esperienza è compresa.

Tuttavia, tale suggestiva interpretazione decade dove si riesce a comprendere che nelle diverse tipologie del paganesimo storico non sussiste mai lo stesso schema, e che le forme della dea sono più innumerevoli delle immagini delle madonne che ancora ci salutano in ogni via. Pertanto, tale momento è da immaginare come immanente al tempo e sempre pronto a irrompere, così come la morte accompagna la curva dei giorni, presente eppure invisibile, sempre pronta a manifestarsi. E forse, la ragione del successo della festa è nell’offrire alla sensazione di essere come morti, sepolta eppure viva dietro il lusso dei confort male usati e il flusso delle notizie mai comprese, una sorta d’esorcismo che, se non è gratuito, è però piuttosto a buon mercato e di facile acquisto. Halloween è la celebrazione di un’economia che produce morte.

Facendo due conti con i millenni, si può anche concludere che il cristianesimo, nonostante possa sembrare demodè, è più raffinato del pur simpatico fermento paganeggiante, che si affanna ingenuo a cercare nelle condizioni di vita metropolitana una natura tutta sognata e a volte puramente ideologica. Da parte loro, la solennità di tutti i santi e la commemorazione di tutti i fedeli defunti, festività austere, prive di un manifesto carattere ludico e anche di una spiccata caratterizzazione gastronomica (se non nel dolce le fave dei morti che riconferma l’antica  valenza ctonia del legume) sottolineano un concetto piuttosto complesso, ma decisivo: il tempo non ha un solo corso, e interagiscono reciprocamente quello circolare della liturgia che recupera al sacro la ruota delle stagioni, quello lineare dello sviluppo storico, quello escatologico e metastorico che conduce al momento della fine dei tempi. Infine, la resurrezione restituirà ai morti pieno aspetto corporeo. Nel frattempo, siamo di qua: fino a che punto però non siamo anche di là?

 

Lapidografia 

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    Di fronte al fascismo, parte della stampa statunitense azzardò analogie con i protagonisti della propria epopea. Gli Stati Uniti si sentivano vicini all’Italia laddove, usciti dal loro isolazionismo soltanto con la partecipazione alla Grande Guerra, erano passati per un periodo […]

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