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Oltre a quelli relativi allo scandalo Volkswagen, altri dati poco rassicuranti arrivano dalla Germania: stipendi bloccati, infrastrutture che invecchiano, consumi in ristagno, crescenti tensioni sociali. E nonostante il mercato europeo da anni ne denunci le ripercussioni negative, la locomotiva del continente continua a mantenersi sui binari pompando combustibile nel motore delle esportazioni. Inoltre, 90 miliardi di investimenti pubblici e privati sono venuti meno, aumentano i costi dell’austerity tanto voluta, mentre dalla Deutsche Bank alle banche locali gli istituti di credito sono pieni di titoli tossici, portando così a perdite multimiliardarie. Appaiono tuttavia inattaccabili il primato e la centralità di un Paese popolato da 80 miliardi di persone, caratterizzato da un rischio default quasi pari a zero e capace di produrre una ricchezza annuale di 4 trilioni di dollari. E mentre le importanti problematiche che coinvolgono la Germania e l’Europa sono percepite in modo opaco e confuso, una diffusa e banale retorica antitedesca rischia di danneggiarne il compito di guida, dal quale gli altri Paesi non riescono ancora a prescindere. Il diffuso atteggiamento schizofrenico nei confronti della Germania si scontra pertanto con il paradosso che se il Vecchio Continente non può parlare soltanto la lingua di Berlino, nell’orizzonte europeo altri leader latitano oppure non sono credibili. Il dossier ”La locomotiva nel tunnel” pubblicato dalla rivista «Valori» contribuisce a sfatare alcune facili convinzioni sulla superiorità del modello tedesco e al contempo di relativizzare diffuse quanto superficiali ostilità verso la Germania; in un articolo di Matteo Cavallino, le opinioni di Angela Merkel, Volker Lauder, Sebastian Haffner e Angelo Bolaffi, permettono di fare alcuni conti con la leadership depotenziata di un Paese al contempo troppo piccolo e troppo grande.
Angela Merkel, ricordava nei mesi scorsi il settimanale Der Spiegel, confidò un giorno ad un ristretto gruppo di consiglieri quale fosse la sua visione del Paese: «Siamo per l’Europa ciò che gli americani sono per il mondo, siamo la potenza leader che gli altri non amano.» Il parallelismo era apparentemente logico. Ma forse non del tutto appropriato. Perché a differenza degli Stati Uniti, la Germania sembra esprimere tuttora una leadership depotenziata. Una caratteristica, quest’ultima, capace di negare implicitamente tanto i sogni di gloria di chi vede nel modello teutonico del modello “riforme e rigore” uno schema senza difetti da esportare nei Paesi UE – «Improvvisamente in Europa si parla tedesco», affermò nel 2011, salvo poi pentirsene il capogruppo della CDU al Bundestag Volker Lauder – quando i timori di chi nella Germania vede tuttora una potenza essenzialmente aggressiva se non addirittura “imperialista”. Tempo fa, lo storico Sebastian Haffner definì quella tedesca «una dimensione ingombrante», caratteristica tipica, osservava Der Spiegel, di un Paese troppo piccolo e troppo grande al tempo stesso e destinato, per questo, ad esercitare egemonia mantenendosi tuttavia debole. Un ragionamento, rileva ancora il settimanale, che «potrebbe risultare valido tuttora».
Le riflessioni di Haffner, esule a Londra durante la guerra e oltre, risalgono al 1987 (e al saggio Von Bismarck zu Hitler: Ein Rükblick, Da Bismarck a Hitler: uno sguardo retrospettivo, uscito in inglese come The Alling Empire), tre anni prima della riunificazione e della conseguente revisione dell’equilibrio globale e continentale. Il nuovo assetto geopolitico, come noto, è passato anche attraverso l’euro, la moneta pensata per disinnescare quella “bomba atomica”, come si diceva al tempo, chiamata marco tedesco, il simbolo del successo e della solidità della Repubblica Federale. Ma il seguito, si sa, è altrettanto noto: la moneta imposta alla Germania si è trasformata nella valuta del malcontento e il mito, totalmente fasullo, dell’euro come “invenzione tedesca” (sic) continua a diffondersi nel cortocircuito di un continente tuttora incapace di risolvere il suo rapporto con la Germania.
«In Europa c’è una sorta di schizofrenia. Da un lato si apprezza il funzionamento del sistema tedesco e la serietà della sua classe politica; dall’altro si manifesta insofferenza di fronte alla leadership che il Paese ha assunto nel Continente» spiega a Valori Angelo Bolaffi, filosofo della politica, germanista ed ex direttore (2007-11) dell’Istituto di cultura italiana a Berlino. «Per anni – prosegue – la Germania è stata accusata di egoismo di fronte alla crisi dell’euro e ai piani di austerità. Oggi, in compenso, Paesi come Austria, Regno Unito e Polonia rimproverano a Berlino un eccesso di generosità verso i profughi».
Ed è proprio in questo contesto, rileva ancora Bolaffi, che la “questione tedesca” sembra aver prodotto una vera e propria inversione di rotta. «È dai tempi di Bismarck che essa rappresenta la vera “croce” dell’Europa, un vero e proprio elemento destabilizzante» spiega. «Oggi paradossalmente abbiamo una Germania molto filoeuropeista e altri paesi che resistono in nome dell’antigermanesimo. La soluzione è una sola: occorre costruire un’Europa che abbia a cuore Berlino. È chiaro che non esistono paesi in grado di prendere il posto della Germania nel ruolo di leader continentale; ma è altrettanto evidente che la Germania non può fare da sola.»
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Pubblicato come “Retorica antitedesca un limite per la UE” su «Valori. Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità», a. 15 n. 134, dicembre 2015 – gennaio 2016, Cooperativa Editoriale Etica, pp. 16-17, ISBN 978-88-99095-14-7.
Fotografia: Claudio Comandini, “La giostra d’Europa” – Berlino, ottobre 2015.