Chi paga per la condivisione?

È necessaria una mappatura di forme e modi con cui la comunicazione e la condivisione delle informazioni stanno ridefinendo, e non soltanto nel virtuale, economia e cultura. Questa utile topografia compilata da Annamaria Testa, pubblicitaria e giornalista, deve però essere accompagnata da preoccupazioni che permettano di comprendere come rendere la crescente intelligenza collettiva un vero e proprio elemento ‘comune’, superando la tendenza a cristallizzarla in ‘comunicazione’ banale. Infatti, realtà quali le pressioni dell’industria farmaceutica, le modeste rendite dei microcompensi, le consultazioni cittadine di pura demagogia, dietro le novità di facciata, segnano la sopravvivenza di miti progressisti di altre epoche, e con questi i rapporti di forza tipici del capitalismo. Laddove si configura quanto viene definito come ‘capitalismo cognitivo’, focalizzare il mobile ‘territorio’ nel quale questo si inscrive deve servire anche a comprendere come sia possibile compiere quella ‘rivoluzione’ che permetta di impossessarsi dei mezzi di produzione: e quindi, non subire le informazioni, ma elaborarle. La lotta passa inevitabilmente per la riqualificazione economica del lavoro intellettuale, che comporta la ridefinizione dei criteri di autorevolezza, competenza e credibilità, i quali dipendono maggiormente dalla tenuta specifica di quanto viene proposto, che dal suo restare appeso allo share o più in generale all’audience: criteri per i quali spesso si riducendo il tipo di condivisione più diffusa sui social ad una giostra di parole che si vanificano l’una con l’altra, favorendo al massimo divulgazioni al ribasso e prive di effettivi contenuti. Il problema fondamentale con cui confrontarsi è che l’annullamento delle opinioni ad vortice di chiacchiere irrelate non è episodico ma, come ha mostrato in maniera esemplare il filosofo Mario Perniola, è tra le costanti della ‘comunicazione’, le cui condizioni vanno attraversate cercando zattere che permettano al sapere di mantenere una propria dimensione operativa. Dove una società è costituita da conoscenze intrinseche e il comprendere stesso è strutturalmente sociale, in questo presente le aree e le nicchie al’interno delle quali il lavoro culturale sopravvive si sono ormai moltiplicate indefinitivamente, e la grande velocità nella quale siamo immersi determina una diffusa non-simultaneità. In pratica, è come se ognuno vivesse nel mondo e nell’epoca che gli pare. Tali circostanze possono portare a trascurare che il lavoro intellettuale, nonostante le specializzazioni in cui si articola, ha sempre interessi generali e aspetti universali, i quali, pur non interessando mai tutti, trascendono in ampia misura divisione del lavoro e condizioni del mercato. Ed è proprio la considerazione concreta dei fattori che determinano un mercato a permettere di comprenderne le pratiche, superandone i particolarismi senza generalizzarne i modelli. Infatti, il crowdsourcing, sul quale l’articolo si conclude interrogandosi sui suoi limiti, ladddove non voglia ridursi allo “spiottare”, deve concepire la propria rete come decentralizzata e caratterizzata dalla divisione in diversi nodi dei contatti: quindi, non da una loro omogenea distribuzione, nè da qualche rigida centralizzazione. La questione permette di approfondire la comprensione delle tipologie di rete formalizzate da Paul Baran nel 1964, ed è spiegata anche in un articolo tecnico ricco di implicazioni teoriche, che ricorda come le campagne di raccolta, pur essendo legate alla generalità di un progetto, si appuntano ogni volta ad aspetti specifici e a nicchie coinvolte a diverso livello. Lo stesso tipo di distribuzione è riscontrabile anche nella diffusione delle idee, che si riproducono creando nuovi centri di diffusione non necessariamente in reciproco contatto, eppure collegati: questa è una delle modalità con cui cultura ed economia ritrovano rapporti funzionali e reciproche influenze. Gli alberi e la foresta che si nascondono tra loro possono anche svelarsi reciprocamente: eppure, c’è chi, pur essendone circondato, non vede nè gli uni, nè l’altra.

 

1. Cooperare e condividere

La cooperazione, la condivisione e la diffusione del sapere stanno cambiando le nostre vite. Ad affermarlo in modo assai convinto è l’antropologa Stefana Broadbent, capo del dipartimento di intelligenza collettiva del Nesta (National endowment for science, technology and the arts), un’organizzazione britannica senza scopo di lucro che si occupa di imprese creative e di innovazione. Broadbent da decenni studia i fenomeni sociali legati allo sviluppo tecnologico. Interviene alla manifestazione milanese Meet the media guru proprio per parlare di Knowledge commons e intelligenza collettiva. Ecco, in estrema sintesi, quel che racconta.

Ormai, dice, siamo abituati a trovare dovunque conoscenza diffusa da singoli individui. Su YouTube le persone caricano e consultano video di spiegazioni (tutorial) su qualsiasi argomento, dalla coltivazione dei pomodori alle ultime scoperte sui fattori di rischio del diabete. Ma questa condivisione di conoscenza è un fatto inedito e una grande risorsa che va ben oltre i video su YouTube: l’intelligenza collettiva è un capitale che, grazie alla rete, già oggi viene investito nei campi più diversi.

I casi sono ormai davvero tanti. Wikipedia è solo il più noto: nata nel 2001, già nel 2008 entra nel Guinness dei primati come la più ampia enciclopedia del mondo. Oggi conta più di 35 milioni di voci, distribuite su edizioni in 53 diverse lingue. Un altro caso assai conosciuto è Mozilla Firefox, il browser nato nel 2002, il cui codice è aperto e può essere distribuito e migliorato da chiunque voglia farlo.

Ma la condivisione del sapere non si esprime solo nel mondo virtuale e può, per esempio, applicarsi alla coprogettazione urbanistica: Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, si appella all’intelligenza collettiva per progettare una città che sia “juste, progressiste et durable”.

Può trattarsi di mettere a frutto (o, in certi casi, di sfruttare) le risorse collettive. Oppure – e questo è un secondo caso – di mettere quelle risorse in comune. O, infine, di favorire la partecipazione dei cittadini.

Già da qualche anno esistono siti come Quora dove i cittadini possono pubblicare domande e risposte su qualsiasi tema, o come Global Pulse, il sito delle Nazioni Unite per l’analisi dei big data riguardanti il benessere delle popolazioni, e il loro impiego per progettare piani di sviluppo più efficaci.

C’è Fold-it: un videogioco messo a punto dall’università di Washington, il cui scopo è trovare modi efficaci per “ripiegare le proteine” e dare una mano agli scienziatiche inventano nuovi farmaci. C’è Nature’s notebook, che chiede di tenere sotto controllo il cambiamento climatico osservando piante e animali. Lo trovate, insieme a molti altri siti di analoga impostazione, sulla piattaforma di scienza condivisa (citizen scienceScistarter.

Ma esistono anche fenomeni di microlavoro (a fronte di microcompensi) com’è, per esempio, Mechanical Turk, la piattaforma di elaborazione dati lanciata da Amazon nel 2005. Se volete sapere meglio di che si tratta, leggete questo articolo Ogni volta che il compito è proposto da un’organizzazione centrale, che poi riserva a se stessa la sintesi dei contributi, allora abbiamo un’estrazione di valore dalla rete. È capitalismo cognitivo: digital labour (attenzione: è lavoro digitale anche l’interazione attraverso i social media).

Non a caso, il ministero del lavoro francese sta pensando a come questo tipo di attività possa essere regolata all’interno della legislazione sul lavoro.

 

2. Comunità sapienti

Una prospettiva opposta è quella dei knowledge commons (informazioni e dati gestite da comunità di utenti) e riguarda le piattaforme per l’organizzazione di conoscenze che poi vengono integralmente redistribuite e messe in comune. È il caso del Debian project, un sistema democratico e volontario di progettazione di software che si è addirittura dotato di una propria costituzione, o di GitHub un popolare deposito di centinaia di migliaia di linee di codice open source.

Open Street Map organizza sessioni di mappatura collettiva, integrando fisicità e mondo virtuale (c’è anche una comunità italiana). In collaborazione con Medici senza frontiere e la Croce rossa sta, però, anche mappando le zone a rischio, in modo da raccogliere, a partire dalle immagini satellitari, dati utili a proteggere le popolazioni più vulnerabili.

Uno degli ambiti di condivisione più importanti riguarda la salute: RareConnectmette in contatto in tutto il mondo pazienti che hanno malattie rare, e permette di condividere storie, informazioni e discussioni, integrando conoscenze scientifiche ed esperienze dei pazienti. Sul melanoma c’è Melanoma patient network Europe. Invece Reg4all tratta di malattie genetiche e permette di condividere informazioni sulla propria salute con i ricercatori.

Un terzo importante campo di applicazione riguarda la partecipazione dei cittadini. Le amministrazioni locali si chiedono come sfruttare l’intelligenza collettiva, favorendo l’inclusione dei cittadini sia allo scopo di guadagnarsi la loro fiducia, sia per ridurre i costi di raccolta-dati e di messa a punto delle soluzioni. Ormai hanno capito che i cittadini, presi nel loro complesso, sanno un sacco di cose.

Nascono così FixMyStreet, il sito londinese che permette di segnalare problemi e disservizi alla pubblica amministrazione, o Plaza Podemos 2.0 per coordinare iniziative civiche e costruire programmi politici. C’è perfino un documento della Casa Bianca che parla esplicitamente di accelerare la citizen science e il crowdsourcing per affrontare sfide complesse e favorire lo sviluppo sociale e scientifico.

Ma quanto sono affidabili i siti di crowdsourcing? Come vengono gestiti? Non appena si parla di saperi condivisi, dice Broadbent, vengono fuori questi problemi. Per esempio, il gruppo sul melanoma segue protocolli molto rigidi. Altre piattaforme non fo fanno. Tutti, però, a partire da Mozilla, adottano sistemi meritocratici basati sulla reputazione acquisita attraverso la qualità dei contributi.

La sfida è trovare un (difficile) equilibrio tra tecnologia, non sempre adeguata, gestione dei dati e delle organizzazioni, condivisione degli obiettivi con la comunità. Inoltre, bisogna avere il coraggio di proporre sfide su problemi complessi e la capacità di suscitare proposte interdisciplinari, selezionando le migliori attraverso discussioni e votazioni in rete.

 

3. Come quantificare il sapere?

Le condizioni per intraprendere iniziative di successo sono, invece, tutto sommato semplici (almeno da dire; ma non così semplici da realizzare): avere obiettivi chiari e ben definiti. Integrare attività in rete e attività nel mondo reale. Integrare contributi di singoli e di gruppi organizzati, che a loro volta possono essere depositari di specifiche competenze. Un modello interessante è offerto da ClimateCoLab, un progetto del Centro per l’intelligenza collettiva dell’Mit per reperire proposte sul cambiamento climatico.

L’ultimo, ma non meno importante, tema di discussione è questo: dato per acquisito il valore sociale del sapere condiviso, c’è un valore economico che viene generato. Come quantificarlo? E come remunerarlo, considerando le persone non più solo come produttrici di dati, ma anche come portatrici di competenze?

La reputazione acquisita in rete è (ed ha) un valore? O dobbiamo cominciare a pensare a un salario garantito, almeno per i contributori più preziosi? Se non si affrontano questi nodi, la meraviglia che è il crowdsourcing rischia di trasformarsi nell’ennesimo fenomeno di lavoro intellettuale sottopagato.

Annamaria Testa, “La condivisione del sapere è magnifica. Ma chi paga che cosa?”, «Internazionale.it», 29/03/2016.

Illustrazione: Paul Baran, “Tipologie di reti” (1964).

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