Aspetti etici del Testamento biologico

È la linea dove poter decidere la vita e la morte a spostarsi avanti, oppure è la nostra capacità di sentirle quali dono a offuscarsi? Il caso di DJ Fabo (Fabiano Antoniani) ha riportato alle attenzione che, laddove la capacità di controllo della vita ha fatto i suoi passi maggiori nella medicina, la produzione di norme e l’idea stessa di diritto si sono estese alla possibilità di regolamentare e controllare non soltanto salute e malattia, ma lo stesso generare e porre termine all’esistenza. Non è possibile risolvere tali problematiche attraverso dogmi di nessun tipo, né confessionali e nemmeno scientifici e quantomeno mediatici, ed è necessario confrontarsi con loro cause e conseguenze, tanto nel rispetto di ogni caso personale, quanto in relazione ad un disegno sociale collettivo. Sono molte le nuove domande alle quali non si può rischiare di dare risposte vecchie o affrettate, e sulle quali la riflessione va estesa e radicalizzata, in modo da sollecitare soluzioni che abbiano davvero un senso. Occorre così anche chiedersi cosa resti per davvero del libero arbitrio in un mondo dove lo scegliere non sembra rispondere tanto a ragioni o a scopi, quando piuttosto ad una specie di ansia da prestazione che degrada misura e significato dell’esistenza a criteri di mercato, chiedendosi pure, laddove la medicalizzazione della vita perlopiù concepisce il corpo quale cosa e non come vivente e mette al centro più la malattia che la salute, quale possa essere il costo effettivo e di lungo periodo del mettere all’asta la morte e la generazione. Tuttavia, più le questioni sono decisive, più sono inflazionate di chiacchiere, e crescono di continuo tanto la paura di vivere quanto quella di morire, e da queste paure qualcuno sa trarre profitti sicuri, perché anche l’instabilità è un fattore di profitto per chi la sa gestire.

In tale contesto, che è quello di crisi cronica a cui ormai siamo abituati, prevalgono le false alternative di accanimento terapeutico e di mercantilizzazione del suicidio: vanno però ambedue demistificate perché non spiegano gli stessi problemi che pretendono di risolvere, senza neppure permettere di determinare una regolamentazione degna. Diventa così necessario indicare i limiti del discorso e agganciare le questioni ad una riflessione che, invece di giustificare una posizione o l’altra e ridursi a roba da salotto, cerchi di comprendere qual è la posta in gioco traducendola così in leggi coerenti. Tale comprensione è però offuscata dalla capacità di manipolare e isolare ogni singolo caso e da una alienazione senza scampo, che costringono l’opinione pubblica a subire il domani fantasma deciso da un profiling o qualche altro algoritmo, ostacolando le risposte di cui essere partecipi e responsabili. Intanto, a livello di produzione giuridica, in Italia la camera esamina la proposta di legge sul testamento biologico, per cui «ogni persona maggiorenne capace di intendere e volere, in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi» possa esprimere, attraverso disposizioni anticipate, convinzioni o preferenze rispetto a scelte terapeutiche e trattamenti sanitari, comprese idratazione e nutrizione artificiali; inoltre, la persona può nominare un fiduciario per quando non sarà cosciente. Emerge pertanto una differenza sostanziale, dalle implicazioni etiche e giuridiche decisive, tra eutanasia (che nell’accezione contemporanea sembrerebbe configurarsi perlopiù come suicidio e quindi come semplice esaltazione di un diritto individuale asociale estraneo ad una logica relazionare) e testamento biologico (che comprenderebbe i casi di gravi sofferenze fisiche e di rischi per la collettività negati dalla pratica “futile” dell’accanimento terapeutico).

Tali aspetti sono evidenziati in questo scritto del medico e politico Mario Condorelli, la cui preoccupazione principale è nell’individuare gli «aspetti assistenziali e sociali che coinvolgono chi sta per morire e chi è in stato di non autosufficienza cronica, con la finalità di trasformare una malattia fatale o devastante in una fase serena della vita.» E così distinguere la decisione «di morire» rispetto a quella di «come farlo», e mantenerne dignità tanto al vivere quanto al morire.

 

1. Premessa

Il Testamento biologico o dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari è un argomento di grande attualità nel nostro Paese e sono in discussione in Parlamento numerose proposte di legge che si propongono di disciplinare legislativamente questa complessa materia. Già il Testamento biologico è parte integrante della legislazione negli USA, nel Canada, in Australia ed in varie Nazioni europee (Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Belgio), mentre nel Regno Unito è riconosciuto da una consolidata giurisprudenza. La valenza giuridica del Testamento biologico è quanto mai varia da Nazione a Nazione, comprendendo talora disposizioni eutanasiche (ad esempio Olanda, Belgio, Columbia britannica nel Canada).

Prima di entrare nel vivo del discorso sul Testamento biologico o dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari nelle condizioni terminali di vita sono necessarie alcune precisazioni sulle differenze tra eutanasia e Testamento biologico, posto che premessa a tutti i disegni di legge presentati nel Parlamento italiano è il rifiuto di ogni volontà eutanasica della legge.

Il termine «eutanasia» è stato coniato da Bacone, ma il suo senso letterale, che vuol dire «morire bene» (o «morire con dignità», come diceva Bacone), si è ormai perso. Nell’uso popolare eutanasia vuol dire ben altra cosa e cioè «porre deliberatamente fine alla vita», perché si ritiene che in determinate circostanze tale atto sia il solo modo di rendere possibile al malato di morire con dignità, in pace e senza prolungate sofferenze. Esistono diverse forme di eutanasia. L’eutanasia “passiva” consiste nella sospensione del trattamento medico, permettendo al paziente di morire più rapidamente e di porre così fine alle sue sofferenze.

L’eutanasia “attiva” consiste invece nella somministrazione di farmaci, affrettando ed inducendo deliberatamente la morte del paziente. Esiste ancora una forma di eutanasia, definita eutanasia “volontaria”, che viene eseguita non per iniziativa del medico, ma a richiesta dell’interessato. Questa forma di eutanasia è stata per la prima volta codificata dal Natural Death Act istituito nel 1976 in California e dalla legge successivamente approvata in Svizzera. I parametri che autorizzano il medico ad applicare l’eutanasia volontaria sono, secondo il Natural Death Act, il dolore insopprimibile con qualsiasi mezzo, la fatalità della malattia, la condizione terminale, la mancanza di speranza che i mezzi di rianimazione disponibili al momento della decisione portino al ristabilimento di una condizione di vita più sopportabile.

Tale eutanasia è “volontaria” perché la legge consente al paziente da una parte e al medico dall’altra di stipulare un contratto per cui l’interessato rinuncia a qualsiasi mezzo eccezionale di terapia qualora si dovesse trovare nei casi previsti dalla legge e autorizza il medico a non applicarli. L’atto ha valore per cinque anni. Si tratta quindi di una eutanasia “volontaria” di tipo “passivo”. Ritengo, tuttavia, che tra eutanasia “attiva” ed eutanasia “passiva” non vi sia differenza sostanziale: l’astenersi, il “non fare” è sempre un modo di agire e pertanto il ricorrere alla sospensione di cure vitali quando esse non rientrano nella fattispecie dell’accanimento terapeutico denuncia una deliberata volontà di interrompere attivamente la vita del paziente.

Il passo successivo è stato il “Living will” o “Testamento biologico” o «dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari» nelle condizioni terminali di vita, rilasciate dal firmatario in pieno stato di consapevolezza e da applicare quando il sottoscrittore delle dichiarazioni si trova in fin di vita e in stato di incapacità di intendere e di volere. Per non cadere nella fattispecie della “eutanasia passiva volontaria”, il testamento biologico non deve contenere dichiarazioni eutanasiche, mentre deve essere finalizzato esclusivamente al rifiuto del cosiddetto “accanimento terapeutico”, vale a dire delle procedure terapeutiche non proporzionate alle aspettative di salvare la vita, quindi “futili”, che soltanto prolungano e intensificano di per se stesse le sofferenze agoniche.

Tuttavia, nella realtà effettuale una esatta distinzione tra “passiva volontaria”, come previsto nel Natural Death Act, e Testamento biologico non è semplice, sia perché, come vedremo meglio in proseguo, nella pratica clinica può non essere facile talora per un medico o per una équipe medica discernere ciò che potrebbe rappresentare un intervento terapeutico utile e razionale basato su appropriati presupposti scientifici da una procedura terapeutica “futile”, senza sostanziali possibilità di incidere beneficamente sul decorso clinico della malattia, peraltro aggravando e prolungando le sofferenze agoniche del paziente. Inoltre, si potrebbero verificare «conflitti di ordine deontologico» tra volontà del paziente dichiarate anticipatamente e loro applicabilità da parte del medico, il quale potrebbe ritenere utile disattendere tali volontà a salvaguardia della vita del paziente ed in osservanza ad una corretta pratica clinica dettata dalla deontologia.

Al fine di evitare conflitti tra volontà espressa anticipatamente dal paziente e comportamento del medico, tutte le proposte di legge presentate in Parlamento, seguendo la medesima linea delle leggi sul Testamento biologico vigenti in altre Nazioni, prevedono la figura del cosiddetto “fiduciario”, una persona nominata dal firmatario del Testamento con l’incarico di assumere le decisioni in merito all’assistenza e alla cura quando il firmatario del Testamento biologico è in condizioni terminali e incapace di intendere e di volere. Il Testamento biologico si struttura sostanzialmente in due parti: una relativa ai trattamenti sanitari accettati e l’altra alla nomina del rappresentante o fiduciario.

Il punto critico delle proposte di legge sul Testamento biologico è la possibilità di confondere le decisioni su “come morire” (le sole possibili per non incorrere nella fattispecie della eutanasia volontaria passiva) con la decisione “di morire” (che rientra nell’ambito della eutanasia).

 

2. Il fiduciario del firmatario del Testamento biologico

Un ruolo centrale nella legge sul Testamento biologico è svolto dal cosiddetto “fiduciario”, un familiare o una persona non necessariamente legata al firmatario del Testamento da vincoli di parentela nella quale il firmatario ripone la massima fiducia e che si assume la responsabilità di far valere le volontà contenute nella dichiarazione anticipata ove dovessero sorgere dubbi interpretativi sulle reali volontà del paziente.

La figura del fiduciario assume un ruolo biogiuridicamente rilevante solo che la sua funzione non sia meramente quella di pretendere alla lettera l’esecuzione delle disposizioni anticipate e di controllarne la correttezza della applicazione e nemmeno quella di interpretare in modo soggettivo e discrezionale le volontà non esplicitamente espresse dal firmatario nel Testamento, quanto piuttosto quella di garantire che il dialogo “ideale” tra paziente e medico continui attraverso il fiduciario anche dopo che il paziente ha perso coscienza.

Il fiduciario deve aiutare il medico a «tener conto» della volontà espressa e dei valori e delle convinzioni notoriamente proprie della persona precipitata in stato di incapacità, attenendosi alle istruzioni contenute nel testamento di vita, ricostruendone il significato e la valenza autentica e comunque operando nell’esclusivo e migliore interesse dell’incapace, mediando la relazione tra il medico, il contesto sanitario e i familiari. Il difficile compito del fiduciario è quello, come sostiene il documento del Consiglio Nazionale di Bioetica, di verificare che non si applichino pratiche di accanimento terapeutico e di vigilare «contro la concretissima possibilità di abbandono del paziente soprattutto terminale (anche indipendentemente dal fatto che le dichiarazioni menzionino chiaramente l’abbandono)», divenendo «un punto di riferimento per il medico» nella prospettiva di «tutela a tutto tondo della persona del paziente».

Il Comitato Nazionale di Bioetica a maggiore tutela del malato in fase terminale auspica che la legge possa prevedere più di un fiduciario, data la concreta possibilità che colui che è investito di tale responsabilità non accetti il difficile compito. A mio parere, per un principio di “uguaglianza delle opportunità” tra tutti i cittadini, la legge dovrebbe prevedere l’istituzione di un “fiduciario” anche per i malati terminali in stato di incapacità che non abbiano espresso dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari. Tale funzione potrebbe essere svolta da un collegio etico-scientifico, oppure da un fiduciario nominato dal giudice tutelare.

 

3. Genericità del Testamento biologico

La descrizione della condizione che determina l’applicazione del Testamento biologico è vaga e si presta a molte interpretazioni, posto che, come sempre succede nel decorso clinico di malattie di natura diversa ed anche nell’ambito della medesima malattia, la fase considerata “terminale” del decorso clinico può avere durata quanto mai differente; inoltre, il Testamento biologico potrebbe non prevedere tutti i possibili trattamenti terapeutici.

Per ovviare a questo inconveniente si potrebbero redigere Testamenti biologici con descrizioni minuziose delle condizioni che ne determineranno l’applicazione. Tuttavia, anche tale accorgimento non sembra ottimale, sia perché è impossibile prevedere quali saranno tutte le circostanze specifiche che porranno termine alla vita, sia perché quando un paziente è degente in un reparto di terapia intensiva le circostanze descritte nel Testamento in vita non sono necessariamente quelle che il medico registra.

L’ipotesi più probabile è che in fase di redazione il Testamento biologico nella realtà corrente sarà costituito da un modulo precostituito da sanitari contenente dichiarazioni di volontà contro l’applicazione di trattamenti sanitari in condizioni terminali di vita configurabili come accanimento terapeutico, sempre che non rientrino nella fattispecie della eutanasia attiva o passiva.

 

4. Definizione e struttura del Testamento biologico

Il Testamento biologico è una dichiarazione che stabilisce come debbano comportarsi i medici nella fase terminale della malattia di un paziente quando egli non sia in possesso delle facoltà mentali o non sia in grado di prendere decisioni di questo tipo. Da un punto di vista filosofico esso è il corrispondente del consenso informato. La dottrina del consenso informato esiste da tempo e non è controversa. Essa è prassi ormai comunemente accettata e rappresenta il contrassegno della buona pratica nella medicina moderna.

Invece, la dottrina del “rifiuto informato”, cioè del Testamento biologico, si è dimostrata più problematica. Riguardo alla fattispecie delle dichiarazioni anticipate di volontà, con esse si intende ampliare il principio del consenso informato rispetto ai trattamenti sanitari anche alle persone che per un qualunque motivo hanno perso la capacità di esprimersi e sono in una condizione clinica che preclude ogni ragionevole possibilità di recupero della integrità intellettiva e di sopravvivenza a breve termine.

Le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari sono costituite di due elementi. Il primo è la descrizione di una condizione che ne fa scattare l’applicazione (natura della condizione patologica, circostanze che rendono operativo il Testamento biologico), il secondo è un elenco di interventi «che sono esclusi» (cioè che il paziente desidera che non vengano praticati) o «che sono richiesti» (cioè che il paziente vuole che vengano praticati). Questi ultimi di norma riguardano l’uso di sedativi o di analgesici.

 

5. Il «diritto a morire» secondo la Costituzione italiana

Da parte di alcuni giuristi e bioeticisti viene affermato che “il diritto a morire” è sancito in Italia non dalle leggi ordinarie, che nessun riferimento fanno a tale diritto, ma dalla Costituzione, la quale all’articolo 32 recita che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non nei casi previsti dalla legge», precisando altresì che «la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Tuttavia, questo articolo della Costituzione non è stato introdotto dai Costituenti con l’intento di affermare costituzionalmente il diritto a morire, né di fondare il diritto a relazioni mediche orientate al prodursi della morte, vale a dire a consentire una relazione medico-paziente di tipo “contrattualistico”, orientata non già alla tutela della salute, ma al realizzarsi della morte in modo sia “attivo” che “astensivo”.

La norma contenuta dall’art. 32 della Costituzione è stata invece introdotta non per affrontare problematiche riguardanti il rapporto terapeutico tra medico e paziente, ma per precisare che nessuno ha il potere di imporre ad un individuo un intervento rilevante in rapporto alla salvaguardia della sua salute, salvo quando è in gioco l’interesse della collettività (primo comma dell’art. 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»).

Il trattamento sanitario può dunque essere imposto soltanto quando sia “direttamente” in gioco l’interesse collettivo: epidemie, in primo luogo (da qui, con deroghe, la vaccinazione obbligatoria), malattie contagiose e simili. Tuttavia, introdurre nella legislazione il “diritto a morire” e l’autorizzazione legale che la relazione con il medico, una volta instaurata, sia orientata non alla terapia ma alla morte farebbe venir meno un diritto-dovere del medico, nel quadro della posizione di garanzia di cui è titolare rispetto alla salute ed alle sofferenze del malato.

Di fronte ad un malato in condizioni terminali di vita il dovere del medico è quello di effettuare interventi terapeutici “non sproporzionati”, vale a dire che non configurino la tipologia del cosiddetto “accanimento terapeutico”. Il medico, in altri termini, non può essere esonerato dalla responsabilità terapeutica nei confronti del malato, né sul piano deontologico né su quello giuridico.

 

6. Testamento biologico e volontà suicidaria del paziente

Per quanto prima detto, il Testamento biologico non può configurare una vera e propria volontà suicidaria del firmatario, in questo caso anticipata o presunta. Tale volontà potrebbe essere espressione del terrore di una persona rispetto ad uno scenario immaginario di grave sofferenza fisica. Certo, l’eventuale contenuto eutanasico dei Testamenti biologici va sempre considerato inapplicabile, mentre deve essere attentamente tenuta nel dovuto conto l’istanza legittima del paziente di morire senza sofferenza che una dichiarazione di volontà del suddetto tenore alla fine esprime.

Pertanto, la risposta alla istanza eutanasica del paziente va individuata nel ricorso puntuale ed attento alle cure palliative, le quali sono in grado di controllare ogni dolore fisico, di trattare molti casi di sofferenza psichica e di favorire il processo di serena accettazione della difficile situazione umana del morente.

 

7. Dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari: né vincolanti, né obbligatorie

Le dichiarazioni anticipate sui trattamenti sanitari non possono essere che “non vincolanti” e “facoltative” e il giudizio della loro pertinenza deve restare nell’ambito delle competenze del sanitario, o ancora meglio dell’équipe sanitaria, sempre d’intesa con i familiari o con il fiduciario del paziente o, in caso di loro mancanza, con il collegio etico-scientifico.

Il carattere “non vincolante” delle dichiarazioni anticipate deriva da due constatazioni: 1) La non prevedibilità, dato lo stato di inconsapevolezza del paziente, di un’avvenuta mutazione in epoca successiva al Testamento biologico dell’atteggiamento psicologico del paziente in merito alle volontà sui trattamenti sanitari espresse in epoca antecedente in condizioni di consapevolezza e a volte anche di buona salute. 2) Il possibile mutamento del quadro delle terapie praticabili rispetto all’epoca nella quale erano state redatte le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari.

Tra il momento dell’espressione dei desideri e quello della loro eventuale applicazione può essere passato un certo tempo durante il quale la tecnologia medica può essersi evoluta consentendo, ad esempio, la possibilità di applicare trattamenti salva vita che in precedenza non erano disponibili. Tutto ciò comporta, come prima detto, che la pertinenza delle dichiarazioni anticipate rispetto alla situazione concreta resti fondamentalmente affidata ai medici, pur sempre d’intesa con i familiari o con il rappresentante legale del paziente, prevedendo (come indicato anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica, in conformità alla norma corrispondente della Convenzione di Oviedo) la natura “non vincolante” delle eventuali dichiarazioni a contenuto eutanasico o contrarie rispetto ad eventuali trattamenti terapeutici che potrebbero salvare la vita al paziente o comunque prolungare una vita dignitosa, salvo il dovere di motivazione dei medici.

L’elemento di problematicità strutturale e inalienabile di una legislazione sul Testamento biologico rimane la possibilità (che non si può mai escludere di principio) che colui che ha firmato il documento abbia in seguito modificato le proprie volontà non avendone data per tempo notizia e non trovandosi dopo nelle condizioni di esprimerle nella circostanza della loro applicazione. Nel momento della compilazione del Testamento biologico, la volontà è espressa a “mente fredda”, astratta dalla situazione reale e da questa è distante per cronologia e per esperienza, non a caso rivedibile e revocabile solo in condizioni di lucidità.

È indubbio che per quanto il decorso di una malattia sia conosciuto dai medici e per quanto il firmatario del testamento ritenga di poter proiettare le proprie reazioni psichiche rispetto ad una eventuale malattia futura (in contesti mai precedentemente vissuti, molti sono i fattori di imprevedibilità, data la mutevolezza del reale, sia a livello tecnico-sanitario, sia a livello soggettivo psico-emotivo): tale imprevedibilità porta inevitabilmente a non potere calibrare in modo preciso le dichiarazioni anticipate rispetto alla ipotetica situazione futura.

Ancora, è del tutto ovvio che l’espressione di dichiarazioni anticipate non potrà che rimanere totalmente libera e discrezionale. Il cittadino non può essere paradossalmente privato, in nome dell’autodeterminazione, del diritto di affidarsi ai criteri ordinari di diligenza e perizia che devono informare la prestazione dell’attività sanitaria, venendo in tal senso obbligato a prevedere rispetto ad una situazione futura e incerta (quale che sia il suo livello di preparazione in ambito medico) specifiche modalità dell’intervento sanitario.

Ciò finirebbe davvero per ledere il diritto costituzionale alla tutela della salute. La garanzia degli strumenti proporzionati alla salvaguardia della salute, dell’integrità fisica e, pertanto, della vita non può essere condizionata a obblighi di dichiarazione. La discrezionalità del Testamento biologico o, più chiaramente, la libertà tutelata dei cittadini a non enunciare dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari non può costituire motivo di disuguaglianza tra cittadini sottoscrittori e non sottoscrittori di un Testamento biologico.

Se così fosse, si farebbe una legge “elitaria”, riservata alle persone di livello culturale tale da formulare in modo appropriato un Testamento biologico e non indistintamente a tutti i cittadini, anche a quelli incapaci di comprendere con piena ed autonoma consapevolezza nonché di pronunciarsi correttamente circa tale per chiunque non facile problematica per le notevoli e difficili implicazioni di ordine psicologico, tecniche e scientifiche che essa comporta. Vi è, inoltre, il rischio concreto in questi ultimi casi che il Testamento venga in realtà dettato dal medico di fiducia del firmatario oppure da quest’ultimo copiato da un modello prefigurato, vale a dire il rischio concreto che il Testamento esprima la volontà di una persona diversa dal firmatario.

Al fine di evitare tali discriminazioni e tali rischi, posto che, come prima detto, il Testamento biologico non può essere obbligatorio, la legge dovrebbe prevedere la nomina di un fiduciario del paziente nominato dal giudice tutelare o affidare tale compito ad un collegio etico-sanitario per tutti i cittadini che non abbiano espresso anticipatamente dichiarazioni di volontà sui trattamenti sanitari e che si trovino in fin di vita in stato di incapacità di intendere e di volere, ferma restando comunque la regola deontologica, che a maggior garanzia dovrebbe essere trasformata in norma legislativa, di una interazione obbligatoria tra équipe sanitaria da una parte e familiari o fiduciario del paziente dall’altra.

 

8. Il Testamento biologico contro l’eutanasia

Per i motivi prima detti, la legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari non deve essere ambigua, tale da costituire una surrettizia autorizzazione alla eutanasia passiva volontaria, ancorché essa formalmente si pronunci contro l’eutanasia; ossia la legge non può autorizzare l’anticipazione intenzionale, omissiva o attiva, della morte naturale del paziente allo scopo di alleviarne la sofferenza. Il Testamento biologico non deve offrire vie indirette o nascoste per l’introduzione di pratiche eutanasiche, ma deve affermare il divieto dell’eutanasia in tutte le sue forme, un concetto questo già peraltro implicito nel nostro ordinamento giuridico.

Si tratta di un divieto motivato da una ragione giuridica, essendo l’eutanasia contraria al principio della indisponibilità della vita umana espresso nella Costituzione e nei diritti umani fondamentali; un divieto peraltro motivato anche da una ragione deontologica, prescrivendo la deontologia medica la cura del malato e non la sua eliminazione, seppure richiesta.

Pertanto, una legge che regoli il Testamento biologico non può significare l’introduzione del diritto di “autodeterminazione” (individuale e autoreferenziale) a scegliere come e quando morire, sulla base di parametri solo soggettivi: a ben vedere, chi ritiene che il Testamento biologico sia una legittimazione del principio di autodeterminazione individuale alla vita e alla morte non dovrebbe limitarsi a chiedere la legittimazione di morire in determinate circostanze di malattie ritenute dal soggetto inaccettabili, ma coerentemente potrebbe allargare il discorso anche a circostanze di non malattia. L’esaltazione del principio di autodeterminazione nel morire significa esaltazione di un diritto individuale asociale, incompatibile con la logica relazionale intrinseca del diritto.

Il nostro ordinamento giuridico positivo contiene norme che definiscono la morte (morte cerebrale totale e irreversibile), che vietano la disponibilità del proprio corpo in vita e che puniscono l’omicidio e l’omicidio del consenziente, l’omissione di soccorso, l’istigazione e l’aiuto al suicidio. Sono norme diverse, ma il cui filo conduttore è la protezione della vita umana e l’indisponibilità della vita umana (da parte dell’individuo e da parte di altri), riconosciute come bene umano obiettivo o «minimo etico» che il diritto è chiamato a tutelare in modo forte nella società civile al fine di garantire la giustizia, in armonia con quanto riconosciuto dai diritti umani fondamentali.

Allora, una legge sul Testamento biologico, anche se non strettamente necessaria, perché le regole del comportamento deontologico di sanitari rispetto all’accanimento terapeutico devono valere per tutti i cittadini, siano essi o non firmatari di un Testamento biologico, potrebbe essere utile per esplicare e articolare i «principi biogiuridici alla fine della vita» (peraltro già impliciti nell’ordinamento giuridico) e per precisare e specificare la regolamentazione dei comportamenti individuali di fronte alla disponibilità di nuove tecnologie alla fine della vita umana, rispondendo anche alle istanze sociali emergenti e ai dilemmi frequenti della prassi sanitaria.

A questo punto dobbiamo chiederci: quale legge sul Testamento biologico risponde ai suddetti requisiti? Il Testamento biologico, per quanto prima detto, non può contenere qualsiasi contenuto determinato arbitrariamente dal soggetto firmatario che vincola insindacabilmente un medico all’osservanza delle sue direttive, chiedendo ad un «terzo» di controllarne l’applicazione ed eventualmente interpretarla discrezionalmente: il Testamento biologico ha una rilevanza giuridica (sociale, pubblica, civile) «autentica» solo se si inserisce in un orizzonte ben preciso nel rispetto di alcune condizioni imprescindibili quali il bene umano obiettivo, la giustizia e i diritti umani fondamentali.

Cosa allora può esprimere il Testamento biologico? Esso potrebbe costituire una possibilità per esprimere – in sintonia con quanto in modo chiaro enunciato dal Consiglio Nazionale di Bioetica («ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può legittimamente esprimere la propria volontà attuale») – le proprie «preferenze nel morire» (non «a» morire) o «dopo la propria morte».

Nel Testamento biologico il soggetto può legittimamente esprimere il suo diritto a non soffrire (il diritto a ricevere e implimentare le cure palliative e la terapia del dolore), il diritto ad avere un trattamento che tenga sempre in considerazione le sue preferenze nell’approssimarsi della morte (la domiciliazione o la ospedalizzazione, la vicinanza di parenti, il tipo di assistenza psicologica o religiosa), il diritto a specificare personalmente le modalità che a suo parere umanizzano la “sua” morte per un “dolce” accompagnamento nel morire, il diritto a non essere abbandonato terapeuticamente, oltre al diritto ad esprimere le proprie preferenze dopo la morte sulla donazione di organi, sulla disponibilità del cadavere a scopi sperimentali o didattici, sulle modalità di sepoltura. Ma il Testamento biologico dovrebbe essere soprattutto una legge contro l’accanimento terapeutico.

 

9. Il Testamento biologico contro l’accanimento terapeutico

La legge sul Testamento biologico deve pronunciarsi esplicitamente contro il cosiddetto “accanimento diagnostico e terapeutico”. La valenza autenticamente biogiuridica del Testamento biologico è la possibilità per un soggetto di esplicare la sua contrarietà non solo rispetto all’eutanasia ma anche all’accanimento terapeutico. Per “accanimento terapeutico” si intende l’uso di terapie futili, inutili, ingiustificate e dannose e “sproporzionate”, ossia terapie, disponibili nel momento della loro applicazione, considerate dall’équipe medica inadeguate in relazione al raggiungimento di un determinato obiettivo di salute e di sostegno vitale del paziente sulla base della valutazione di una serie di parametri: la disponibilità e la reperibilità dei mezzi terapeutici, la possibilità tecnica di usare i mezzi, le ragionevoli aspettative reali dei mezzi in ordine alla peculiare situazione clinica, gli effetti collaterali con particolare riferimento alla sofferenza e alla qualità della vita del malato, i prevedibili rischi, la possibilità di alternative terapeutiche, le quantificazioni delle risorse sanitarie.

Oggi, più che di “accanimento terapeutico”, si preferisce parlare di “trattamento futile” (futility). Il concetto di “futilità” medica è inteso come una condotta di trattamento non in grado di portare cambiamenti fisiologici, né miglioramenti qualitativi della vita.

Ciò premesso, deve essere detto che è molto difficile, se non impossibile, arrivare ad una definizione legislativa univoca di accanimento terapeutico, dato che determinate terapie possono risultare accettabili e sopportabili per una persona, ma assolutamente esagerate, sproporzionate rispetto ai risultati attesi e non tollerabili per un’altra. La definizione di “accanimento terapeutico” ha quindi degli aspetti oggettivi ma anche degli aspetti soggettivi. Ciò non significa che l’accanimento terapeutico debba ricadere nella mera “discrezionalità” del medico, ma che è indubbiamente il medico, o meglio ancora l’équipe medica, che si deve coscienziosamente porre sempre questo problema, tenendo conto sempre, come più volte precisato, delle volontà anticipatamente espresse dal paziente e in loro assenza dell’opinione dei congiunti del paziente o del suo fiduciario o del collegio etico-sanitario.

L’interruzione di procedure mediche “sproporzionate” rispetto ai risultati attesi è anche sollecitata dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Secondo la Chiesa cattolica l’interruzione di procedure mediche pericolose e straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha la competenza, o altrimenti da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà del paziente espressa entro i limiti della legge.

Oltre alle difficoltà di una definizione legislativa di accani- mento terapeutico, esistono difficoltà di ordine applicativo clinico, soprattutto per quanto riguarda il momento opportuno (timing) della sospensione dei trattamenti terapeutici. Non infrequentemente per il medico è difficile stabilire di fronte ad un malato critico quando un’azione terapeutica è utile o quando essa è inutile, oppure quando tale azione da “atto medico” può trasformarsi in “accanimento terapeutico”. La progressione verso la morte non è sempre un processo costantemente progressivo. Esso può essere un ondeggiare, un andare avanti ed un tornare indietro, per cui non è facile per il medico decidere se il malato va veramente verso il “non ritorno” per sospendere quindi tutte quelle pratiche terapeutiche che potrebbero rientrare nell’ambito dell’accanimento terapeutico.

Il Testamento biologico quale esplicitazione del rifiuto dell’accanimento terapeutico ha una rilevanza rafforzativa in senso pubblico e civile della deontologia medica (che già condanna l’accanimento terapeutico) e della riflessione bioetica: fermo restando il principio che il rifiuto dell’accanimento terapeutico vale e deve valere anche per chi non sottoscrive un Testamento biologico. Tale concetto dovrebbe essere ben specificato in una legge sul Testamento biologico perché sarebbe estremamente pericoloso che la legalizzazione del Testamento biologico portasse con sé l’idea che chi non rifiuti esplicitamente l’accanimento terapeutico sottoscrivendo il Testamento biologico implicitamente accetti l’accanimento terapeutico.

La valenza biogiuridica del Testamento biologico non è, tuttavia, soltanto l’affermazione esplicita di contrarietà alle situazioni obiettive di accanimento terapeutico che ogni medico dovrebbe sempre osservare a prescindere dal Testamento biologico, ma è anche e soprattutto la possibilità di espletare e specificare le preferenze di fronte ad eventuali alternative terapeutiche, il proprio vissuto rispetto al dolore fisico (definito dalla soglia soggettiva di sopportabilità della sofferenza), la ripugnanza rispetto a possibili mezzi, la non accettazione degli alti rischi di taluni interventi, della percezione di una scarsa “efficacia globale” dell’intervento (a prescindere dall’efficacia medica), secondo la scala di valori del soggetto.

Va comunque precisato che, pur esistendo parametri oggettivi nella determinazione dell’accanimento terapeutico a cui il medico è bioeticamente e deontologicamente chiamato ad attenersi, esiste una difficoltà nella specificazione nel momento della redazione del Testamento biologico della esatta definizione dei principi delle singole situazioni concrete. Pertanto, il Testamento biologico può consentire al soggetto di esprimere le sue preferenze al rifiuto di terapie che possono rientrare nell’ambito dell’accanimento terapeutico e di cui l’équipe sanitaria è chiamata a “tener conto”, ma spetta a tale équipe il giudizio sulla pertinenza delle cure nel momento in cui essa dovrà prendere decisioni complesse in situazioni critiche terminali.

Allora, la redazione e la sottoscrizione del Testamento biologico possono consentire al soggetto di esprimere la propria volontà, proiettandola in una situazione in cui la volontà è inesprimibile, rivolgendo al medico le proprie istanze, esprimendo i propri valori, affidandogli i propri desideri e le proprie preferenze rispetto a situazioni in cui la scelta se curare o non curare, se trattare o non trattare è estremamente problematica o addirittura può costituire un dilemma per gli operatori sanitari.

Vi sono altri due motivi di ordine pratico per i quali la decisione ultima sulla scelta delle misure terapeutiche da eseguire in un paziente in fin di vita e privo di conoscenza che abbia sottoscritto un Testamento biologico spettano alla équipe sanitaria. Il primo è che, come prima detto, tra il momento in cui il paziente ha espresso le sue dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari e il momento critico della esecuzione testamentaria di tale volontà siano stati scoperti procedimenti salva vita che potrebbero essere applicati con successo al paziente firmatario del Testamento biologico.

Sta ovviamente alla sensibilità e alla correttezza deontologica del medico, o meglio ancora della équipe medica, informare adeguatamente i parenti o il “fiduciario” del paziente su queste nuove possibilità terapeutiche. Il secondo è che se il medico diviene un semplice esecutore di volontà già sottoscritta la relazione medico-paziente possa essere orientata, in modo attivo o astensivo, non alla tutela della salute ma verso il realizzarsi della morte del paziente. La riduzione a tale ruolo del medico potrebbe comportare un grave calo nella tensione alla ricerca di terapie di emergenza innovative. La specificità della relazione medico-paziente consiste nella difesa della vita e della integrità fisica del paziente e non può essere in un attimo spazzata via da una concezione puramente “contrattualistica” di un tale rapporto.

 

10. Idratazione e nutrizione artificiali nel malato terminale

Una questione di cruciale importanza tuttora dibattuta è se l’alimentazione e l’idratazione artificiali del paziente terminale rientrino nell’ambito dell’accanimento terapeutico. L’alimentazione e l’idratazione artificiali, eseguite per via endovenosa o meglio ancora per via enterale con sondino naso-gastrico o con la PEG (sigla inglese che indica “gastrotomia percutanea endoscopica”), consentono di soddisfare i bisogni nutrizionali dei pazienti che non sono in grado di alimentarsi per via orale. Si tratta di procedure di semplice esecuzione e facilmente gestibili anche a domicilio, che consentono di migliorare la qualità della vita del paziente. L’alimentazione e l’idratazione non sono “terapie” in senso stretto, né tantomeno terapie “sproporzionate”.

Esse, invece, rappresentano una forma assistenziale di base che può essere meglio definita “alimentazione-idratazione per altra via”, dal momento che non è praticabile per via orale. Esse costituiscono un mezzo di sostegno vitale, come per ogni altra persona sana o malata che sia. Se è vero che la sospensione della nutrizione e della idratazione artificiali affretta il processo della morte, è anche vero che esse non interferiscono nella etiopatogenesi della malattia, incidendo inoltre scarsamente sul decorso clinico della malattia terminale. Peraltro, la soppressione della idratazione per via parenterale provoca certamente sofferenze dell’organismo che non siamo in grado di escludere allo stato attuale delle nostre conoscenze se siano avvertite o non dal corpo di un malato in stato di incoscienza.

A ben guardare, la soppressione della idratazione per via endovenosa potrebbe sortire un effetto opposto alla finalità della legge sul Testamento biologico che è quella di evitare o ridurre fortemente la sofferenza dell’organismo nella fase terminale di una malattia. Concordo a tale proposito con quanto espresso dalla Santa Sede nel paragrafo 120 della Carta degli operatori sanitari pubblicata nel 1994 dal Pontificio Consiglio della Pastorale per gli operatori sanitari.

Il paragrafo dice: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia». Un’analoga posizione è stata assunta dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 2005 (L’alimentazione e l’idratazione dei pazienti in stato vegetativo permanente), secondo il quale non deve essere mai richiesta l’interruzione di quelle cure, sempre dovute, le quali garantiscono ciò che è necessario per vivere ad ogni individuo, come l’idratazione, l’alimentazione e la respirazione, «salva pur sempre la necessità di valutare se siano proporzionate, nel caso concreto, le modalità (ad esempio chirurgiche) d’intervento che risultino necessarie per attivarla».

Ancora una volta, spetta alla valutazione dei sanitari d’intesa con i familiari o con il fiduciario del paziente oppure con il collegio etico-sanitario graduare la «gravosità» di tali procedure e stabilire quando esse eventualmente rientrino nell’ambito dell’accanimento terapeutico.

 

11. La sospensione della respirazione artificiale

Un approfondito dibattito giuridico ed etico merita la problematica della sospensione della respirazione artificiale nei pazienti tanto in stato di incoscienza quanto in stato di coscienza. Solo la prima condizione clinica può essere messa in discussione nell’ambito della legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari che si applica quando il paziente è in stato di incapacità di intendere e di volere e in fin di vita.

La sospensione della respirazione artificiale in un paziente in condizioni terminali di vita, senza alcuna possibilità di miglioramento clinico e in stato di incapacità di intendere e di volere, sia che abbia o non espresso in precedenza la volontà di non essere sottoposto a respirazione artificiale, potrebbe essere attuata solo se si configura in una determinata condizione clinica, secondo parere unitario di un collegio etico-sanitario, come accanimento terapeutico.

Se manca tale presupposto, la sospensione della respirazione artificiale rientra nella fattispecie della eutanasia passiva volontaria, vietata dalla nostra legislazione ordinaria e contraria alla nostra Carta Costituzionale. Peraltro, un forte impedimento alla sospensione della respirazione artificiale in un paziente con incapacità di intendere e di volere deriva dalla stessa legge che definisce il concetto di morte cerebrale e le sue procedure di accertamento e che autorizza la sospensione della respirazione artificiale solo se risultino documentati da una apposita commissione medico legale per l’accertamento della morte i criteri di certezza della perdita totale e definitiva dell’attività cerebrale.

Non vi è tuttavia dubbio che la respirazione artificiale in un paziente terminale incapace ma che non presenta i criteri clinici-strumentali di morte cerebrale potrebbe comportare sofferenze avvertite dall’organismo. Al fine di evitare dubbi interpretativi ed evitare abusi od omissioni e con il rischio di incorrere nel reato di eutanasia sarebbe opportuno un atto legislativo specifico che autorizza nei malati terminali e in stato di incoscienza la sospensione della respirazione artificiale sempre che essa rientri nell’ambito dell’accanimento terapeutico, sulla base comunque di un parere espresso da un collegio etico-sanitario con il consenso dei familiari o di un fiduciario nominato dallo stesso paziente o da un giudice tutelare.

Una problematica bioetica-giuridica differente dalla precedente è quella del paziente tetraplegico e in stato di piena coscienza la cui sopravvivenza dipende dalla respirazione artificiale, oltre che dalla idratazione e dalla nutrizione artificiali. Anche su questo aspetto il parere degli eticisti e dei giuristi è contrastante. Vi è chi ritiene legittimo il diritto del paziente al rifiuto della respirazione artificiale, essendo questa un trattamento sanitario e rientrando quindi nella regolamentazione del consenso informato che permette ad ogni persona l’accettazione o il rifiuto di cure anche salva vita, purché tali volontà siano espresse nella piena capacità di intendere e di volere.

Non si vede d’altra parte la ragione per la quale un paziente lucido possa rifiutare la respirazione artificiale solo al momento iniziale della sua applicazione (che richiede peraltro obbligatoriamente il consenso informato) e non anche successivamente ed essere pertanto costretto a subirla continuativamente senza possibilità di revoca. Vi è invece chi ritiene che il medico che soddisfa l’istanza del paziente di arrestare la respirazione compia un reato di eutanasia e di aiuto al suicidio, considerando il venire incontro a tale istanza del paziente un atto contrario al principio costituzionale della indisponibilità della vita umana.

A mio avviso, ciò che è giuridicamente determinante è la volontà della persona nel pieno delle sue capacità di intendere e di volere di accettare o rifiutare una procedura terapeutica – e la respirazione artificiale deve essere considerata tale – e non la “manualità” della esecuzione di tale atto il quale non può esser effettuato se non da interposta persona (personale sanitario) quando il paziente è tetraplegico o comunque impossibilitato all’uso degli arti superiori, meri strumenti meccanici fisiologici di esecuzione del pensiero, così come lo è il parlare.

Deve pertanto prevalere, a mio giudizio, il principio che la decisione della sospensione della respirazione artificiale da parte di una persona con piene facoltà mentali rientra a pieno titolo nel diritto sancito dal comma secondo dell’art. 32 della Costituzione («Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun modo violare i limiti posti dal rispetto della persona umana»), che consente alla persona di rifiutare cure ritenute dalla medesima persona dolorose, non tollerabili, angoscianti e non attenuabili con ogni altro rimedio.

Sono tre i requisiti irrinunciabili e ineludibili sui quali deve essere necessariamente basato il parere favorevole della Commissione etico-scientifica sull’istanza del paziente che richiede la sospensione di terapie vitali e tra esse la respirazione artificiale: 1) l’accertamento dello stato di piena capacità di intendere e di volere del paziente; 2) la convinzione che l’istanza del paziente non sia suggerita da una condizione solo momentanea di grave sconforto e depressione; 3) la mancanza di ogni elemento che osti contro le norme del nostro diritto positivo, le quali, come prima ricordato, vietano la disponibilità del proprio corpo in vita e puniscono l’omicidio, l’omicidio del consenziente, l’omissione di soccorso e l’aiuto al suicidio.

L’apparente contrasto nel nostro ordinamento giuridico tra le norme che consentono il rifiuto dei singoli a trattamenti sanitari, quando essi non vanno contro l’interesse della collettività, e le norme che sanciscono l’indisponibilità del proprio corpo in vita da parte dell’individuo e da parte di altri, e di conseguenza il diritto di autodeterminazione (autoreferenziale e incompatibile con la logica relazionale intrinseca del diritto) a scegliere come e quando morire sulla base di parametri soggettivi, trova il suo punto di pacificazione nel diritto individuale a chiedere la sospensione di trattamenti sanitari quando questi siano riconosciuti “futili” e “gravosi” non dal richiedente ma da parte di una Commissione di esperti accreditata a concedere o negare la sospensione del trattamento sulla base dei sopraelencati requisiti indispensabili.

Ad una fattispecie diversa appartiene invece la condizione di un paziente in stato di incoscienza, in trattamento con respirazione artificiale e nutrizione parenterale sia che abbia o che non abbia sottoscritto un documento di dichiarazioni anticipate di volontà. In questi casi è la “futilità” e la “gravosità” delle cure che devono profilarsi come accanimento terapeutico che devono guidare il comportamento dei sanitari e dei rappresentanti legali del paziente in merito alla interruzione dei trattamenti sanitari.

Sarebbe, tuttavia, opportuna una normativa giuridica generale contro l’accanimento terapeutico di per se stesso, al fine di rendere uguale per tutti i cittadini, indipendentemente dall’avere o non essi dichiarato anticipatamente le proprie volontà anticipate, il comportamento dei medici nei confronti del malato terminale. Si eviterebbe così una legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà che concretamente potrebbe incorrere nel rischio di divenire una legge “elitaria”, per persone acculturate, e non per tutti i cittadini, compresi quelli che non hanno un grado di cultura sufficientemente adeguato a formulare di propria spontanea volontà, in piena autonomia e consapevolezza e senza sollecitazione e tanto meno dettatura di medici o di chiunque altro, specifiche norme sui limiti del trattamento sanitario in fin di vita e in stato di incoscienza.

Ribadisco che l’intera complessa problematica sui limiti della applicazione della respirazione artificiale tanto nei pazienti terminali in stato di incapacità di intendere e di volere senza riguardo a dichiarazioni anticipate di volontà, quanto nei pazienti tetraplegici in stato di piena consapevolezza merita di essere specificamente oggetto di una profonda riflessione eticogiuridica e di provvedimenti legislativi ad hoc, ispirati soprattutto a principi di umanità e di pietà nonché conformi al dettato della nostra Carta Costituzionale.

Certo esistono condizioni drammatiche come quelle delle paralisi ascendenti (sclerosi laterale amiotrofica, malattia del motoneurone, sindrome di Barrè, ecc.), nelle quali il paziente viene profondamente colpito nella sua dignità di persona, divenendo progressivamente totalmente incapace di provvedere autonomamente alla igiene personale, ai bisogni corporali, alla nutrizione e alla idratazione e, ad un certo punto della evoluzione peggiorativa della malattia, alla respirazione. In tali casi, come prima detto, il diritto al rifiuto alla respirazione artificiale espresso in piena lucidità, anche se attuato da altra persona per incapacità motoria del paziente, sembra rientrare legittimamente nella fattispecie giuridica della disciplina del consenso informato.

Tuttavia, si deve tener conto del fatto che una richiesta di tale portata da parte di un malato esprime uno stato di grave sconforto che potrebbe essere transitorio se adeguatamente lenito da un più attento sostegno psicologico, oltre che da una più intensa ed efficace assistenza sanitaria e infermieristica. Comunque, una decisione così grave che interrompe immediatamente la vita di un paziente, quale l’arresto della respirazione artificiale, non può essere lasciata ad un solo sanitario o ad una équipe medica, né meramente al libero arbitrio di un paziente, non sempre pienamente lucido e sempre profondamente depresso, ma deve coinvolgere, oltre i familiari e il fiduciario del paziente, un comitato etico-scientifico di alto profilo, il quale, prima di decidere, affronti in profondità tutti gli aspetti sanitari, etici, giuridici e psicologici nelle singole quanto mai diverse circostanze e dopo avere più volte interrogato il paziente.

 

12. Conclusioni

Vorrei concludere queste brevi considerazioni etico-giuridiche sulle dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari con due osservazioni. Nel nostro Paese ancora troppo poca attenzione è stata rivolta alla organizzazione della assistenza ai malati terminali. La soluzione degli Ospices, peraltro neppure diffusamente attuata, non è pienamente conforme alla nostra cultura. Molti sforzi e molti progressi devono essere fatti nel campo della assistenza domiciliare e ospedaliera ai malati in fase terminale, in quelli in stato vegetativo cronico, in quelli coscienti ma non autosufficienti e in quelli tetraplegici mantenuti in vita con respirazione artificiale e con nutrizione ed idratazione per via parenterale.

Molto ancora si deve fare per il più largo impiego dei metodi di controllo del dolore e per tutto ciò che riguarda l’intervento dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, dei care givers nell’offrire la migliore assistenza possibile ai malati in fase terminale e in stato cronico di non autosufficienza e ai loro congiunti.

Sarebbe necessario, prima di porre mano a provvedimenti legislativi, conoscere bene e mettere bene a fuoco tutti i problemi che in Italia riguardano la qualità dell’assistenza ai malati terminali e ai malati non autosufficienti cronici. Si tratta di conoscere la dimensione e la qualità della epidemiologia di queste categorie di pazienti, la quantità e la qualità di assistenza idonea a tali pazienti nelle strutture sanitarie pubbliche e accreditate e allo stesso domicilio dei pazienti; di provvedere alla formazione adeguata del personale addetto ai malati in fase terminale e a quelli non autosufficienti; di facilitare l’accesso ai luoghi di cura per trattamenti di alta specialità e di lunga durata ai pazienti non autosufficienti, senza sottrarre spazi, letti ed attività alle terapie intensive.

Sono tutti aspetti assistenziali e sociali che coinvolgono chi sta per morire e chi è in stato di non autosufficienza cronica, con la finalità di trasformare una malattia fatale o devastante in una fase serena della vita.

Sono problemi di cui una Nazione civile deve farsi carico prima di procedere alla emanazione di leggi che favoriscono l’interruzione dei trattamenti sanitari nei malati terminali o, come è avvenuto in alcuni Paesi, addirittura l’eutanasia e suoi surrogati. Ciò è tanto più importante quanto più è in forte aumento la popolazione anziana. Nei Paesi nordici, dove l’eutanasia è divenuta legge, incidono anche considerazioni di ordine economico finalizzate al risparmio di spesa sanitaria nelle persone che non sono più capaci di produrre.

È tuttavia confortante e promettente il fatto che in Olanda, che è stato il primo Paese europeo ad introdurre nella sua legislazione l’eutanasia e nel 2002 il suicidio assistito, vi è stata una sensibile riduzione di chiamate per eutanasia (da 2.123 del 2000 a circa 1.600 nel 2005). Tale fenomeno è stato soprattutto attribuito al maggior ricorso alla sedazione terminale che annulla il dolore ed attenua lo stato di coscienza del malato e al maggior ricorso alle cure palliative.

In definitiva, sembra quanto mai opportuna una legge a tutela dei diritti e della dignità della persona in condizioni terminali di vita, rivolta specificamente ad evitare l’accanimento terapeutico. Tale disposizione legislativa deve tuttavia valere per tutti i cittadini, indipendentemente dall’avere o non espresso dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari. Perciò è necessario che la legge non assuma un carattere “elitario”, volto alla difesa delle sole persone capaci di formulare appropriate dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti terapeutici.

La definizione legislativa di accanimento terapeutico dovrebbe esplicitare il concetto di “futilità” delle cure senza peraltro scendere nel dettaglio sulla natura dei trattamenti sanitari da escludere, mentre la valutazione concreta della eventuale “futilità” dei trattamenti terapeutici dovrebbe essere affidata ad un collegio etico-sanitario che deve tenere conto delle volontà del paziente, purché non suicidarie, e interagire sempre con il “fiduciario” testamentario del paziente o con i suoi familiari. Per quanto riguarda invece la problematica della respirazione artificiale nei pazienti in stato vegetativo cronico o tetraplegici in stato di piena consapevolezza, essa dovrebbe essere trattata specificamente in altri provvedimenti legislativi.

Ribadisco, infine, la necessità che nel nostro Paese si faccia un’approfondita indagine epidemiologica e sociosanitaria sui bisogni assistenziali dei malati terminali e dei malati cronici in stato di grave non autosufficienza, estesa anche alle condizioni dei familiari. Tale indagine potrebbe costituire la premessa per provvedimenti legislativi di natura sanitaria e sociale rivolti al sostegno delle persone in condizioni terminali di vita e dei loro familiari.

«Studium», Bimestrale di cultura fondato nel 1906, ISSN 0039-4130, anno 105° n. 3, maggio/giugno 2009, pp. 327-348.

Illustrazione: Neil Gaiman – Chris Bachalo, “Death – The high cost of living”, DC Comics – Vertigo, marzo-maggio 1993.

  • urna

    Profilazioni predittive e comportamenti elettorali

    Denunciare una realtà e svelarne il nome, piuttosto che assecondare luoghi comuni, significa iniziare a trasformarla. Svelare l’ideologia implicita della digitalizzazione, e demistificare le illusioni di progresso sociale e di smisurata libertà di Internet, può contribuire a tutelare e proteggere […]

  • Tomas_particolare

    Frammenti di Tomàs

    «Speravo che si aprisse sotto di me un baratro, un inferno in cui nascondermi e da cui rinascere dopo molte generazioni.» In una città sul mare il sogno di un autocrate ambizioso e senza scrupoli sta per realizzarsi. L’apparizione di una […]

  • Old_City_of_Jerusalem

    Gerusalemme: guida possibile alla terra negata

    Dichiarazioni americane e conseguenze mondiali. Storia di una città, dei suoi popoli e dei suoi monumenti. Parcellizzazione dei Luoghi Sacri e parzialità dei poteri umani.   1. La città senza pace La storia ha già dimostrato quanto sia difficile pretendere, senza […]

  • Angel-o

    Le nature spirituali di Enrico Fraccacreta

    Enrico Fraccacreta è nato nel 1955 a san Severo (Foggia) da padre pugliese e madre emiliana. Compie i suoi studi universitari a Firenze e Bologna, dove partecipa al movimento del Settantasette. Laureato in Agraria, è appassionato di botanica. La natura, […]

  • paolo_pedrizetti_14_Maggio_1977

    Premonizioni del Settantasette

    Se forse gli anni settanta non iniziano con le rivolte del 1968 ma vi trovano la loro origine mitica, probabilmente finiscono come in una tragedia greca con il 1977. Segnala Nicola Tranfaglia che in tale pagina «in buona parte ignota […]

  • kalinin-lenin-trotzki

    Colpo di Stato in Russia

    Tra le testimonianze della rivoluzione russa, quella offerta da Tecnica del colpo di Stato, pubblicato da Curzio Malaparte a Parigi nel 1931 e dato alle stampe in Italia soltanto nel 1948, presenta la singolarità di metterla in sequenza con altre […]

  • Vetrata Palma di Montechiaro (AG)

    Piotr Merkurj: la pittura della luce

    Un pittore russo tra Oriente e Occidente. Pensare le icone, dipingere nel pensiero. Dialogo su luce e materia, forma e colore, spiritualità dell’arte, autonomia della cultura.   «Il disegno è una scienza se esplora l’anatomia con la precisione del tratto, una deità se suggerisce il […]

  • Catalogna_protesta

    Catalogna. La costruzione di un regno inesistente

    Dopo la fuga di Puigdemont in Belgio, accusato di ribellione, sedizione e malversazione insieme ad altri esponenti indipendentisti, e la sua dichiarazione di non presentarsi ai giudici di Madrid, si può considerare chiusa una prima fase dell’autoproclamatasi Repubblica di Catalogna. Questa, bocciata all’unanimità […]

  • olio_di_ricino

    I giornalisti americani e il giornalismo fascista

    Di fronte al fascismo, parte della stampa statunitense azzardò analogie con i protagonisti della propria epopea. Gli Stati Uniti si sentivano vicini all’Italia laddove, usciti dal loro isolazionismo soltanto con la partecipazione alla Grande Guerra, erano passati per un periodo […]

  • Fascist Architecture in Washington - Lisner Auditorium (1941-1943) by Faulkner & Kingsbury

    Affinità e divergenze tra fascismi e New Deal

    Una polemica apparsa recentemente sul The New Yorker a firma di Ruth Ben-Ghiat si chiedeva perché in Italia edifici legati al fascismo, quali il Foro Italico e il Palazzo della Civiltà Italiana (o del Lavoro), non venissero abbattuti. E nel […]