Variazioni della differenza: Derrida e Coleman

Nuova comunicazione e territori culturali. Il tono oltre il messaggio. Impossibilità ed editing. Armolodia e decostruzione. Libri e dischi. Assenza di confini e molteplicità organizzata. Accenni alla struttura armonica dell’universo di Leibniz. Improvvisazione e archiscrittura. Altermondialismo. Differenza e benedizione. Coltrane e Don Cherry. Dopo Derrida e Coleman.

 

Partiamo da un inconsueto duetto. Il primo di luglio del 1997 alla Villette di Parigi, durante un concerto di Ornette Coleman (sax alto, tromba e violino) e Joachim Kuhn (pianoforte), da dietro le quinte esce un uomo dai capelli bianchi, che dirigendosi verso microfono e leggìo, mormora in francese e in inglese, contemporaneamente al pubblico e ai performer: «Cosa succede? Cosa succede, Ornette? Cosa succede qui adesso con Ornette Coleman?». All’urlo della sala risponde il sax del musicista, e l’uomo scompare nel silenzio.

L’uomo è il filosofo Jacques Derrida, e queste le parole con cui Coleman si riferisce a lui: «Conoscevo in particolare le sue ricerche sulla decostruzione. Ma non l’avevo invitato per discutere di un argomento preciso, volevo che potesse condividere ciò che desiderava… Per me comunicare attraverso l’arte, la cultura, la tecnologia etc. è un mezzo per rendere la vita più facile alle persone che non hanno accesso a certe cose, per mancanza di soldi o altro. Non ho mai pensato in termini di classe, semmai di ‘territori’, e questa nuova comunicazione lega tutti questi territori, al di là delle comunicazioni a cui siamo abituati».

E così Derrida su Coleman: «Conoscevo l’importanza del suo lavoro, un po’ del suo percorso… Per certi versi noi non abbiamo niente in comune, apparteniamo a due spazi culturali differenti. Ciò nonostante io credo alla verità di una certa necessità di questo incontro… (e lui) ha sentito che quello che facevo rappresentava una certa marginalità, rottura, che noi avevamo delle cose da condividere… Ho preparato dunque un testo, difficile da comporre: era necessario che mi rivolgessi a lui, che non capisce il francese, e quello che avrebbe contato per lui, era il mio ‘tono’, e lui avrebbe risposto a questo tono. Mi ha quindi guidato l’indirizzarmi simultaneamente a lui e al pubblico, su un certo tono, su un certo ritmo, che gli avrebbe permesso sia di rispondermi, sia di suonare contemporaneamente a me… Oltre ai segni di tono, di ritmo, al fatto che ci fossero più voci, molti elementi premusicali, volevo abbordare, annodare a modo mio un certo numero di temi da analizzare: l’improvvisazione, temi politici, come il suo rapporto con il mercato…».

Un’intervista che risale esattamente ad una settimana prima del concerto parigino tenta di ricostruire le tracce di questi argomenti. Riguardo l’improvvisazione, Derrida nelle domande tenta di rispondere a se stesso laddove scrive: «Al cuore dell’improvvisazione è la lettura, dal momento che spesso ciò che capiamo dall’improvvisazione è la creazione di qualcosa di nuovo, ma che tuttavia non esclude la matrice scritta che la ha resa possibile […]. L’evento unico – che si produce una volta sola – è ciònondimeno qualcosa di ripetuto nella struttura stessa. C’è dunque una ripetizione, nella struttura, intrinseco alla creazione iniziale, che compromette o comunque complica il concetto di improvvisazione. La ripetizione è già nell’improvvisazione: dunque quando la gente tende a intrappolarti tra improvvisazione e scrittura alla base, è in torto…» Coleman, con particolare pertinenza ai canoni della filosofia moderna, traduce questa complicazione dell’origine in linguaggio astronomico: «La ripetizione è naturale esattamente come il fatto che la terra ruota».

Nei rapporti tra improvvisazione e mercato il musicista individua l’aspetto politico del fare musica in modi che prescindono da qualsiasi petulante presa di posizione: «Credo che nella musica improvvisata i musicisti cerchino di rimettere assieme i pezzi di un puzzle emotivo o intellettuale, e in ogni caso si tratta di un puzzle nel quale il tono è dato dagli strumenti. Il pianoforte più o meno sempre è servito come base per la musica, ma ora non è più indispensabile: infatti gli aspetti più propriamente commerciali della musica sono diventati molto incerti. Peraltro la musica che passa attraverso il mercato non è necessariamente più accessibile, ma ha dei limiti.» I ruoli quindi si scambiano e domanda al filosofo: «Non si chiede mai se la lingua in cui parla ora interferisce, condiziona il suo vero pensiero? Un lingua d’origine può influenzare i pensieri?», che risponde: «Credo che qualcosa parli attraverso di me, una lingua che io non capisco, una lingua che a volte cerco di tradurre più o meno facilmente nella ‘mia lingua’.»

Coleman, di fronte a Derrida, sembra comunque riuscire a tradursi con particolare facilità: infatti, dove il jazzista è particolarmente intenzionato a «distruggere» quanto convenzionato, il suo intento è proprio quello scrivere musica «mai eseguita prima» e priva di appartenenze convenzionate, suscettibile di essere analizzata e capace di rinnovarsi ogni volta, con la quale interagire come in una conversazione dove nessuno cerca di indirizzare il discorso: «si tratta di intelligenza, quella è la parola.»

L’incontro sul palco si risolse materialmente in un mezzo disastro, in una situazione sostanzialmente confusionaria e anche un po’ imbarazzante, che rese peraltro evidente che chi voleva ascoltare musica non aveva interesse per le parole. In un articolo apparso il giorno successivo Coleman si disse amareggiato perché Derrida lo aveva chiamato «selvaggio», ma non smise di praticare la decostruzione, ovviamente a modo suo. Il filosofo continuò ad affermare di «credere e lottare per l’improvvisazione», pur consapevole della sua «impossibilità» (nel film Derrida, di Kirby Dick – Amy Ziering Kofman, 2002), e di fatto la praticò nelle proprie conferenze, che era solito improvvisare basandosi su testi attentamente redatti, poi rivisitati alla luce dei risultati emersi durante la discussione, in maniera molto simile a come il materiale improvvisativo musicale può essere sottoposto a editing.

Coleman, afroamericano del Texas, nato a Forth Worth nel 9 febbraio del 1930, è uno dei musicista che maggiormente ha espresso l’esigenza di oltrepassare le convenzioni tanto del sistema tonale occidentale quanto dell’industria culturale, praticando una musica basata sull’improvvisazione pura ed elaborando anche il concetto di armolodia, basato sull’equivalenza di ritmo, armonia e melodia, con l’indipendenza di ciascuna voce e l’estensione del ruolo di solista a tutti gli esecutori. Un ascolto indicativo è sicuramente Free Jazz (1961), che utilizza come copertina il dipinto White Light (1954) di Jackson Pollock, e cattura un’irripetibile improvvisazione per doppio quartetto (su un canale Ornette Coleman, Don Cherry, Scott Lafaro, Bill Higgins + Eric Dolphy, Freddy Hubbart, Charlie Haden, Ed Blackwell sull’altro). E, almeno una volta, sentire Lonely Woman (su The Shape of Jazz to Come, 1959): gli “unisoni armonici” di sax e tromba, con il primo (un Conn di plastica) che si muove come per lamenti e la seconda (una tromba tascabile pakistana) in leggero ritardo, i ceselli contrabbassistici che aprono e chiudono il pezzo, le sottigliezze ritmiche delle pelli e dei piatti, e farsi rapire dall’errante traccia del suo tema. Coleman, nell’intervista menzionata, ricorda come sia stato un quadro ad ispirarlo:

Derrida, ebreo francese nato nel 15 luglio del 1930 (lo stesso anno di Coleman) ad El Biar in Algeria, è il filosofo che ha formulato il concetto della decostruzione: una strategia di destabilizzazione delle strutture teoriche basate sulle false opposizioni (spirito – materia, universale – particolare, maschile – femminile), una pratica di sabotaggio dei rapporti gerarchici di dominio messi in gioco nei processi di legittimazione e di istituzionalizzazione. La decostruzione esamina un’idea, un’istituzione o un valore, estremizzandola e introducendo un terzo termine estraneo, mettendo quindi in luce l’assenza di una verità originaria e il ruolo creativo espresso dalla filosofia. Nel suo pensiero, come nota Silvano Petrosino, l’apertura costante al possibile si accompagna al rifiuto di ogni compimento ultimo.

Potrebbe sorprendere il fatto che il giovane Derrida desiderava diventare giocatore di pallone professionista: tale caratteristica, insieme a quella di aver pubblicato libri (ma il filosofo parlerebbe di testi), potrebbe avvicinarlo in qualche modo al popolare Baggio, o anche al grande Totti: ma tanto la loro opera quanto i contesti che determinano sembrerebbero diversi: e non soltanto per “intonazione”. E non a caso, la cosiddetta “società della comunicazione”, che impone fenomeni rigorosamente dettati da esigenze di mercato come quelli di un personaggio pubblico che fa un libro, o un disco, che sostanzialmente riduce l’informazione a spot pubblicitario portando all’istupidimento delle stesse capacità percettive e intellettive, è da Deridda e Coleman messa in discussione nei suoi stessi assunti, con la proposta di pratiche radicalmente diverse.

Coleman quando afferma che «ogni nota va bene con qualsiasi altra» non proclama che il criterio sia quello dell’arbitrio e dell’incompetenza: piuttosto, propone nella prassi quella che definisce come «nuova comunicazione», dove le strutture musicali tradizionali si dissolvono a favore dell’esperienza di un ascolto “totale”. È indicativo il suo primo approccio alla musica a quattordici anni, quando legge la notazione inglese (che parte da A=LA) applicandovi i valori della scala naturale (DO maggiore) ed eseguendola su un sassofono alto (intonato in MI b): coerentemente con la trasposizione, un DO su questo strumento suona come un LA, e quindi, pur sbagliando il rapporto con le diverse convenzioni, il risultato ottenuto era del tutto corretto. Analizzando la questione, il musicista arriverà a concludere: «tutte le cose che sono state disegnate con una logica stringente hanno una sola contraddizione: non c’è un solo modo di farle.»

Le note del suo primo disco Something Else!!!! (1958) approfondiscono: «Penso che un giorno la musica sarà molto più libera. Allora, lo schema armonico di un brano sarà dimenticato e il brano stesso sarà il proprio schema, e non saremo costretti a forme convenzionali.» Uno strumentista e compositore come Charles Mingus osserva: «È come una disorganizzazione organizzata, o come suonare male suonando nel modo giusto…»

Invece, l’approccio istintivo ostentato con la tromba e il violino avranno modo di indignare un Miles Davis, che pur considerandolo inizialmente «matto» dimostrerà poi interesse per la sua musica e le sue idee. Intanto, nel 1966 Denardo Coleman ha dieci anni, e inizia ufficialmente a suonare con il padre Ornette; ne diventerà in seguito il produttore. Successivamente, dischi come Science Fiction (1971) e In All Languages (1987) portano Coleman verso contaminazioni etniche ed elettriche, mentre in Skies of America (1972), per orchestra sinfonica, la frammentazione dei linguaggi è condotta ad una sintesi che mantiene la diversità dei suoi singoli momenti. La composizione si muove con largo uso delle quinte e delle ottave parallele, proibite dall’armonia classica (anche se ad onor del vero il divieto era funzionale ad evitare evitare monotonia e staticità), e si sviluppa prevalentemente su sonorità acute che suggeriscono l’idea di un mondo visto dall’alto, cercando dichiaratamente di «descrivere qualcosa che non avesse confini».

In quest’assenza di confini, la forma sinfonica permette la riformulazione di elementi tipici delle musiche tribali africane: importanza dell’intuizione e comunicazione non-verbale, dove l’individuo rimanda al gruppo e il gruppo all’individuo; aspetto ritmico e poliritmico, che la notazione occidentale non riesce a decodificare adeguatamente; musica come processo e non come realizzazione, nel quale la pratica evolve di continuo e dove composizione e improvvisazione si assommano in un’invenzione progressiva.

La musica sembrerebbe sorprendentemente approssimarsi ad essere quella illustrazione privilegiata della struttura armonica dell’universo a cui si riferiva Leibniz (Epistola 154 ad Christian Goldbach, 27.04.1712): dove la sua condizione fondamentale è la varietà, e se l’ascolto musicale consiste in un misurare inconscio capace di intuire una molteplicità organizzata, non conta che si tratti di una musica nella quale il concorrere delle dissonanze all’armonia è difforme dal temperamento equabile ben conosciuto dal filosofo tedesco. Piuttosto, potremmo pensare che il possibile possa portare oltre se stesso: dove l’improvvisazione è il primo atto di ogni processo musicale, a cui inerisce «un ampio insieme di vincoli formali» (John A. Sloboda, La mente musicale, 1985), possiamo supporre, al di là della partitura, un’improvvisazione capace di essere testo e scrittura e quindi lettura e pensiero: con le parola di Derrida, archiscrittura.

Derrida, dal canto suo, propone di «leggere i filosofi in un certo modo» (La scrittura e la differenza, 1967), sovvertendo dall’interno l’equivoco con cui l’occidente scambia il suo pensiero con la «forma universale della razionalità» (La mitologia bianca, 1971). La sua proposta è di disarticolare il sistema delle convenzionali relazioni concettuali, «slogare l’unità verbale» e «consumare i segni fino alla cenere» (Posizioni, 1972) per rendere la razionalità consapevole dei propri condizionamenti, quindi «cambiare terreno, in modo discontinuo e dirompente», e «parlare parecchie lingue e comporre parecchi testi allo stesso tempo» (Fini dell’uomo, 1968), raffigurando «ciò che non appartiene al padre» (La disseminazione, 1972) in modo da accogliere ciò che è assolutamente straniero. Coleman sembra manifestatamente vicino a questa concezione, dove, come segnala già Michele Mannucci, le quattro note che formano il tema della Sinfonia in do minore di Beethoven vengono “decostruite metricamente” e spostate ad una struttura blues in The fifth of Beethoven (1960, su The art of improvisers, 1970).

Il pensiero di Derrida viene a precisarsi attraverso una diversificazione tematica inesauribile, che prende anche forme parodistiche, come quando l’ombrello perduto di Nietzsche (da un appunto posto tra virgolette nei Frammenti Postumi 1881-1882) diventa traccia del ritrovamento dell’oblio attivo: perdita dell’origine che permette l’azione (Sproni, 1978). Un tipo che smarrisce e trova ombrelli sembrerebbe anche Ornette Coleman, di cui Giampiero Cane dice: «Le cose si presentano a lui caoticamente, in disordine, e vengono affrontate senza idea di un ordine in cui collocarle, ma proprio cercando di trovare la possibilità di un ordine.»

Tuttavia, il mondo della comunicazione sembra avere altro da fare che sviluppare l’intelligenza emotiva in musica e reinventare i riferimenti concettuali. E dove la globalizzazione celebra il matrimonio tra religione e tele-tecnoscienza e la guerra fredda implode nel terrorismo, per Derrida l’Europa «a venire» dovrà assumersi la responsabilità di riscoprire la sua cultura nel «non essere uguale a se stessa» (L’altro capo, 1991), cercando quindi la memoria non nel passato, ma nel futuro. E questo futuro non è il preteso trionfo del capitale finanziario internazionale e la «telecoscienza dei media», quanto, definitivamente, «imparare a vivere» (Spettri di Marx, 1993), contro l’esclusiva logica della «ragione del più forte» e la nascosta evidenza che «ogni stato è canaglia», nell’«attesa priva di attesa della singolarità dell’altro» (Stati canaglia, 2003). Tali intonazioni messianiche si concentrano quindi nella ricerca dell’«evento che non si lascia addomesticare», giungendo a concludere che «solo l’impossibile può accadere» (L’università senza condizioni, 2001).

L’ultimo Derrida arriva ad esprimere anche un’esigenza di altermondialismo, le cui priorità vengono così precisate (nella sua ultima intervista fornita a Jean Birnbaum per Le Monde – tradotta in italiano su Internazionale n. 561- dalla quale sono tratte anche le citazioni successive): «Quel che chiamavo ‘nuova internazionale’ ci impone molti cambiamenti nel diritto internazionale e nelle organizzazioni che regolano l’ordine mondiale: FMI, WTO, G8, e soprattutto l’ONU, di cui bisognerebbe cambiare almeno la carta, la composizione e innanzitutto la sede, portandola il più lontano possibile da New York.»

Se il decostruzionismo ha avuto grande influenza sulla critica letteraria americana post-modernista (per esempio Paul de Man, Ihab Hasan e Peter Carravetta), la principale preoccupazione teoretica di Derrida è nella critica del logocentrismo, cioè la concezione secondo la quale la “parola” sarebbe la modalità di conoscenza privilegiata: ma lungi dal negare significato e conoscenza, il filosofo adotta la raffinata strategia di legare il conoscere alla scrittura, e sottrarsì così alla chiacchiera in modo radicale. La base teoretica è fornita dalla differenza ontologica di Heidegger, per cui l’essere, il pensiero più semplice, è irriducibile ad ogni forma di identità, in quanto già diverso da se stesso e caratterizzato, seguendo qui Levinàs, dalla propria assoluta alterità.

L’essere così non è identità originaria, ed è irriducibile all’espressione linguistica con cui la sua presenza viene verbalmente formulata. L’origine non è costituita da presenza e unità recuperabili attraverso la parola, ma esclusivamente da «tracce», segni dell’essere inattingibile quale totalità, i quali costituiscono una «scrittura originaria» che prevale sulla parola detta. Attraverso la differenza della scrittura, «presenza di un’assenza» si accede all’essere come «differance» (con la a, per marcarne l’assoluta irriducibilità), portatori di un «lutto originario» che ci rende «costitutivamente eredi»: per cui «imparare a vivere significa imparare a morire, a considerare, per accettarla, la finitezza assoluta, senza salvezza, resurrezione o redenzione, né per me né per l’altro.» Se sopravvivere è la dimensione strutturale dell’esistenza, la morte è la scrittura stessa, e l’anticipazione della morte è la filosofia: ma questa morte è dono e ci congeda dai morenti, come traccia che sopravvive, come «la vita più intensa possibile».

La vita più intensa possibile è propriamente una benedizione, e The Blessing può essere ascoltata in due versioni diverse: su Something Else!!!! e su The Avant-Garde (1961) di John Coltrane & Don Cherry. È un brano abbastanza tipico dello stile di Ornette, il cui tema, non semplice per quanto spassoso, è sapientemente costruito. Leggiamo la parte per tromba, scritta in La maggiore, concentrandoci sulla prima frase. L’attacco è in anacrusi sul primo grado della scala alzato di un semitono (La diesis). Sul secondo movimento, una terzina ascendente copre secondo terzo e sesto grado della scala, dove il quarto grado è alzato di un diesis (Re diesis): qui si delimita la prima cellula. Al terzo movimento, una semiminima conferma all’ottava l’alterazione iniziale (La diesis), e al quarto movimento abbiamo due crome, una al settimo grado (Sol diesis) e una al terzo grado all’ottava superiore (Do diesis), che sancisce il modo superlocrio in cui si muove la frase. La nota si collega per sincope alla semibreve puntata sulla seconda battuta; segue una pausa di un quarto. Fermiamoci qui.

Ascoltiamo Don Cherry: la pocket trumpet improvvisa muovendosi nelle due esecuzioni in assoli completamenti diversi per ispirazione e impianto, molto aperti negli sviluppi. Coltrane suona il sax soprano, regalatogli da Miles Davis meno di un anno prima, seguendo solide sequenze di accordi, delinenado un territorio musicale molto diverso da quello armolodico; con Don Cherry, e indirettamente con Coleman, quasi nemmeno si incontra: eppure, lo sviluppo della sua ricerca free comincia qui, proprio con la benedizione di The Blessing, testimoniando il trasmettersi della musica trascendendo i musicisti e le loro soggettività.

Per ambedue gli autori arriva quindi il momento dei saluti e delle benedizioni estreme. Il filosofo viene a mancare il 9 ottobre 2004, sopravvivendo in innumerevoli tracce, disseminato in numerosi testi, che come abbiamo già ricordato, si intrecciano ampiamente con le “improvvisazioni” delle conferenze, nei quali sviluppi e riferimenti estremamente complessi sono esposti e «messi in opera» (Petrosino) sempre con una specifica contestualità, in un modo che un’altra volta ha relazione con le inconsuete geometrie di Ornette Coleman, che invece ci lascia l’11 giugno del 2015.

Il musicista per descrivere il proprio lavoro aveva utilizzato termini che il filosofo avrebbe trovato senz’altro “intonati”: «La mia musica non ha un vero tempo, nessun tempo metrico. Ha un tempo, ma non nel senso in cui puoi darle un tempo. È più come un respiro, un tempo naturale, più libero. La gente ha dimenticato quanto sia bello essere naturali. Anche in amore.» Al riguardo, Derrida propone di abolire il matrimonio, «equivoco civile e ipocrisia religiosa», trasmessosi dai Romani al Cattolicesimo per fini di organizzazione sociale, che in una costituzione definitivamente e finalmente laica dovrebbe essere sostituito con «una ‘unione civile’ contrattuale, una sorta di patto di solidarietà generalizzato, migliorato, flessibile, regolato tra i partner di sesso e numero non imposto». Resta da chiedersi cosa oggi Coleman e Derrida avrebbero pensato delle false avanguardie composte da noiosi luoghi comuni sonori oppure dei neo-oscurantismi di nozze gay funzionali all’anarco-capitalismo: segni che in un pensiero e in un mondo già molto diversi da quelli che questo filosofo e questo musicista hanno conosciuto, occorrono ormai altre rotte per mantenere costante apertura al possibile e cercare la possibilità di un ordine nel caos.

L’esperienza di alterità radicale indicata da Derrida deriva dalla migliore eredità dell’illuminismo, da quella «capacità autocritica» da cui viene anche «la perfettibilità dell’Occidente, e la possibilità di un futuro». Tomorrow is the question, “la domanda è domani”, recitava il titolo di un disco di Ornette Coleman del 1959. E se quel domani non è ancora il nostro presente, a quale futuro stiamo dando risposta?

Prima pubblicazione: «Musica Jazz», a. 61 n. 2, febbraio 2005. Riveduto e ampliato.

Fotografia: Claudio Comandini, “Tromba parlante” – Elmo di Sorano 2006.

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