
Strano scoprire come gli animali esistano di per sé: constatare quanto la loro vita sia indipendente da quella di noi uomini, padroni del creato ed elargitori di nomi. Infatti, nelle zone selvatiche, possiamo scoprire cervi, tassi e volpi nel pieno della loro eleganza, perfettamente liberi nel loro contesto, poco inclini a sopportare la nostra presenza. In confronto a loro, potremmo anche sentire noi come bestie strane, chiuse in qualche recinto. A segnalare che gli animali esistono in un mondo diverso dal quello umano, con il quale potrebbe essere anche pericoloso entrare in contatto, ci sono poi anche malattie che prendono nomi dalle specie animali: e alle più tradizionali malformazioni equine si aggiungono i contemporanei contagi aviari e suini. Probabilmente, tali aspetti derivano dal fatto che il mondo della modernità, regolato dalla scienza, ha largamente escluso gli animali dall’universo umano. Tuttavia, già l’attento occhio filosofico di Hume li aveva segnalati come a noi simili nelle fondamentali funzioni fisiche e intellettive, esortandoci inoltre a trattarli con cortesia; in un’età ancora più vicina, lo sguardo artistico di Beatrix Potter li riconduceva negli spazi domestici facendoli vestire e comportare come noi. E se guardiamo bene le persone che conosciamo, potremmo anche ritrovare tratti capaci di ricordarci differenze che rimandano a quelle tra cani, gatti, pesci e plancton. Così, al senso dell’uomo padrone di tutto, si affianca in forma crescente un sentimento animalista, che sembrerebbe in grado di riequilibrare i rapporti. Eppure Agamben ci mette in guardia nei confronti della contemporanea perdita della distinzione tra uomo e animale, la quale non sembra accadere perché andiamo verso una qualche integrazione, ma piuttosto perché siamo costretti ad essere impotenti testimoni del degradare della vita umana, dotata di forma e senso, ad una vita intesa in senso piattamente naturalistico, nella quale l’uomo si scopre incapace di relazioni se non nella forma più banale e immediata, sovraeccitato eppure incapace di esperienza, privo di diritti e ambizioni al di fuori del sopravvivere. E se c’è una bestializzazione incipiente della nostra attualità, Massimo Pamio legge, con un occhio poetico e l’altro critico, che nella convivenza tra uomini e animali domestici non c’è il nostro accedere ad un’incondizionatezza affettiva, ma piuttosto si rimane nello specchio distorto del nostro narcisismo.
Nel lontano anno 2000 compii un viaggio a Parigi, nel corso del quale avvertii per la prima volta un fenomeno molto curioso completamente sconosciuto a me italiano che mi colpì particolarmente. I parigini, a sera, si riversavano nelle strade accompagnati dal loro cane. Molte donne e pochi uomini, dall’età apparente tra i trenta e i cinquanta, si alternavano in una vera e propria sfilata con esemplari di tutte le razze canine al guinzaglio, per la maggior parte silenziosi, eleganti, impettiti, insomma ben educati, come i loro proprietari, molto snob o radical chic, oppure come i pargoli francesi, che avevano destato subito la mia attenzione, ai quali non scappava mai una lacrima, silenziosi a tavola, ubbidienti, fior di bambini, a differenza di quelli di casa nostra strepitanti e scostumati, invadenti e rompiscatole. Le donne più sofisticate tenevano il cagnolino di piccola taglia nelle borse da passeggio. I cani cittadini erano ospitati negli appartamenti dei palazzi, a stretto contatto di gomito con i proprietari!
Appresi anche un altro uso tipicamente parigino, in base al quale, nelle ore piccole, accanto agli usci si avvicendevano maschi ubriachi incontinenti e cani a rompere le loro acque. Così se mi succedeva di stare sveglio in giro fino a notte tarda mi accadeva di notare l’abilità con cui razze umane e canine avevano cosparso di ostinate pozzette pregne d’un lezzo d’incontestabile origine prostatica o vescicolare le infelici lucenti pavimentazioni della Ville Lumiére. Le rue comunque all’alba venivano prontamente irrorate di ben altro liquido (acqua e disinfettante, spero) spruzzate da macchine specializzate alla bisogna (o ai bisognini, fate voi), macchine anche quelle per me ignote, che passavano spedite accanto alle porte, cancellando ogni traccia, lavando via urina d’ogni specie o razza e soprattutto prendendo in pieno gli incauti ritardatari, i passanti notturni che non avevano trovato la strada di casa o avevano rinunciato a entrare proprio a causa delle pozze maleodoranti che rendevano malmostosi i turnisti di notte, le lucciole, i bohémien più estremi e accaniti, i turisti perdigiorno come me innamorati persi della Città.
Non passarono molti anni che il fenomeno si allargò pian piano a macchia d’olio (e di urine e peggio ancor di feci) fino a interessare tutto il nostro Paese, sdoganando quella che probabilmente voleva essere solo una moda. Che i francesi fossero così fatui non me lo aspettavo; la moda comunque prese piede in Italia a tal punto che nelle nostre strade è stato per tanto tempo difficile metter piede (fino a che Sindaci particolarmente illuminati hanno emesso ordinanze su come accompagnare i cani, ovvero muniti di guanti, paletta e sacchetto, spesso omettendo di sistemare cestini appositi per il disbrigo della pratica). Mi sono chiesto solo di recente il motivo per cui il genere umano europeo abbia avuto così tanto bisogno di affiancarsi un cane. Ebbene, non si tratta di carenza di affetto, come tutti gli psicologi sostengono, e neppure un atavico sentimento che sospinge masse di inurbati a restare in qualche modo in contatto con Madre Natura.
No, la verità è un’altra, che forse ci guardiamo bene dall’ammettere.
Chi adotta un cucciolo o un alano dentro il proprio appartamento di cento metri quadrati, sfidando i vicini che protestano inutilmente per i latrati notturni, chi si sente in empatia con l’animale lo fa per una sorta di sfruttamento sentimentale. Mi sembrava questa la soluzione. Il povero cane è obbligato a riempire vuoti di affetto e a comportarsi come un uomo, snaturando completamente la sua animalità. Di recente, invece, ho capito che la questione è ancora più grave. Il cane viene adottato in appartamento dall’uomo europeo per l’adorazione idolatrica. Il cane sarebbe assimilato a un idolatra, un adoratore di immagini. Di quali immagini?
Di quella del proprietario, naturalmente. Il cane vi fa le feste appena percepisce la vostra immagine, non ha bisogno di sapere come siete interiormente, se provate per lui qualche sentimento o meno, se lo contraccambiate. Appena entrate nella sua sfera visiva o olfattiva, l’animale esulta, ripieno del vostro splendore.
Più che iniziare a saltare, a abbaiare, a festeggiare, più che leccarvi, scodinzolare, farvi gli occhi dolci, mettersi su due zampe, accucciarsi affinché voi lo degniate di un minimo apprezzamento, il cane vi glorifica. Non vi tradirà mai, neanche quando invecchiato avrete bisogno di un lifting. Conosce le vostre rughe, le adora., le ha adorate fin dal primo momento, al loro spuntare, a differenza di vostra moglie che, non ve l’ha detto, ma si è trovata un amante più giovane. Il cane è dunque il soggetto del vostro narcisismo più profondo, vi ama per la sola vostra immagine, si specchia come Narciso nella pozza del vostro volto e del vostro corpo, pazzo di voi. Non c’è bisogno di comprendersi, di stabilire un dialogo, anche se solo a gesti; il cane ama voi come voi amate l’icona della vostra attrice preferita. Solo l’icona, senza contenuto. Voi siete per il cane una specie di simulacro, un feticcio.
Gli europei sono diventati narcisisti in un modo preoccupante: amano soltanto chi ama la loro superficie, sono la quintessenza dell’epidermicità. Meglio pulire la cacca del cane piuttosto che dialogare con la moglie o i figli. L’affetto non è emozione, è riconoscimento dell’immagine, è un fatto televisivo.
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Massimo Pamio, “Del perché gli europei tengono in casa il cane”, «Noubs Edizioni», 11/03/2016.
Fotografia: “Cane domestico europeo” (senza data).