Brian Eno, la guerra in Palestina e la perdita della civiltà

La questione palestinese si trascina senza nessuna soluzione dal 1948: esattamente da quando fu proclamato lo stato d’Israele. Gli arabi rigettarono la proposta ONU di fondare due stati indipendenti e dichiararono guerra al nuovo paese, gli ebrei occuparono progressivamente le zone destinate alla Palestina per espandere una teocrazia a circuito chiuso. Tra i movimenti di supporto alla causa palestinese, Artist for Palestine ha come firmatari ben 1.700 artisti inglesi; tra costoro, Brian Eno, coerentemente con la campagna BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), ha recentemente negato di concedere l’utilizzo delle sue musiche alla compagnia Batsheva per lo spettacolo “Humus”, seconda parte di “Tre”, previsto per la kermesse TorinoDanza 2016. Le sue parole: «Dato che il governo israeliano ha reso piuttosto evidente di utilizzare l’arte […] per promuovere il “Brand Israele” e per distogliere l’attenzione dall’occupazione delle terre palestinesi, ritengo che la mia decisione di negare l’autorizzazione sia un modo per togliere questa particolare arma dalle loro mani.» Ha inoltre aggiunto, per chiarire la propria posizione di artista del tutto alieno da ogni razzismo e consapevole delle  responsabilità proprie ad un mondo globalizzato: «Ho discusso di tutto ciò con la mia amica Ohal, un’artista israeliana e un’altra sostenitrice del BDS, e so che lei e i suoi colleghi israeliani del BDS capiscono la necessità di un boicottaggio. Come artisti dovremmo essere liberi di scegliere di rispondere alle ingiustizie dei governi, il tuo o il mio che sia.» Eno è una sorta di filosofo del suono che provocatoriamente si dichiara “non musicista”, ha iniziato la sua avventura con i Roxy Music e ha prodotto artisti quali David Bowie, Talking Heads e U2, ed è particolarmente conosciuto per un lavoro che, considerando lo studio di registrazione quale strumento musicale, partendo da un originale approccio al rock ha sviluppato un personale concetto di ambient music: al riguardo, è esemplare “Another Green World” (1975); l’ultimo lavoro è “The Ship” (2016). La sua presa di posizione politica contro quello che definisce senza mezzi termini come «pulizia etnica», precisatasi dopo il rinnovarsi delle violenze perpetrate sulla striscia di Gaza, non ha nulla dei radicalismi di maniera rispetto ai quali Eno ha preso distanza già dai tempi del punk, e discende piuttosto dal suo particolare modo di approcciare i fenomeni sonori: «Per me, proprio la mia decisione di lavorare nel modo in cui lavoro ha risonanza politica. La decisione di interrompere la prospettiva che pone se stessi al centro del mondo si colloca esattamente all’opposto di quanto prescritto dall’idea di ‘fai le cose tue’ e di quella che possiamo chiamare la ‘generazione egotica’: piuttosto, comporta il vedere se stessi come parte di un flusso più grande, introducendo dei vincoli rispetto a possibilità e responsabilità di scelta. Ed è esattamente da questa ‘teoria politica’ che la musica cresce.» (Mick Brown, “Life of Brian According to Eno,” «The Guardian» 1.05.1982  – cit. in Eric Tamm, “Brian Eno: His Music and the Vertical Color of Sound”, 1988 – 1995). La lettera di Eno è stata pubblicata sul blog di David Byrne insieme ad una risposta di Peter Schwartz (…), il quale, per quanto convinto che «Israele abbia perso la propria strada» non ritiene possano esserle addebitate tutte le responsabilità della drammatica situazione attuale.

 

Cari tutti voi.

Sento che con questa lettera sto rompendo una regola non detta, ma non posso più tacere.

Oggi ho visto una foto di un uomo palestinese che piangeva tenendo in mano un sacchetto di plastica pieno di carne. Era suo figlio. Era stato fatto a strisce (shredded – parole dell’ospedale) da un attacco missile israeliano – a quanto pare con la loro nuova favolosa arma, la bomba flechette. Probabilmente, già sapete di cosa si tratta: centinaia di piccole frecce d’acciaio, raggruppate attorno all’esplosivo, capaci di strappare la carne dal corpo dagli esseri umani. Il ragazzo si chiamava Mohammed Khalaf al-Nawasra. Aveva 4 anni.

Improvvisamente, mi sono sorpreso a pensare che avrebbe potuto esserci uno dei miei figli dentro quella borsa. Questo pensiero mi ha sconvolto, più di quanto qualsiasi altra cosa abbia fatto da molto tempo.

In seguito, ho letto che l’ONU aveva detto che Israele potrebbe essere reputata colpevole di crimini di guerra a Gaza, e che avrebbe voluto aprire una specifica commissione di inchiesta sull’argomento. L’America non ha voluto sostenere tale richiesta.

L’America che conosco e amo è compassionevole, creativa, eclettica, tollerante, generosa e di larghe vedute. E voi, miei cari amici americani, simboleggiate tutte queste cose per me. Ma qual è l’America che sta sostenendo questa orribile guerra colonialista unilaterale? Non lo riesco proprio a comprendere: so dell’esistenza di molte persone che vi somigliano, ma come è possibile che tutte queste voci non siano né ascoltate né riportate? Come mai non è il vostro spirito che la maggior parte del mondo oggi pensa quando sente la parola ‘America’? E quanto è il male costretto a manifestarsi quando il paese che più di ogni altro fonda la propria identità sulle nozioni di Libertà e Democrazia, poi va, mette i suoi soldi esattamente dove la sua bocca non è, e quindi supporta una teocrazia violentemente razzista?

Che cosa sta succedendo in America? So dalla mia esperienza quanto tendenziose siano le notizie di cui si dispone, e quanto poco si possa arriva a conoscere l’altra faccia di questa storia. Eppure – per amore di Cristo! – non è nemmeno così difficile da scoprire. Perché l’America persevera nel proprio cieco sostegno di questo unilaterale esercizio di pulizia etnica? PERCHÉ? Semplicemente, io non ci arrivo. Odio davvero pensare che sia soltanto il potere della lobby israeliana AIPAC… perché se coì fosse, allora il governo sarebbe davvero profondamente corrotto. No, non credo che la ragione sia questa… ma non ho idea di quale possa essere.

Sono stato in Israele lo scorso anno con Maria. Sua sorella lavora a Gerusalemme per UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East). A mostrandoci cosa ci fosse intorno c’era un palestinese (Shadi, cognato di Maria, guida professionale) e un ebreo israeliano (Oren Jacobovitch, ex maggiore della IDF (Forze di difesa israeliane) che ha lasciato il servizio sotto discredito per aver rifiutato di picchiare i palestinesi).

Ambedue ci hanno permesso di vedere scene strazianti: case palestinesi circondate da reti metalliche e tavole di legno per evitare che i coloni gettassero merda e piscio e carta igienica usata sugli abitanti; ragazzi palestinesi che mentre andavano a scuola venivano picchiati da ragazzi israeliani armati di mazze da baseball tra gli applausi e le risate dei genitori; un intero villaggio sfrattato e costretto a vivere nelle caverne mentre tre famiglie di coloni si erano spostati sul loro territorio; un insediamento israeliano in cima ad una collina che aveva deviato le proprie acque di scarico direttamente verso il basso e quindi sul sottostante terreno agricolo palestinese; il Muro; i posti di blocco… e tutte le umiliazioni quotidiane e senza fine. Continuavo a pensare: «Davvero gli americani condonano questo? Davvero pensano che tutto questo sia OK? O semplicemente non ne sanno nulla?»

Per quanto riguarda il Processo di Pace: Israele vuole il processo, ma non la pace. Mentre ‘il processo’ è in corso, i coloni continuano ad usurpare la terra e a costruire i loro insediamenti… e poi, quando alla fine i Palestinesi esplodono con i loro patetici fuochi d’artificio, i coloni riescono ad ottenere l’opportunità di martellarli e ‘farli a strisce’ (shredded) con missili all’avanguardia e armi all’uranio impoverito, dato che  Israele ‘ha il diritto di difendersi’ (mentre chiaramente la Palestina non può). E mentre l’esercito guarda dall’altra parte, le milizie dei coloni sono sempre felici di dare un pugno oppure di strappare un uliveto a qualcuno.

E tra l’altro, la maggior parte dei coloni non sono nemmeno di etnia israeliana: infatti, godono del ’diritto al ritorno’ gli Ebrei che provengono da Russia, Ucraina e Moravia, dal Sud Africa e dal Brooklyn, arrivati di recente in Israele con la nozione di possedere un inviolabile diritto alla terra (conferito da Dio!), e capaci di identificare ’arabi’ con ‘parassiti’. Questo è puro e semplice razzismo di vecchia scuola, recapitato con la stessa arrogante e spudorata spavalderia già utilizzata nella propaganda dei vecchi bravi ragazzi della Louisiana. E questa è la cultura che le nostre tasse stanno difendendo. È come inviare denaro al Ku Klux Klan.

Tuttavia, al di là di tutto questo, ciò che veramente mi preoccupa è il quadro più ampio. Piaccia o no, agli occhi della maggior parte del mondo, l’America rappresenta l’’Occidente’. Quindi, si considera che, nonostante tutto il nostro altisonante parlare di moralità e democrazia l’Occidente sia favorevole a questa guerra. Temo così che tutte le conquiste di civiltà dei Lumi e della cultura occidentale vengano screditate – per l’immensa gioia dei mullah pazzi – da questa flagrante ipocrisia. A quanto posso vedere, non soltanto la guerra non ha alcuna giustificazione morale: non ha neppure nessun valore pragmatico. Nessun senso di kissingeriana ‘Realpolitik’; al massimo, ci fa apparire come colpevoli.

Mi dispiace di farvi pesare tutto questo. So che siete pieni di impegni e in varia misura allergici alla politica, ma questo va oltre la politica. Tutto questo è qualcosa che ci sta costringendo a sperperare il capitale di civiltà costruito nel corso di generazioni. E, per quanto riguarda questa lettera, non è stata mossa da nessuna intenzione di fare domande retoriche: spero proprio di esserci riuscito.

Traduzione: Claudio Comandini
Fotografia: Gaza War (2008–09)
Brian Eno, “Gaza and The Loss of Civilization”, «David Byrne Journal» 28.07.2014.

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