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Situazione attuale in Afghanistan e fine dei negoziati Usa con i Talebani. Soundcentral, festival di musica alternativa a Kabul. Golpe e dominazioni. Al Jabri: modernismo dell’Islam. Derrida: divenire “altro” dell’Occidente. Said: critica all’orientalismo di maniera. Lloyd Miller e i concerti di tambuir. Le band di Soundcentral: Unknown District, White City, Kabul Dreams, Ring of Steel, Tears of Sun. Adorno: falsa alternativa e logica del consenso. Franco Fabbri: psicoguerra americana e riferimenti musicali datati. Esempi memorabili della musica islamica: Uhm Khultum, Nusrat Fathe Ali Kanh, Nasida Ria, Cheb Khaled. La biodiversità musicale e le forme del divertimento.
In Afghanistan, dove il ritiro delle truppe è previsto per il 2014, il compito di negoziare la pace con il Talebani è stato recentemente accantonato dagli Usa, per essere lasciato al governo locale; al fallimento della missione internazionale potrebbe accompagnarsi il rischio di una nuova guerra civile, con esiti ancora una volta disastrosi. Nel frattempo a Kabul, anticamente ultima tappa verso l’India e non lontana dalla Cina, si è appena svolta la seconda edizione di Soundcentral, festival di musica alternativa organizzato da Travis Beard, frizzante fotoreporter australiano.
L’emittente del Qatar Al Jazeera ha celebrato il festival e la «ribellione giovanile del rock» con stereotipi filoccidentali imbarazzanti e datati. L’agenzia stampa britannica Reuters ci informa che secondo Masoud Hasan Zara, giornalista full-time e cantante part-time originario della città di Herat, vicina al confine tra Iran e Russia, la gente del luogo spesso è «troppo tradizionale» ed è difficile parlare di «musica moderna», specialmente di blues: che però in qualche modo è «tradizionale» a sua volta, e forse nemmeno è più tanto «moderno», se moderno significa ancora «relativo e proprio del momento presente».
Qualche indispensabile precisazione. In Afghanistan, paese prevalentemente montuoso, arido e povero da sempre, il divieto verso i concerti rock, che certo non erano numerosi, è stato sancito nel 1981 dalla dominazione sovietica, per essere confermato dopo il 1989 dalla Repubblica del Nord, che con le sue sanguinose repressioni preparava la strada al regime altrettanto feroce dei Talebani, i quali dal 1996 hanno criminalizzato ogni manifestazione musicale non religiosa. I Talebani, dopo undici anni di guerra, sono ancora piuttosto influenti nonostante le elezioni del 2005 e del 2010, al punto che il presidente Karzai suggerisce al loro leader Mullah Omar di candidarsi a sua volta.
L’islamismo è generalmente poco interessato a musiche e ad altre manifestazioni culturali di matrice occidentale e secolarizzata, ma questo non significa che non le conosca: soprattutto, la modernità e le sue forme non sono necessariamente osteggiate, nemmeno dagli integralisti, e anzi nel complesso l’Islam è attualmente animato dalla ricerca di una propria modernità, del tutto ndipendente dalla razionalità del cogito cartesiano, della quale è stato un esponente significativo il filosofo marocchino Al Jabri, che si spera possa un giorno sorprendere il mondo intero.
A sua volta, anche l’Occidente è in una crisi ormai cronicizzata, e ha certamente bisogno di reinventarsi, senza appiattirsi su quell’attitudine piuttosto in voga tra gli annoiati che abusa di xenofilia e autodenigrazione che crede fico considerare che altre culture siano sempre meglio della propria. L’attitudine è riconducibile anche a quello che Edward Said chiamò «orientalismo»; peraltro, l’Occidente non è nemmeno riducibile alla logica di dominio razzista di cui è manifestazione anche la xenofobia, laddove, come segnalò Jacques Derrida, è caratterizzato dal costante divenire «altro da sé».
Insomma, indipendentemente degli ignoranti e dai barbari di ogni dove, le civiltà da sempre si incontrano: non sono certamente blocchi monolitici, ma nemmeno possono ridursi ad esercizi di stile.
Al riguardo, nel 1974, durante l’esperienza della prima repubblica afghana, proclamata con un golpe dal già primo ministro Mohammed Daud durante un’assenza di re Zaher, il musicista e musicologo americano Lloyd Miller, collaboratore del trombettista e direttore d’orchestra Don Ellis e profondo conoscitore della musica persiana, organizza in Occidente memorabili concerti di tambuir, strumento tipico afgano che ritroviamo anche alla base del sitar indiano. Successivamente, una serie di colpi di stato bruceranno le esperienze repubblicane e socialiste del paese, portando all’invasione sovietica e all’intromissione americana, nelle sue fasi iniziali piuttosto accondiscendente verso i Talebani e il network di Al Qaeda, comportando così il lungo massacro e l’isolamento del paese.
Quest’anno, a Sound Central, evento che si propone di essere «non-partigiano e non-politico ma semplicemente musicale» hanno chiesto di partecipare più di 50 band. Numerosi sponsor e sedi diplomatiche internazionali hanno messo a disposizione le loro risorse per situazioni rigorosamente alcool-free, come vuole l’Islam. Le proposte si sono ristrette ad una decina di presenze, oltre a vari performer: tra queste, gli Unknown District, band metal afgana di cui la stampa ci avverte che «ha portato sul palco tutta l’energia della giovinezza»; il leader Yo Khalifa ha dichiarato la «sensazione di euforia data dalla libertà di espressione»: a parte i toni dell’ufficio stampa, sulla loro versione di Sweet Dreams degli Eurythmics pesa gravemente l’ipoteca di Marylin Manson, e di afghano sembrano avere ormai solo il senso di una qual certa devastazione. Tra le altre resident band, i White City, fondata dal direttore artistico Travis, la cui hit è Space Cadet, pop-rock ben costruito dal vago sapore post-sovietico, e tuttavia afgana come un hashish tagliato con la paraffina; l’indie rock dei Kabul Dreams, di cui Chill Morghak sembra davvero rock e anche abbastanza originale, ma è in loco reputata come pessima influenza secolarizzante filo-occidentale.
La proposta più interessante è quella offerta dai Ring of Steel, dei quali In Fear of the Massacre tributa la giornalista Marie Colvin, la prima ad intervistare Gheddafi dopo il golpe e morta recentemente in Siria sotto le bombe governative; il lungo brano ne utilizza gli scritti in uno sperimentalismo ambient e post-rock evocativo e sospeso, con riprese di guerra low-fi.
In rappresentanza di altri paesi, ci sono stati gli uzbeki Tears of the Sun, con un funk-rock ben strutturato, gli australiani Pit Panther Party e il loro brutal rap metal dai contenuti politici. Ospiti di punta, gli Asian Dub Foundation, e come contorno artisti multimediali quali Arian Delawari, e inoltre busker, graffitari e dj. Il clip promozionale, com’è piuttosto tipico, non facilita la comprensione del contesto e dei contenuti musicali, e la sua conclusione, dove il pur simpatico Travis indossa in rapida successione le magliette delle band occidentali più alla moda, può divertire ma anche inquietare; dal canto loro, i giovani ripresi e intervistati sembrano divertirsi esattamente come ci si dovrebbe divertire anche in Occidente, e tutto sembra un film già visto.
Del resto, l’influenza occidentale di questa new wave afghana non può né stupire né scandalizzare, e visti gli sconvolgimenti e i disequilibri del paese è pure inevitabile prenda queste forme, e certamente c’è anche bisogno di nuova musica e di un festival che la rappresenti; tuttavia, se l’attuale movimento non sarà accompagnato da un generale ripensamento culturale, e se alla base di queste manifestazioni sussistono per davvero soltanto consumi indotti e scimmiottamenti beceri, per cui le alternative e le stravaganze sono solo quelle che è possibile ricomporre in una logica di consenso, troverebbero la loro più drammatica pertinenza i concetti di «pseudo-individualizzazione» e di «standardizzazione» elaborati a suo tempo da Theodore Adorno per comprendere quel capitalismo avanzato in nome del quale ancora facciamo guerre e raccogliamo cocci.
Nel 2001, durante i bombardamenti americani, trasmissioni radio del Quarto Psycological Operantions Group incitarono alla ribellione contro Al Qaeda e Bin Laden, disseminando nel paese radioline paurosamente simili ad ordigni esplosivi, e diffondendo musiche terribilmente datate. Il musicista e musicologo Franco Fabbri, prendeva occasione per ricordare la varietà culturale e musicale del mondo islamico, le cui forme si diffondono su un’area estremamente estesa e oltre i confini delle nazioni. Esempi ormai storici sono la cantante egiziana Umm Khultum, morta nel 1974, che intonava sul sistema modale arabo maqamat lunghe improvvisazioni basate sul Corano, il qawwal del pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, morto nel 1997, dal misticismo erotico e coinvolgente, il qasidah modern delle indonesiane Nasida Ria, nove deliziose donne dal capo coperto radicate nell’Islam e attente all’attualità, e il raï di Cheb Khaled, trasferitosi da tempo in Francia, che ha introdotto nella musica nordafricana elementi ispanici, chanson, rock e reggae, a suo tempo fortemente criticato dai fondamentalisti ma estremamente rappresentativo della cultura algerina.
La biodiversità di questo mondo musicale potrebbe anche essere travolta dall’invasione di band pseudo-rock e non so che altro, capaci di introdurre un ulteriore divario culturale. Tuttavia, occorre anche ricordare che la musica da sempre compendia per ultima le caratteristiche più decisive dei suoi tempi, nutrendosi anche di equilibri precari e ampie confluenze. Il suo più grosso rischio è quello di limitarsi a “divertire”, dove divertirsi significa essere presi nel vortice dell’intrattenimento banale: ma da tempo a Kabul non ci si diverte mai per davvero, e questo è certamente un vero peccato.
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Fotografia: Claudio Comandini, “Frattura” – L’Aquila, agosto 2010.